Le basi sociali del modello di mobilità spaziale delle città italiane

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Soprattutto tra i giovani e tra i
nuovi ceti urbani sta cambiando il rapporto con i mezzi ed i sistemi di
trasporto. Determinate opzioni, prima date per acquisite, vengono messe in
discussione. L’auto rimarrà centrale negli spostamenti degli italiani
ma perderà progressivamente il suo appeal di bene simbolo. Si potrà
scegliere di usarla senza possederla, di condividerne l’utilizzo con altri, di
utilizzare il trasporto pubblico in tutte le situazioni in cui questo si dimostrerà
competitivo, o di riscoprire le proprie gambe come mezzo di trasporto pratico,
economico, versatile ed integrabile. E’ probabile che anche i
soggetti di offerta e i decisori pubblici si
troveranno ad operare su un terreno diverso dal passato.

21 Settembre 2017

B

Marco Baldi

Il ciclo lungo e pervasivo della “cultura del soggetto” nella crescita del Paese

Quando si osservano i dati relativi al sistema della mobilità oggi in essere nelle città italiane prevale un senso di scoramento: abbiamo i tassi di motorizzazione più elevati d’Europa (62 veicoli ogni 100 abitanti), più del 60% degli spostamenti avvengono con mezzi privati a motore, i chilometri di metropolitana sono pochi (decisamente meno di quelli disponibili nelle principali città europee) e crescono lentamente, il trasporto pubblico di superficie è per il 65% su gomma ed è mediamente lento e inefficiente, gli spostamenti con mezzi privati sostenibili (a piedi, in bicicletta, con veicoli a basso impatto) rimangono percentualmente quasi irrilevanti, gli investimenti (nel trasporto pubblico e nelle infrastrutture) sono in caduta libera da anni.

Nei libri dei sogni, o se vogliamo nei PUMS (i Piani Urbani della Mobilità Sostenibile che molti comuni italiani hanno diligentemente redatto) ci sono tante belle cose, tanti obiettivi altamente condivisibili. Ma la realtà, purtroppo, è un’altra, e può essere utile interrogarsi sulle ragioni socio-culturali che hanno determinato la situazione attuale, se si vuole provare ad innescare davvero un percorso di “redenzione” approfittando di alcuni segnali di cambiamento che sembrano attraversare oggi il corpo sociale.

È verosimile che un ruolo importante, al riguardo, sia stato giocato da quella cultura del “primato del soggetto” che per almeno cinque decenni ha supportato il nostro modello di sviluppo. Nelle analisi storiche del Censis al soggettivismo è stato riconosciuto il ruolo di straordinario motore per lo sviluppo di massa, dal basso, orientato sull’individuo e sui legami familiari e parentali. L’affermazione del soggettivismo ha consentito una proliferazione di identità che hanno poi trovato nella corsa al benessere e nella “cetomedizzazione” il veicolo della loro coesione.

Questa cultura diffusa, a ben guardare, soprattutto tra gli anni ’70 e ’90, ha pervaso tutti gli spazi dell’agire sociale determinando o accompagnando:

  • la crescita per proliferazione dei soggetti economici (le tante “micro-imprese”);
  • la coltivazione minuziosa del connubio tra impresa e famiglia;
  • l’affermazione del cosiddetto “capitalismo personale” e del “capitalismo di lavoro”;
  • lo sviluppo dei distretti del made in Italy;
  • la crescita del sommerso di impresa e di lavoro;
  • la crescita dei consumi come elemento di definizione e rappresentazione identitaria.

Ma la cultura del soggetto si è imposta anche nei comportamenti di mobilità:

  • alla domanda di mobilità delle persone si è fatto fronte assecondando le scelte individuali, fortemente centrate sull’uso del mezzo privato;
  • per il trasporto delle merci si è fatto riferimento alla gomma (basandosi essenzialmente sulla figura del “padroncino”).

Nei fatti, il modello che il Paese ha adottato – lungi dall’essere frutto di un disegno sovraordinato a cui chiedere adesione – si è imposto dal basso, seguendo la deriva soggettivista che ha caratterizzato la maggior parte degli ambiti della vita collettiva.

Anche il modello insediativo italiano è sempre stato profondamente caratterizzato dal soggettivismo. Per decenni abbiamo assistito alla progressiva separazione dei concetti di spazio fisico e di spazio sociale. Nelle cinture urbane dei poli maggiori, in quelle che oggi chiamiamo “città metropolitane”, si sono affermate modalità abitative che negavano il concetto stesso di comunità e che, per quote importanti di abitanti hanno frantumato lo spazio sociale. Almeno fino ai primi anni 2000 si “artificializzavano” 20 ettari di territorio al giorno creando luoghi a bassa densità e a basso numero di funzioni facendo così impennare il pendolarismo verso i poli di riferimento senza che si sviluppassero adeguate reti di trasporto collettivo su ferro.

D’altra parte, insieme al soggettivismo si sono affermati tanti differenti processi di “ricomposizione etica” basati sul riconoscimento e la legittimazione di esigenze di tipo soggettivo: dall’abusivismo di necessità, al lavoro irregolare, dall’obiezione fiscale, fino all’elusione delle regole del codice stradale.

Il soggettivismo italiano ha funzionato molto bene per tanti anni, alimentato da un tacito scambio tra le famiglie e le imprese da un lato, e lo Stato e gli altri soggetti istituzionali dall’altro. Le prime hanno operato e sono cresciute in un orizzonte caratterizzato da un sostanziale benestare della mano pubblica. Quest’ultima era rassicurata da un sistema che cresceva senza la necessità di un progetto esplicito: bastava garantire ampie possibilità di accesso e la conseguente proliferazione soggettuale.

La crisi del soggettivismo e i primi segnali di affermazione di una cultura della relazione

Il primato della “cultura del soggetto”, che ha mostrato i primi sintomi di erosione con l’ingresso nell’euro, con la crisi economica partita nel 2008 è entrato decisamente in sofferenza. Molte piccole imprese scarsamente competitive sono scomparse; il binomio soggettività-crescita ha smesso di funzionare. Sì è verificato un allargamento delle disuguaglianze sociali con una caduta dei redditi più bassi. Il consumo interno si è arrestato. Oggi sono in pochi a pensare che quel meccanismo di inclusione e di accumulazione delle risorse possa ripartire con la stessa forza del passato. Ci si interroga piuttosto sulle opportunità connesse ad un eventuale passaggio da uno schema tutto centrato sul soggetto ad uno intrinsecamente diverso, costruito invece sulla dimensione relazionale e su una nuova dimensione comunitaria.

Sicuramente qualcosa sta avvenendo nel mondo del digitale e della telematica. In quest’ambito la modernità tende ad escludere il soggettivismo, la coscienza individuale, e premia la capacità di vivere ed interpretare le reti, le connessioni. Ma anche l’ambiente urbano – anch’esso archetipo di modernità – presenta alcuni fattori di cambiamento e nuove opportunità. Il superamento della attuale povertà dello spazio collettivo, ad esempio, così come la rigenerazione di luoghi ad elevata densità funzionale vengono sempre più riconosciuti come le sfide per i prossimi anni. Il soggettivismo si era affermato come primato dell’individuo liberato dai vincoli del comunitarismo. Esorcizzati definitivamente questi vincoli, la comunità può nuovamente recuperare energia e dispiegare i suoi effetti taumaturgici su una società da un lato avvilita e impaurita dall’altro alla ricerca di nuove soluzioni.

Certamente, a differenza del soggettivismo, questi processi richiedono un accompagnamento da parte della politica e delle istituzioni. Occorre, in particolare, rimettere le relazioni al centro. In passato si progettavano le piazze per far stare la gente assieme, oggi occorre pensare a luoghi, spazi, e funzioni dove si possa ricreare spirito comunitario e generare nuovo valore (sociale ed economico).

Cultura della relazione e mobilità urbana

Riguardo all’attuale modello di mobilità è difficile pensare che possa trovare legittimazione – o addirittura imporsi – un drastico ripensamento basato sul forte investimento nel trasporto collettivo e sulla contemporanea penalizzazione del trasporto privato. Le condizioni generali di contesto (la disponibilità di risorse pubbliche, la sedimentata struttura insediativa, lo stesso clima sociale), non lo consentiranno se non in modo parziale in alcuni ambiti specifici.

Però la crisi del soggettivismo determinerà (e in parte sta già determinando) delle conseguenze anche sul piano della mobilità delle persone. Potrebbe svilupparsi un’attitudine, uno sforzo collettivo, a mantenere e far crescere da un lato la sicurezza e la libertà personale, e dall’altro la condivisione nell’uso delle risorse territoriali. Un’attitudine che garantisca finalmente la ricomposizione tra spazio fisico e spazio sociale.

Un’attitudine che andrebbe incoraggiata con un dispositivo di “governo” della mobilità che, piuttosto che appuntarsi sulle scelte modali distinguendole tra buone e cattive, sostenibili e insostenibili, tenti di offrire delle risposte a questo bisogno ambivalente e apparentemente contraddittorio.

Naturalmente occorrerebbe agire anche su terreni “limitrofi” a quello della mobilità, sfruttando l’esaurimento del ciclo soggettivista per proporre città più compatte, funzioni urbane meno accentrate, condizioni lavorative più flessibili, maggiore (e migliore) utilizzo delle reti telematiche. L’erosione di alcuni meccanismi alla base della rendita immobiliare possono agevolare questi processi e lo stesso può dirsi del progressivo affrancamento dal possesso di un’auto come condizione indispensabile per soddisfare le esigenze di spostamento.

Certamente, soprattutto tra i giovani e tra i nuovi ceti urbani sta cambiando il rapporto con i mezzi ed i sistemi di trasporto. Determinate opzioni, prima date per acquisite, vengono messe in discussione. Le scelte diventano via via meno vincolanti e definitive. Sta aumentando l’arbitraggio individuale in una situazione di maggiore “pragmatismo” modale. L’auto rimarrà centrale negli spostamenti degli italiani ma perderà progressivamente il suo appeal di bene simbolo (di appartenenza ad una determinata condizione economica e sociale e di svincolamento dal regime penalizzante del trasporto collettivo). Si potrà scegliere di usarla senza possederla, di condividerne l’utilizzo con altri, di utilizzare il trasporto pubblico in tutte le situazioni in cui questo si dimostrerà competitivo, o di riscoprire le proprie gambe come mezzo di trasporto pratico, economico, versatile ed integrabile.

Se davvero la domanda di mobilità si affrancherà progressivamente da abitudini comportamentali precostituite, da scelte ritenute immodificabili, se aumenterà l’attenzione all’evoluzione del contesto e delle possibilità che esso offre, allora è probabile che anche i soggetti di offerta e i decisori pubblici incaricati di funzioni regolative si troveranno ad operare su un terreno diverso dal passato, dove il concetto cardine da declinare e operazionalizzare non sarà solo quello di alimentare un (improbabile) shift modale dal trasporto privato al trasporto collettivo, ma quello di accompagnare l’affermazione di questo nuovo “pragmatismo modale e intermodale”.

Il 25 ottobre, all’interno di ICity Lab 2017 (Base Milano, 24-25 ottobre) Marco Baldi modererà il convegno “ Mobilità urbana e sostenibile: l’innovazione che facilita la viabilità

Questo articolo è parte del dossier “Dalla smart city alla città sostenibile”.

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