I rischi di una cittadinanza senza cittadini
6 Dicembre 2015
Piero Dominici, docente Università di Perugia
Il concetto di “cittadinanza” è, come noto, un concetto complesso che vanta una letteratura scientifica estremamente articolata di area non soltanto giuridica (1). Un concetto o, per meglio dire, una categoria del pensiero politico e sociale che, come numerose altre categorie della Modernità e dei saperi da essa prodotti, richiede urgentemente una ridefinizione e un ripensamento (ne parlavo già alla fine degli anni Novanta) e non – come spesso traspare anche dal dibattito pubblico – una semplice estensione/adeguamento funzionale alla prassi tecnologica.
Dal campo semantico vasto, si tratta di un concetto appunto complesso, riconducibile in qualche modo ad un NOI che si contrappone ad un VOI, che chiama in causa quelli altrettanto fondamentali di identità, riconoscimento, soggettività, comunità (politica), territorio, diritti sociali, cultura, inclusione vs. esclusione etc. e che conferma ripetutamente la sua natura storicamente determinata e problematica. Di conseguenza, gli stessi diritti di cittadinanza vanno ripensati se non altro perché siamo ormai tutti membri di una società che, nonostante i drammatici conflitti e le evidenti asimmetrie/disuguaglianze, è globale e cosmopolita. Tematiche e questioni che, proprio nell’era della globalizzazione e del nuovo ecosistema, dell’economia politica dell’insicurezza e dei grandi flussi migratori, assumono una centralità ancor più strategica, pur rischiando di essere definiti e restituiti in maniera banale e/o quanto meno semplicistica. Al centro di ogni discorso ci sono/ci devono essere le Persone e le Soggettività ma in quanto appartenenti ad una comunità politica e ciò riafferma la complessità di un’analisi, che è evidentemente legata ad una molteplicità di indicatori e variabili. Detto questo, come vado ripetendo da anni, si continua a non considerare con la necessaria attenzione chi siano effettivamente i cittadini/destinatari di servizi, politiche (?), strategie che, al di là di tecnologie, piattaforme e pubbliche dichiarazioni d’intenti, continuano ad essere sostanzialmente “calate dall’alto“; “chi siano” e quali caratteristiche abbiano, con riferimento non soltanto alle cosiddette variabili strutturali, ma anche, e soprattutto, a variabili e indicatori non più trascurabili come quelli legati all’analfabetismo funzionale, alla povertà educativa, all’educazione e formazione alla complessità ed al pensiero critico.
Il rischio è quello di una cittadinanza senza cittadini. Il rischio è quello di promuovere una partecipazione a soggetti/attori sociali che, di fatto, non hanno gli “strumenti” (evidentemente, non mi riferisco a quelli tecnici e tecnologici) per partecipare concretamente. Ne ho parlato diversi anni fa, proponendo una definizione che in molti hanno poi ripreso (spesso senza citare l’Autore): l’anello debole.
Una precisazione doverosa. Intendiamo la comunicazione come “processo sociale di condivisione della conoscenza (potere)” (2), in cui sono coinvolti “attori” sociali, persone in carne e ossa che, in virtù delle competenze possedute, del profilo psicologico, del sistema di relazioni e delle caratteristiche dell’ambiente, possono definire relazioni più o meno simmetriche tra di loro (potere – asimmetrie informative e conoscitive). Considerando fondata l’equazione conoscenza = potere, ne consegue che tutti i processi, le dinamiche e gli strumenti finalizzati alla condivisione della conoscenza non potranno che determinare una condivisione del potere o, comunque, una riconfigurazione dei sistemi di potere e delle gerarchie all’interno delle organizzazioni (nel lungo periodo). In questa prospettiva, come ribadito più volte, il nuovo ecosistema sociale e comunicativo apre interessanti prospettive a processi di democratizzazione del sapere ed è destinato ad accrescere le possibilità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza; ma, affinché ciò avvenga, è necessario che si facciano seriamente i conti non tanto con il “digital divide” (che, con ogni probabilità, sarà risolto nel tempo) – questione evidentemente importante – quanto con il “cultural divide”: si tratta di un discorso di vitale importanza – e non solo per la governance di Internet e del nuovo ecosistema. Abbiamo parlato più volte di “ripensamento della cittadinanza” e di “nuovo contratto sociale” (3) – che riguarda da vicino la scuola e l’istruzione e, più in generale, una riforma complessiva del pensiero e, nello specifico, dell’insegnamento (non ci stancheremo mai di ribadirlo). Attualmente tutti sono concordi, anche certi “tecnocrati”(4) super esperti e guru (?) del “digitale risolve tutto“; tuttavia, basterebbe andarsi a vedere cosa sostenevano loro stessi fino a poco tempo fa per comprendere come, in realtà, il clima culturale non sia cambiato e vi sia tuttora molto conformismo, anche e soprattutto nell’abbracciare un “nuovismo acritico” di maniera. Se si analizzano le principali azioni correttive e le strategie definite, ci si rende subito conto che si tratta di “etichette” o keywords che devono essere inserite nei documenti ed utilizzate per altri motivi. Sempre più frequentemente i giovani, che transitano dalla scuola all’università, oltre a non essere in tanti casi neanche curiosi, hanno molto spesso difficoltà legate alla mancanza della logica (fondamentale) e di un metodo di analisi, di ragionamento, perfino di studio che li metta in condizione di fare connessioni tra i piani di analisi e discorso, di individuare possibili spiegazioni ai problemi, di essere critici nell’affrontare/interpretare una realtà assolutamente complessa (logica e filosofia vanno praticate fino dai primissimi anni di scuola). Mentre, al contrario, si rivelano estremamente abili nell’utilizzo delle nuove tecnologie della connessione, nel navigare e nell’utilizzo (in certi utilizzi) dei social network.
Ma la ridefinizione della cittadinanza (e la qualità della democrazia) richiede con urgenza cittadini consapevoli e responsabili, in grado di valutare e monitorare, di non accettare passivamente le narrazioni e/o le rappresentazioni mediatiche o, peggio ancora, le cose “per sentito dire”. Non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale (qui ricordo un testo che amo e ri-leggo da sempre, e non soltanto con gli studenti…Étienne De La Boétie Discorso della servitù volontaria); cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali, educati e formati al “pensiero critico” ed alla complessità. A tal proposito, adesso anche qualche tecno-entusiasta – etichetta per indicare i moderni “integrati” – inizia finalmente ad affermare che il problema è culturale , non tanto di infrastrutture. In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il “prodotto” complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire “dal basso”, dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate dalla politica, che ha tolto loro autonomia (qualche anno fa parlai di “sfera pubblica ancella del sistema di potere”). Servono politiche (lungo periodo) progettate e realizzate con una prospettiva sistemica (dimensione assente). Altrimenti, serviranno a poco anche processi inclusivi, piattaforme e dinamiche attivate e (concretamente) costruite nella logica della partecipazione, attivate da una Pubblica Amministrazione – questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, sempre più trasparente ed efficiente. Il rischio è di costruire una cittadinanza/democrazia senza cittadini che è in grado di includere solo chi ha strumenti ed è capace di produrre/elaborare/condividere conoscenza. Riaffermo in conclusione il concetto centrale: nella prospettiva fondamentale di superare (chissà quando…) la sterile – ma sempre funzionale a certe logiche di potere – dicotomia/separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica (le due culture), è di vitale importanza educare al pensiero critico ed alla complessità. La conoscenza, necessaria per fronteggiare e metabolizzare l’ipercomplessità e il mutamento in atto, si fonda necessariamente su un approccio multidisciplinare ed è costituita non soltanto da numeri, dati, o da ciò che è matematicamente misurabile (discorso che riguarda anche la nostra cultura della valutazione, a tutti i livelli ). Senza (almeno) il tentativo di perseguire tali obiettivi, non c’è/non ci sarà “buona scuola” o “buona università” che tengano e, soprattutto, non ci potrà essere “vera” cittadinanza (inclusione). Ma soltanto, appunto, l’illusione della cittadinanza e di una relazione meno asimmetrica con il potere che, al contrario, si rivelerà sempre più esclusiva (inclusività vs. esclusività). Una drammatica illusione alimentata e resa socialmente accettabile dalle narrazioni mediatiche e della Rete. E anche parlare di intelligenza collettiva e/o connettiva sarà sempre affascinante, stimolante ma fuorviante e perfino surreale: conformismo e omologazione saranno le forze sociali sempre più egemoni. Una nuova “spirale del silenzio” (Elisabeth Noelle-Neumann) con estensione globale, e poche aree e reti indipendenti dai sistemi dominanti (per usare una figura del moderno, le province dell’impero), in grado di produrre innovazione e (piccoli) cambiamenti. Le utopie della società interconnessa e asimmetrica (5).
In conclusione: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza – che è fatta di diritti, che devono essere conosciuti, ma anche di doveri – e non alla sudditanza: e, per far questo – sia ben chiaro – occorre agire e intervenire là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa società diseguale (scuola e università), che presenta una stratificazione sociale sempre più rigida e netta. Con la centralità posta sui processi educativi e formativi. Essere liberi comporta responsabilità significative di cui non dobbiamo avere paura. Istruzione ed educazione devono formare persone e cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali, perché il problema è culturale, e non tanto di infrastrutture. Ricordando Montaigne, abbiamo un disperato bisogno di “teste ben fatte”, che sappiano essere protagoniste del cambiamento più difficile e necessario, quello culturale.
(1) Su tutti, ricordo il classico di T.H.Marshall, Citizenship and Social Class del 1950 e il lavoro di D.Zolo, 1994)
(2) Dominici,1996 e sgg.
(3) Dominici 1998 e sgg.
(4) Andrebbe affrontato un discorso serio sulla tecnocrazia, sempre più egemone (J.Habermas, a tal proposito, ha parlato di“spirale tecnocratica”,2013).
(5) La definizione è stata proposta e sviluppata dall’Autore in alcuni suoi studi.