Smart working: ecco perché ci svela molto sulla salute organizzativa delle amministrazioni
In una situazione di incertezza come quella che stiamo vivendo, abbiamo capito che servono amministrazioni flessibili, in grado di adattarsi alle scosse con grande elasticità: è proprio la caratteristica che sta alla base delle organizzazioni agili. Ma perché lo smart working sia un’opportunità di crescita e non un ripiego emergenziale, devono verificarsi alcune condizioni non banali, che riguardano il processo di trasformazione digitale, l’attenzione alle persone e il focus sulle competenze
7 Gennaio 2021
Carlo Mochi Sismondi
Presidente FPA
Le amministrazioni stanno vivendo in questi mesi, ma ancor più vivranno in futuro, un vero e proprio stress test, e non solo per la pandemia. Da Next Generation EU arriveranno 209 miliardi, da impegnare entro il 2023, e saranno erogati sulla base non della spesa, ma del raggiungimento dei risultati indicati dai piani nazionali. Una grande opportunità, ma anche un’enorme responsabilità. Una parte significativa dei fondi sono infatti prestiti, che graveranno sul debito pubblico e quindi sulla prossima generazione, a cui dobbiamo sin da ora prepararci a rendere conto. Non possiamo permetterci di sbagliare. Tutte queste risorse passeranno attraverso le nostre pubbliche amministrazioni e la loro capacità di attuazione. Una PA che deve essere all’altezza del compito e che, per riuscirci, dovrà profondamente cambiare. Ma in che direzione?
In questi giorni ho letto un libro interessante che parla proprio di questo cambiamento, sempre più necessario, della nostra pubblica amministrazione. Si intitola “Trasformazione digitale & Smart Working nella PA” ed è scritto da chi queste cose le ha fatte davvero: Francesco Frieri, Direttore generale delle Risorse, Europa, Innovazione e Istituzioni della Regione Emilia-Romagna; Stefania Sparaco, responsabile delle attività di Trasformazione digitale e organizzativa nella stessa Direzione generale e Alessandro Bacci, Direttore Regionale Affari istituzionali, Personale e Sistemi Informativi della Regione Lazio[1].
Se nei primi mesi della pandemia, quando la nostra sanità era al collasso, l’imperativo per la PA era resistere e cercare di metter su, in fretta, processi che erano stati fermi per troppi anni, ora l’obiettivo è quello che Enrico Giovannini ha chiamato “resilienza trasformativa” e che, citando Nassim Taleb, potremmo chiamare anche “antifragilità”, ossia trarre dall’emergenza e dalla cattiva sorte la forza e la motivazione per un cambiamento positivo, per crescere. Purtroppo, però, questa “crescita” non potrà che avvenire in una situazione di incertezza (quando finirà la pandemia? Quanto saranno efficaci i vaccini? Quando saranno disponibili i soldi europei? E così via…). L’incertezza è cosa ben diversa rispetto all’accettazione di un rischio conosciuto, a fronte del quale possiamo mettere in campo difese altrettanto note. L’incertezza ci impone la flessibilità e la necessità di prendere decisioni discrezionali in terreni sconosciuti. E quindi anche di avere il coraggio di rischiare. Ma come? Quando gli ingegneri decisero di progettare e costruire un grattacielo a San Francisco, in una delle zone a maggior rischio sismico del mondo, scelsero una struttura in grado di assicurare all’edificio una grande deformabilità elastica, che gli permettesse di oscillare senza rompersi. Se la struttura fosse stata rigida sarebbe crollata alla prima scossa. Allo stesso modo la struttura delle nostre organizzazioni deve poter adattarsi alle scosse con grande elasticità. È quello che sta alla base delle organizzazioni agili.
Questa capacità di adattamento intelligente e di agilità sarebbe però impensabile senza abbracciare con coraggio la trasformazione digitale, che non è un settore della PA, ma che ne costituisce l’unico ecosistema in cui può vivere e produrre risultati. Una trasformazione digitale che veda però al centro le persone perché, come gli autori del libro di cui vi parlavo all’inizio ben sanno e ci hanno mostrato, l’asset più prezioso delle amministrazioni pubbliche, così come di tutte le knowledge farm, sono le donne e gli uomini che in esse lavorano e la loro straordinaria diversità, che costituisce la ricchezza di ogni organizzazione complessa. L’incontro fra la trasformazione digitale, la centralità delle persone con il rispetto per i loro bisogni e l’attenzione alle loro capabilities e, infine, la necessità costituzionale di una PA competente e capace di rispondere ai bisogni del momento e di garantire diritti per i cittadini è alla base della scelta dello smart working, quando questo è una cosa seria e trasformativa e non un ripiego emergenziale.
Ne parleremo domani, 8 gennaio, con Francesco Frieri, Alessandro Bacci e con il professor Federico Butera nella nostra rubrica del venerdì “Sulle tracce dell’innovazione”, in onda a partire dalle ore 11.
Io in questo articolo non mi dilungherò su cosa è lo smart working – vi rimando per questo, oltre che al libro citato, anche ai tanti articoli pubblicati su questo sito – ma vorrei invece sottolineare che, perché lo smart working sia un’opportunità di crescita, devono verificarsi alcune condizioni non banali. La sua adozione è infatti un vero experimentum crucis della genuinità della spinta all’innovazione e non funziona se questa spinta è posticcia o dettata dalla moda del momento. Tra le tante, mi piace mettere in luce tre di queste condizioni.
La prima condizione è la consapevolezza. La quotidiana fatica di “andare a lavorare”, con i suoi tempi di trasporto, i suoi riti mattutini e la sua quotidiana e difficile conciliazione con i tanti ruoli (padri e madri, figli, badanti, ecc.) che le nostre famiglie monadi ci impongono di interpretare spesso ci rassicura di star facendo il nostro dovere. L’essere invece svincolati dall’orario e dal luogo ci costringe, o almeno dovrebbe farlo, a interrogarci sui risultati di quel che facciamo e, più in generale, sul suo perché. Sulla missione e sulla stessa ragione dell’esistenza in vita di ogni amministrazione e, in essa, di ciascuna unità operativa. Insomma, un lavoro non può essere smart se non sono consapevole del suo obiettivo e se non sono coinvolto nella missione della squadra a cui appartengo. Ecco che la ricerca della consapevolezza diventa opportunità di cambiamento. Un cambiamento che non può che, da una parte, dare un nuovo orientamento al lavoro, dall’altra deve sfociare in una ricca, coinvolgente e curata rete relazionale e comunicazione interna.
E, a sua volta, la comunicazione deve aprire veri e fattivi spazi di partecipazione al processo di miglioramento, aperti al rischio di scoprire cose nuove.
Una seconda condizione è strettamente legata alla prima: lo smart working, proprio perché, se non vuole rischiare la depressione delle donne e degli uomini che lo vivono, deve dare una risposta al perché di ogni giornata, necessita di un diverso svolgersi del cosiddetto ciclo della performance, così tante volte evocato e così raramente praticato. La valutazione non può quindi che essere “nativa” e continuamente agita come un sostegno e un accompagnamento dei lavoratori. Ma questa valutazione richiede di organizzare il lavoro per obiettivi che siano non solo sfidanti, misurabili ecc. come vuole la teoria, ma anche banalmente chiari, condivisi, conosciuti da tutti. Solo una valutazione continua e condivisa può poi portare all’ingrediente fondamentale perché lo smart working non si afflosci: la fiducia. Senza fiducia non c’è lavoro di qualità, sia esso a casa, in ufficio o dove volete. Una fiducia che però spesso cozza contro l’impianto gerarchico delle organizzazioni pubbliche (ma a volte anche private).
La terza ed ultima condizione perché smart working e trasformazione digitale diano buoni frutti nelle amministrazioni è la necessità della coerenza. Coerenza nelle azioni, coerenza nelle direttive, coerenza nelle relazioni e, anche, coerenza nella costruzione, nell’uso, nell’allestimento degli spazi. Quella sull’attenzione agli spazi è una delle parti più interessanti del libro. Lo smart working non è, infatti, un’idea platonica da mettere nell’Iperuranio, è una materiale condizione di vita e di lavoro che ha bisogno di altrettanto “materiali” contesti in cui svilupparsi. Costringerlo in uno spazio pensato per una ben altra organizzazione (bellissima nel libro l’immagine dei nostri Ministeri strutturati come conventi!) vuol dire non crederci e destinarlo ad appassire come una pianta senz’acqua. C’è quindi bisogno di una mappa delle coerenze con cui verificare ogni decisione.
Consapevolezza del compito, onesta valutazione delle situazioni e delle persone, coerenza nelle azioni e costanza nello sforzo. Vi ricordano qualcosa? A me sembrano le caratteristiche di un eroe delle favole, un eroe che affronta il bosco per liberare la principessa. Chissà se il nostro “smart working-eroe” sarà in grado di svegliare la PA addormentata? Noi comunque tifiamo per lui!
[1] Questo articolo è una rivisitazione della postfazione che ho avuto il piacere di stilare per il volume di Stefania, Francesco e Alessandro