Come consolidare lo smart working nell’era della “nuova normalità”
Dal 15 ottobre i dipendenti della PA torneranno a lavorare in presenza, come stabilito dal DPCM del 23 settembre 2021. Altra data importante sarà gennaio 2022, quando ogni amministrazione dovrà presentare il PIAO (Piano Integrato di Attività e Organizzazione) nel quale confluirà anche il POLA (Piano organizzativo del lavoro agile). Nel frattempo si sta lavorando al rinnovo dei contratti pubblici, in cui verrà inserita anche la regolazione puntuale della prestazione da remoto. Insomma, un tema sempre molto caldo. Per parlare di flessibilità e collaborazione, delle soluzioni tecnologiche e degli strumenti di procurement per nuovi modelli di organizzazione del lavoro pubblico, FPA e Mitel hanno organizzato il 22 settembre scorso un convegno online. Ecco una sintesi di quanto emerso e la registrazione dell’evento
29 Settembre 2021
Redazione FPA
Per effetto del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 settembre 2021, dal prossimo 15 ottobre i dipendenti della Pubblica Amministrazione torneranno a lavorare in presenza. Inizia quella che il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha chiamato “era della nuova normalità”. Dopo un anno e mezzo di ricorso allo smart working – che ha visto in molti casi la mancanza di un’adeguata preparazione, ma anche l’acquisizione di importanti esperienze durante questa fase emergenziale – data l’oggettiva mancanza di una regolamentazione sul tema, il Governo ha ritenuto opportuno riportare alle proprie scrivanie tutti i lavoratori della PA e parallelamente inserire nei rinnovi dei contratti pubblici in corso anche la regolazione puntuale della prestazione da remoto. Ciò fino a gennaio 2022, quando ogni amministrazione dovrà presentare il PIAO (Piano Integrato di Attività e Organizzazione) nel quale confluirà anche il POLA ((Piano organizzativo del lavoro agile). Solo dopo questa data, i team di lavoratori potranno essere ufficialmente ibridi, parte in presenza e parte in smart working. Al netto del dibattito, scatenatosi in ambito media e social network, sulla miopia o lungimiranza del provvedimento, un aspetto è chiaro: non tutte le amministrazioni hanno completato il percorso di abilitazione al vero smart working.
Quale momento poteva essere più indicato per fare il punto sull’organizzazione del lavoro pubblico, ovvero sull’adozione di strumenti collaborativi e di produttività? Una riflessione approfondita è stata stimolata il 22 settembre scorso in occasione di un convegno online organizzato da FPA insieme a Mitel, provider di servizi per le Telecomunicazioni.
“Flessibilità, collaborazione e produttività: soluzioni tecnologiche e strumenti di procurement per nuovi modelli di organizzazione del lavoro pubblico”: questo l’esplicativo titolo del confronto che ha coinvolto alcuni esponenti della PA disponibili a condividere le buone pratiche e/o le criticità rilevate nelle proprie strutture amministrative. Ne è emerso un quadro in “chiaro scuro”, poiché a fronte di alcune amministrazioni centrali che avevano già avviato il percorso di trasformazione digitale nel periodo pre-Covid e che oggi hanno messo a punto una strategia operativa e tecnologica per sistematizzare le pratiche di lavoro agile sperimentate in precedenza, ci sono quattro aspetti che rendono più difficoltoso il percorso:
- il tema culturale;
- il digital divide ancora esistente;
- le procedure di procurement troppo lunghe;
- la supply chain dei componenti tecnologici.
Passi avanti nella cultura e nelle infrastrutture, ma non basta
Nel 2019, lo smart working nella PA era sostanzialmente un’utopia: solo il 12% dei dipendenti era coinvolto in progetti di lavoro agile e il 38% delle amministrazioni non era nemmeno interessato all’argomento (Fonte: Politecnico di Milano – School of Management). A un anno e mezzo dal lockdown, molti concordano sul fatto che la pandemia si sia rivelata un momento di apprendimento collettivo. Per il 56% delle amministrazioni è stata l’occasione per sperimentare nuovi strumenti digitali, il 53% ha migliorato le competenze in materia, il 43% ha sviluppato nuove modalità di relazione con i cittadini e il 42% ha ripensato o sta ripensando i processi. Oggi il 63% delle amministrazioni si dichiara pronto a investire sulle tecnologie necessarie allo smart working, a fronte del 32% che vorrebbe farlo senza spendere alcuna risorsa economica e solo il 5% che non è interessato (Indagine FPA sul Lavoro Pubblico – 2021).
Mettere a regime lo smart working implica:
- competenze digitali diffuse tra tutti i dipendenti – tema formazione;
- un diverso modello organizzativo, che punti, da una parte, alla collaborazione e, dall’altra al lavoro per obiettivi;
- infrastrutture, device e sicurezza informatica.
“Stiamo ragionando su come rendere strutturali le nuove modalità di lavoro da remoto – ha spiegato Francesco Saverio Colasuonno, Dirigente Ufficio Strategie digitali, architetture e sicurezza di INAIL -. Abbiamo compreso che lo smart working deve essere costruito su 4 pilastri: organizzazione del lavoro da un modello a silos a un modello a rete, nel quale si operi per obiettivi; dimensione culturale, nonostante l’Italia abbia fatto molti passi avanti (Indice Desi), c’è ancora molto da lavorare sul fronte formazione; cyber sicurezza, la vulnerabilità può vanificare tutti gli sforzi e gli investimenti fatti; dimensione tecnologica, dobbiamo poter contare sulla tecnologia abilitante, quindi sul cloud, che deve funzionare”.
L’importanza delle infrastrutture è stata sottolineata da Alessio Cicioni, Dirigente Servizio Informatico e Telecomunicazioni della USL UMBRIA 2,che pur avendo già in uso nel 2020 le giuste tecnologie e procedure digitali, ha avvertito le difficoltà legate al digital divide: “La zona di Norcia, infatti, non ha una connessione Internet soddisfacente, come molte aree d’Italia. Eppure la nostra realtà era più pronta di altre. Per esempio avevamo già portatili e dockin station per i dipendenti, perché avevamo avuto modo di comprendere che lo smart working è una forma di resilienza e di flessibilità all’indomani del terremoto di cinque anni fa”.
Cosa acquistano le amministrazioni centrali per sistematizzare lo smart working
Sull’acquisto delle soluzioni tecnologiche adeguate allo smart working, tutte le amministrazioni più grandi si sono mosse in anticipo.
“Roma Capitale sta dotando 8.000 dei suoi 12.000 dipendenti di Smart Station (notepad con schermo da 15”, dockin station, software per il trasferimento delle chiamate al numero aziendale sul cellulare). Inoltre, ogni Smart Station è dotata di piattaforma di co-management, per l’aggiornamento continuo dal punto di vista della sicurezza e degli applicativi, e di VPN a doppio fattore per raggiungere gli applicativi che non sono stati ancora portalizzati”, ha spiegato Giovanni Fazio, Direttore della Direzione Infrastrutture ICT del Dipartimento Trasformazione Digitale di Roma Capitale.
Anche il Comune di Bari si sta attrezzando. Enrico Fontana, Funzionario Ripartizione Innovazione Tecnologica, Sistemi Informativi e TLC del Comune di Bari, ha raccontato di aver già avviato le procedure per l’acquisto di softphone, notebook, e altri strumenti, sottolineando tuttavia che “l’aspetto più importante è quello di passare da una gestione/fruizione di servizi a ‘km zero’ a servizi a ‘tempo zero’, alias immediati. Ciò implica la riscrittura in digitale e l’automatizzazione dei processi”.
La dotazione tecnologica nelle strettoie del procurement
Orientamento ai risultati e gestione dei nuovi “team ibridi”: lo smart working può sembrare un affare complesso. In realtà, dal punto di vista tecnologico “non parliamo di innovazione sofisticata, ma di banda larga, device mobili, possibilità di abbinare a telefono fisso uno strumento che permetta di rispondere in altro luogo – fa notare Danilo Piatti, Amministratore Delegato di Mitel – il tutto per interagire in maniera collaborativa. Il tema non è avere il 10-15% di lavoratori in smart working, ma poter fruire di servizi indipendentemente dal luogo. Non basta comprare tante licenze software collaboration, come è stato fatto dal 2020 in poi, ma bisogna predisporre una piattaforma che permetta di abilitare i servizi per i dipendenti”.
Insomma, secondo Danilo Piatti serve innanzitutto:
- cambiare i device più semplici, come i telefoni fissi, con modelli VoIP più evoluti, capaci di abilitare nuove funzionalità;
- acquisire servizi che possano interconnessi con le reti più diffuse, che in Italia sono quelle legacy.
Il tema è caldo. Nonostante sia in vigore l’Accordo Quadro Centrali telefoniche 8 di Consip, il procurement è ancora troppo lento. Danilo Piatti di Mitel hafatto notare la profonda crisi in seno alla supply chain, per via della penuria di componenti elettronici. Certamente ciò non aiuta. Gli intoppi, però, sembrano altri e su quelli occorre lavorare.
Le proposte per il procurement
“Il 50% di tutta la procedura di acquisizione è costituita da pratiche relative a trasparenza e anticorruzione – ha puntualizzato Fazio di Roma Capitale -. Le qualificazioni dei fornitori dovrebbero essere mantenute vive da Consip, magari attraverso un Albo”.
Gli fa eco Fontana del Comune di Bari: “È auspicabile uno snellimento in termini di tempi e burocrazia, oltre all’automazione nella verifica dei requisiti dei fornitori”.
Anche Cicioni di USL UMBRIA 2 concorda: “Non nego l’impulso importante nelle Convenzioni Consip, ma i tempi sono troppo lunghi. Uno degli obiettivi del PNRR è semplificare le normative europee sugli appalti pubblici”.
I partecipanti al convegno sperano che ciò avvenga. “Il Decreto Semplificazioni di luglio Art. 51 non è sufficiente – ha sottolineato Colasuonno, di INAIL -. Il rischio di questa estrema lentezza nel procurement è che le amministrazioni non riescano a spendere le risorse del Recovery Fund secondo i tempi del PNRR”. Paradossi della “nuova normalità”.