Scuola e Università, le dialettiche interrotte
La mancanza di una visione organica di scuola e università è una delle cause dell’assenza di politiche di orientamento e del rischio di continuare a “navigare a vista”
28 Ottobre 2016
Piero Dominici
La relazione assente (mancata) tra Scuola e Università è, come ho avuto modo di affermare in tempi non sospetti, uno degli elementi di maggior debolezza strutturale all’interno dei complessi percorsi di crescita, maturazione e avviamento al mondo del lavoro e delle professioni nel nostro sistema-Paese. La relazione scuola-università (da me definita l’anello mancante), è senz’altro una relazione “debole”, una dialettica interrotta, anzi, per meglio dire, una serie di processi dialettici interrotti che hanno impedito anche il formarsi di una cinghia di trasmissione tra queste due istituzioni fondamentali (per dirla con Calamandrei “organi costituzionali”), in un Paese in cui l’orientamento e le politiche di orientamento praticamente non esistono; infatti, quasi sempre, si tratta di operazioni, più o meno discutibili, ideate e progettate secondo logiche di marketing e, nello specifico, di marketing degli eventi realizzati quasi sempre nell’ultimo anno delle superiori, quello della Maturità. La questione dell’orientamento è fondamentale e siamo molto indietro su questo aspetto, con tutte le ricadute del caso: si tratta di un processo complesso che andrebbe anticipato quanto più possibile, creando le condizioni necessarie e abilitanti in grado, non soltanto di fornire ai nostri giovani le conoscenze e le competenze indispensabili per affrontare il lavoro e le nuove sfide professionali, ma anche, e soprattutto, di metterli in condizioni di affrontare le sfide della vita, che sono anche le sfide di una ipercomplessità legata ad una condizione di incertezza, ormai anche esistenziale e non soltanto conoscitiva.
Scuola e Università non dialogano, oltre a conoscere molto poco i destinatari principali delle loro azioni. E, fino a quando scuola e università saranno “pensate” come entità separate – come “sistemi chiusi” – non andremo da nessuna parte…la “famosa” visione sistemica, molto parlata/dichiarata e poco praticata. L’assenza di politiche di orientamento (lungo periodo) determina numerose ricadute ed effetti negativi sull’intero sistema e vorrei qui aggiungere un ulteriore elemento di riflessione con cui dobbiamo fare i conti: al di là di tutti i discorsi, le rappresentazioni mediatiche, le narrazioni della stampa e nelle reti, le analisi, perfino i tanti luoghi comuni, ma anche e soprattutto i dati raccolti ed elaborati sui titoli di studio, le cosiddette “lauree inutili” (sic!) e l’inserimento sul mercato del lavoro, molti giovani scelgono alcuni indirizzi di studio (fino a qualche tempo fa si sarebbe detto “la Facoltà”), in modo particolare nell’area umanistica ma anche in quella delle scienze politiche e sociali, non per un reale interesse/passione per quelle materie, ma semplicemente perché in quel corso di laurea (si sono sentiti dire/raccontare e, talvolta, lo dico con rammarico, è così…) “è più facile conseguire la laurea”. Parlo, evidentemente, con cognizione di causa, avendo oltretutto progettato e realizzato azioni di customer satisfaction (anche di tipo qualitativo), rivolte agli studenti, nei diversi atenei dove ho insegnato e svolto attività di ricerca, anche quando tali attività non erano ancora previste da regolamenti e riforme (?) varie; anche quando non era ancora stata messa in moto questa “megamacchina” della valutazione (questione complessa che viene sempre più ridotta ad uno sterile oggettivismo scientifico (?) che considera significativo soltanto ciò che può essere “misurato”), piena di contraddizioni e paradossi che, a livelli differenti, sta trasformando sempre più gli insegnanti, i docenti universitari e gli stessi ricercatori, in burocrati; processi e dinamiche che danneggiano il sistema educativo e formativo nel suo complesso e si configurano, sostanzialmente, come strumenti di controllo in grado di ridimensionare anche le vocazioni originarie: educazione, didattica e ricerca (dimensioni non separate). E ciò che emerge, e ritorna con continuità, nelle attività di rilevazione riguardanti il profilo degli studenti, ma anche in quelle di valutazione della didattica e dell’apprendimento (con tutte le criticità relative ai metodi di rilevazione), è una situazione critica, non soltanto per ciò che concerne conoscenze e competenze acquisite, ma anche in termini di motivazioni delle scelte e di individuazione dei percorsi lavorativi e professionali. Inoltre l’Università, in molti casi, si configura quasi come un’area di parcheggio in cui attendere tempi migliori…tempi che difficilmente arriveranno se non ci si prepara seriamente: lo studio e la formazione richiedono sacrificio, al di là di tutta la tecnologia e degli “strumenti” più fantasiosi che possiamo inserire nella didattica, per renderla meno noiosa e più accattivante . Ci sarebbe molto da dire anche sui tanti giovani che decidono di smettere di studiare o di non studiare proprio e che magari, allo stesso tempo, non cercano neanche un lavoro. In ogni caso, per approfondire, oltre ai vari rapporti Istat, Censis, Ocse etc., rinvio eventualmente anche a dati ed elaborazioni sui seguenti siti http://www.almalaurea.it/ e http://www.universitaly.it/ .
Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze. E, nel lungo periodo, per far questo abbiamo bisogno di “teste ben fatte” (Montaigne) , e non di “teste ben piene”, che sappiano organizzare le conoscenze all’interno del nuovo ecosistema cognitivo (2005), altrimenti non si tratterà di “vera” innovazione, cioè quella sociale e culturale. E, come scrissi qualche anno fa, sarà la “società dell’ignoranza” e dell’incompetenza (non solo digitale…): una società edificata sul paradosso e, a livello culturale, su una mancata e fuorviante distinzione tra libertà ed uguaglianza.
In tal senso, pagheremo ancora a lungo la sostanziale inadeguatezza dei nostri percorsi didattico-formativi, tuttora progettati e realizzati sulla miope, oltre che disastrosa, separazione tra le “due culture”, quella scientifica e quella umanistica, sia a livello scolastico che universitario. A livello pratico e operativo, non posso non tornare a richiamare l’urgenza di politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale e, anche in questo caso, la centralità strategica di scuola, istruzione, università è fuori discussione! Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società interconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono/saranno sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse.
Riconosciuta e accettata (?) la rilevanza strategica di scuola e istruzione, dobbiamo tuttavia porci un quesito: possiamo anche soltanto parlare di “cittadini digitali”, di “partecipazione”, di “inclusione” se prima non educhiamo/formiamo le Persone ad essere, in primo luogo, “cittadini”? E la scuola – lo ripeto – è davvero strategica, più di altre istituzioni formali e informali. Certamente, in questa fase così delicata di mutamento (cambio di paradigma, economia della condivisione, società della conoscenza etc.), la scuola assume un ulteriore, oltre che delicato, ruolo di accompagnamento, mediazione, preparazione e supporto ai cambiamenti determinati dalla rivoluzione digitale e dalla società ipercomplessa (Dominici, 2003). Tale aspetto, peraltro, non può essere assolutamente sottovalutato e pone in primo piano anche la “vecchia”, ma sempre attuale, questione della formazione dei formatori …una formazione che non può che essere “continua” e sistematica e che, allo stesso tempo, sappia anche essere flessibile e aperta alle imprevedibilità del momento. Ma c’è un errore di fondo in quasi tutte le analisi riguardanti tali questioni: l’errore strategico è quello di pensare, immaginare, progettare la Scuola e l’Università come “sistemi chiusi”; l’errore è quello di pensarle come entità assolutamente scollegate tra di loro. E uno snodo cruciale che richiede una rinnovata consapevolezza rispetto alle strategie complesse che dovranno segnare i processi di innovazione e cambiamento.
Concludo recuperando una riflessione del passato: “Lo ribadisco con forza ancora una volta: scuola e università, istruzione, educazione e formazione (continua) devono (dovrebbero) essere poste, concretamente (!), al centro di ogni progettualità e processo innovativo (visione sistemica); e, nell’affrontare le sfide della cittadinanza e di una “ innovazione inclusiva ”, che sono le sfide della (iper)complessità ma anche della responsabilità, è necessario essere consapevoli «…non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali». Si avverte, in tal senso, l’urgenza di superare quelle che, in tempi non sospetti, ho definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (proprio in questa prospettiva cfr., in particolare, “ Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente – EQF” e Descrittori di Dublino , riferimenti importanti ma poco conosciuti, anche in ambito accademico). Facendo attenzione, anche con riferimento alle tematiche riguardanti la Scuola e l’Università, alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici, delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. Questa, la definizione che da sempre ho utilizzato: “Innovare significa destabilizzare”. Ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le persone a pensare con la loro testa (a porsi e a fare domande, non accontentandosi soltanto delle solite risposte/soluzioni) e a vedere gli “oggetti” come “sistemi” (e non viceversa)**(cfr. anche Per un’innovazione inclusiva )”. #CitaregliAutori
Tali questioni, evidentemente, riguardano da vicino anche la definizione e realizzazione di quei pre-requisiti essenziali che possono innescare il cambiamento e metterci in condizione di gestire la complessità dei processi di innovazione: ecco perché siamo di fronte all’urgenza di ripensare la nostra Scuola e la nostra Università, tuttora ingabbiate dentro “logiche di separazione” che sono logiche di controllo e di reclusione dei saperi negli stretti confini di discipline isolate tra loro. Questioni e variabili strutturali che, se non corrette, sono destinate a mantenerci in una condizione di perenne ritardo culturale rispetto alle accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica: peraltro, ciò contribuisce a rafforzare la percezione e la credenza diffusa di una “doppia velocità” di tecnologia e cultura, come se la tecnica e le tecnologie fossero un qualcosa di esterno alla cultura ed ai contesti storico-culturali che le hanno prodotte e sviluppate. Servono investimenti importanti in cultura, in educazione e istruzione all’interno di politiche di rilancio degli studi umanistici e della formazione umanistica, per troppo tempo considerati non importanti perché non in grado di produrre (almeno, apparentemente…) effetti/risultati “misurabili” in termini quantitativi.
Come scrissi anni fa, dobbiamo lavorare, a tutti i livelli (da quello individuale a quello sistemico), per ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico anche, e soprattutto, perché siamo di fronte alle sfide di un cambiamento (anche di paradigma) che, storicamente, non può essere imposto dall’alto ma che, al contrario, va costruito ed elaborato socialmente e (appunto) culturalmente.
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