Alla ricerca del merito: in Inghilterra si fa così

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Un intervento di un nostro "cervello in fuga" mette in evidenza le differenze di “reclutamento” in atto fra i dipartimenti d’oltre Manica e le pari università italiane. Oltre al cv del candidato sono richiesti anche una “lettera di compatibilità”, un riassunto sulla strada che si vuole intraprendere e un progetto che illustri cosa e come si vuole studiare e fare anche in collaborazione con i futuri colleghi. Per evitare ogni eventuale intrusione “nepotistica” sarà poi una commissione quasi esclusivamente interna a decidere sull’eventuale nuovo inserimento. In quanto a riconoscimento del merito abbiamo da imparare…

12 Settembre 2012

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Tiziano Marelli

Articolo FPA

Come possano essere diverse le modalità di reclutamento, ad esempio di un ricercatore, fra due nazioni egualmente considerate “avanzate” ma nella realtà profondamente diverse, lo spiega molto bene Marco Barbieri, in un suo recente intervento sul sito dell’Università degli Studi di Padova. Barbieri, che è giustappunto fisico ricercatore (emigrato ad Oxford), mette in parallelo le situazioni italiana e inglese e, in poche righe, ci consegna un quadro delle differenze, che poi sono quelle capaci di determinare lo stato dell’arte di situazioni che intendono davvero privilegiare o meno (ed è facile immaginare subito chi, fra i due attori, interpreta questa seconda parte) lo sviluppo “utile” della ricerca nel suo complesso. Uno sviluppo, per capirsi meglio, che deve essere in grado di rivelarsi al passo con tempi sempre più grami in tema di fondi a disposizione e di possibili finanziamenti esterni, laddove i primi si rivelano (di qui e al di là della Manica) ormai del tutto insufficienti.

Partendo da un’immagine molto azzeccata, Barbieri sottolinea anzitutto come in Italia si accosti “ai fiori d’arancio una mistica del concorso pubblico che possa garantire il posto fisso”,  e passa quindi ad analizzare quanto invece succede nei dipartimenti britannici. Qui il reclutamento di un nuovo membro sottintende la sua capacità di “muoversi” entro temi giudicati strategici, catalizzatori dell’interesse delle classifiche in base alle quali i ministeri distribuiscono fondi: l’estensore dell’articolo la definisce “robusta dose di pragmatismo”. Per la presentazione della domanda viene richiesto solo l’invio on line di un modulo nel quale, oltre al cv del candidato,  devono essere allegati una lettera di “compatibilità” con i desiderata del dipartimento, un riassunto della propria carriera (quindi qualcosa che vada ben oltre la burocratica estensione di un curriculum) volto a certificare in maniera personale l’interesse per la strada che si vuole intraprendere, e un progetto ad illustrazione di cosa e come si vuole studiare e fare per collaborare con i futuri colleghi e come coinvolgerli nel proprio operato.

A questo punto sarà una commissione quasi esclusivamente del dipartimento stesso a decidere, favorendo così la libertà di scelta “interna” ed evitando al massimo (anche se pare non mancassero in passato nemmeno da quelle parti, in maniera comunque nettamente inferiore) intrusioni nepotistiche. Quindi, afferma Barbieri, “il reclutamento di un candidato molto debole influirà negativamente sulla valutazione del dipartimento da parte del ministero, quindi sul finanziamento”, e di conseguenza non sussiste nessun interesse da parte delle autorità accademiche perché questi venga favorito da qualcuno ad occupare un posto che si rivelerebbe improduttivo in termini economici, oltre che di assoluto disinteresse ai fini universitari.

L’approccio inglese, quindi, contrasta in maniera netta rispetto alla spinta – definita “idealista” –  del pari reclutamento da tempo immemore in auge nel nostro  Paese, dove invece persiste  come unico parametro “ufficiale” il curriculum, situazione che invece lascia spazio, come ben sappiamo, a ben altro tipo di intrusione in termini di valutazione finale.

Sembrano le realtà contrapposte di due mondi agli antipodi, e invece la distanza reale fra loro è minima, e sarà anche per questo che sempre più nostri giovani – non solo ricercatori – tendono a compierla in cerca di lavoro e aria migliore, dove possa essere riconosciuta la voglia di fare e la compatibilità con quello che è richiesto, piuttosto che – ad esempio – una carta d’identità a certificazione di una parentela “importante”. Sono posti, quelli, dove si tende decisamente ad escludere questo tipo di connubio, e rispetto a quelli parentali (e solo a quelli!), per sdrammatizzare concluderei con un bel “Niente nesso, siamo inglesi!”, riscrivendo e parafrasando così qualcosa che abbiamo già sentito declinato in maniera leggermente diversa chissà quante volte nella nostra vita.
Non sono troppo sicuro del fatto che abbiamo ancora voglia dì sorridere, ma ci provo lo stesso.

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