Gianfranco D’Alessio: dal pubblico impiego alla riforma della dirigenza

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Guardando al da farsi nel prossimo futuro, si dovrebbe lanciare una grande campagna di reclutamento di nuovi e qualificati elementi da inserire nel pubblico impiego. Alla revisione dei meccanismi di reclutamento si dovrebbe connettere un rilancio e una riqualificazione delle attività di formazione del personale pubblico, sia al momento dell’accesso sia durante il percorso di carriera, e a tal fine si dovrebbe creare un sistema nazionale di governo della formazione. Ecco le osservazioni di Gianfranco D’Alessio, professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi Roma Tre, contenute nel “Libro Bianco sull’Innovazione della PA”

18 Luglio 2018

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Patrizia Fortunato

La scorsa legislatura è stata segnata da un impegnativo piano riforme della pubblica amministrazione. Con la legge delega n. 124 del 2015, il Parlamento ha delegato il Governo ad emanare un corpus di decreti attuativi della legge che è intervenuto sull’assetto organizzativo della PA (ma ha toccato anche profili rilevanti di disciplina delle sue attività): ne abbiamo commentato alcuni aspetti chiave – in particolare, quelli riguardanti la tematica del lavoro pubblico – con il contributo di Gianfranco D’Alessio, professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi Roma Tre. La rielaborazione delle riflessioni emerse è contenuta nel capitolo “Nuovi processi per la PA abilitante” del “Libro Bianco sull’Innovazione della PA”, in consultazione pubblica sino al 15 settembre.

La definizione di un nuovo testo unico sul pubblico impiego e una corposa delega sulla dirigenza pubblica, oltre ad una revisione delle norme sulla valutazione della performance dei dipendenti pubblici: questi i punti più qualificanti della legge Madia in materia di personale delle pubbliche amministrazioni.

“Partiamo dal tema della dirigenza: in realtà, come è noto, il decreto legislativo che avrebbe dovuto attuare la delega che delineava una incisiva riforma dell’ordinamento delle dirigenze pubbliche non ha mai visto la luce, per un intervento – potremmo dire, in extremis – della Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato incostituzionali alcune disposizioni della legge n. 124 del 2015 che contemplavano solo un parere della Conferenza Stato-Regioni nella procedura di approvazione di questo e di altri decreti che coinvolgevano anche la sfera delle competenze regionali, invece di una intesa, come ritenuto necessario dalla Corte. Va aggiunto che la definizione del testo del decreto sulla dirigenza aveva avuto una storia travagliata già prima dello stop prodotto dalla pronuncia della Consulta, come testimoniano le notevoli differenze fra lo schema inizialmente presentato dal Governo e quello rivisto a seguito dei pareri del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari, che in alcuni punti nodali appariva più convincente rispetto alla impostazione che caratterizzava la prima versione.

Nel merito, la riforma prefigurata dalla legge Madia era da considerare nel suo complesso positivamente, anche se non priva di aspetti problematici e, forse, di difficile attuazione. Si prevedeva la confluenza in tre grandi ruoli – nazionale, regionale e locale – di tutti i dirigenti delle amministrazioni operanti alle diverse scale di governo e di territorio. La norma contemplava la possibilità di una piena mobilità dei dirigenti non solo all’interno del maxi-ruolo di appartenenza, ma anche da un ruolo all’altro (per cui, ad esempio, un dirigente regionale o locale poteva diventare dirigente dello Stato o di un ente pubblico nazionale, e viceversa). La creazione di ruoli dirigenziali unificati, senza articolazione interna in fasce o qualifiche e “permeabili” fra loro costituiva un elemento innovativo di sicuro interesse, in quanto finalizzato a creare un “mercato della dirigenza” utile sia in vista di un aumento dell’efficienza degli apparati pubblici, sia nella prospettiva della complessiva crescita professionale del corpo dirigenziale, anche se forse comportava un cambiamento troppo traumatico per poter essere supportato dal sistema: di qui anche lo scarso entusiasmo con il quale il piano di riforma era stato accolto da una parte consistente della stessa dirigenza, e in particolare dell’alta dirigenza.

Al di là del giudizio sulla opportunità e sulla “fattibilità” della riconduzione ad una dimensione unitaria dell’intero corpo dirigenziale (fatta eccezione per alcune dirigenze dotate di specifiche caratteristiche, come quella scolastica e quella sanitaria), si è discusso se la mancata riforma avrebbe aumentato o ridotto la salvaguardia dell’imparzialità, della libertà di azione dei dirigenti rispetto ad ingerenze della politica. Mentre nella legislazione è consolidato il principio di distinzione fra l’ambito di attività della politica e quello dell’amministrazione, continua ad essere controversa la questione relativa al sistema delle nomine, cioè ai modi e ai criteri di affidamento degli incarichi dirigenziali. Ora, il testo di riforma da un lato aumentava potenzialmente lo spazio di discrezionalità dell’organo di governo, in quanto per l’individuazione dei dirigenti da nominare si poteva utilizzare l’intera platea dei soggetti presenti nei ruoli unici. Ma dall’altro introduceva un rilevante filtro per l’attribuzione della titolarità degli uffici dirigenziali, con l’istituzione delle “Commissioni per la dirigenza”, dunque di un soggetto tecnico indipendente che doveva vagliare le candidature e definire una rosa di nomi, pur lasciando la decisione finale agli organi politici, per gli incarichi di maggiore rilievo, ovvero verificare ex post il rispetto dei criteri di conferimento per gli altri incarichi: ponendo un freno, così, all’adozione di scelte anomale, solo di ordine politico o, addirittura, di natura clientelare. Forse questo è un meccanismo che meriterebbe di essere preso in considerazione anche in prospettiva, se e quando si vorrà mettere nuovamente mano alla disciplina della dirigenza.

Sul pubblico impiego, la legge delega del 2015 esprimeva la volontà di pervenire alla redazione di un nuovo Testo Unico, destinato a sostituire quello in vigore da quasi un ventennio (decreto legislativo n. 165 del 2001): una riscrittura complessiva delle norme generali sul personale sarebbe stata, e sarebbe, sicuramente utile, per dare un assetto più chiaro e coerente ad un quadro dispositivo reso piuttosto farraginoso dal succedersi e dall’accavallarsi di una lunga serie di interventi legislativi, di diversa portata e di diverso segno, che hanno fortemente inciso sul disegno che era alla base del testo originario del decreto del 2001.

In realtà, il decreto attuativo n. 75 del 2017 non realizza tale obiettivo, in quanto si limita ad apportare alcune, limitate modifiche al d.lgs. n. 165 del 2001, senza introdurre elementi di novità significative. Esso, sicuramente, completa un percorso, avviato con precedenti provvedimenti, volto a rafforzare gli istituti di carattere disciplinare. Non sono state, però, attuate – fatta eccezione per alcuni aspetti marginali – alcune importanti deleghe previste dalle legge Madia.

Fra le deleghe sostanzialmente inattuate si segnala quella riguardante le modalità di svolgimento delle procedure di accesso agli impieghi: l’impostazione di un solido e organico riordino della normativa sui concorsi si propone, quindi, come una delle riforme più importanti che attendono di essere realizzate. La questione delle forme di selezione degli aspiranti dipendenti pubblici richiama immediatamente quella del ringiovanimento dei quadri delle amministrazioni (che nella legge delega del 2015 veniva evocata attraverso una previsione, essa pure non attuata, sulla introduzione di una forma di “staffetta generazionale” collegata alla riduzione dell’orario di lavoro dei lavoratori più anziani). Guardando al da farsi nel prossimo futuro, si dovrebbe lanciare una grande campagna di reclutamento di nuovi e qualificati elementi da inserire nel pubblico impiego (che, non va dimenticato, negli scorsi anni ha subito una consistente riduzione dei suoi organici, accompagnata da un progressivo aumento dell’età media degli addetti). Ciò sarebbe importante non solo per contribuire a soddisfare una – pure inderogabile – esigenza occupazionale dei giovani, ma anche perché si sposa con un problema di efficientamento dell’amministrazione: questa può rispondere alla sfida della digitalizzazione solo avviando, e portando rapidamente a compimento, un programma di “ricambio generazionale” che le consenta di inserire nei suoi ruoli soggetti dotati di requisiti attitudinali e culturali che li pongono in grado di confrontarsi con successo con le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica e con le nuove e sempre più articolate istanze rivolte al sistema pubblico dai cittadini.

Alla revisione dei meccanismi di reclutamento si dovrebbe affiancare o, meglio, connettere un rilancio e una riqualificazione delle attività di formazione del personale pubblico, sia al momento dell’accesso sia durante il percorso di carriera. Occorrerebbe, naturalmente, tornare ad investire nella formazione risorse che consentano un complessivo miglioramento della professionalità dei funzionari e dei dirigenti pubblici, indispensabile per conseguire un soddisfacente livello di efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa. Ma si tratta anche di garantire la “serietà” e la funzionalità dei servizi e dei prodotti formativi: a tal fine si dovrebbe creare un sistema nazionale di governo della formazione, attribuendo ad un organismo indipendente e tecnicamente qualificato il compito di definire indicatori della qualità delle iniziative di formazione, di provvedere ad una sorta di accreditamento delle agenzie incaricate della loro progettazione ed erogazione e di valutarne i risultati. L’esigenza di creare un “mercato regolato” della formazione pubblica si pone non tanto per le amministrazioni statali, dove la situazione è presidiata dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, quanto per le amministrazioni regionali e soprattutto per quelle locali, dove si registrano interessanti esperienze (come, da ultimo, l’”Accademia per l’autonomia” che l’ANCI e l’UPI hanno gestito, in collaborazione con il Ministero dell’Interno), ma non esiste un sistema organico e strutturato di gestione della formazione, che garantisca adeguati standard qualitativi”.


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