Usare i fondi strutturali contro le crisi? Pro e contro di una scelta sempre più frequente

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Le risorse della politica europea di coesione, già mobilitate per fornire una risposta alla pandemia, potrebbero ora essere utilizzate anche per l’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati ucraini. Alla tradizionale funzione di sostegno agli investimenti strutturali per lo sviluppo territoriale si è venuto, quindi, ad affiancare un inedito ruolo a contrasto delle emergenze. Ma quali potrebbero essere gli effetti sul medio e lungo periodo di una politica di coesione utilizzata in maniera crescente come strumento anti-crisi?

29 Marzo 2022

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Francesco Molica

Direttore Politiche Regionali della Conferenza delle Regioni Periferiche Marittime d'Europa

Photo by Justin Luebke on Unsplash - https://unsplash.com/photos/BkkVcWUgwEk

Il conflitto Russia-Ucraina chiama di nuovo in causa il potenziale contributo dei fondi strutturali nel fare fronte a eventi imprevisti di una certa portata. Nel quadro della pandemia le risorse della politica europea di coesione erano state già mobilitate per fornire una prima risposta alla crisi sanitaria e ai suoi effetti economici. Ciò è stato tuttavia possibile solo previa revisione dei regolamenti 2014-2020, attraverso i due pacchetti CRII e CRII+ (Corona Response Investment Initiative), con l’introduzione di una marcata flessibilità: vale a dire allentando o sospendendo diversi obblighi per facilitare una rapida riprogrammazione. L’otto marzo scorso la Commissione ha presentato un’ulteriore modifica allo stesso quadro regolamentare 2014-2020 (ribattezzata CARE) per facilitare l’eventuale utilizzo dei fondi per l’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati ucraini.

Le implicazioni di questo doppio passaggio non sono da sottovalutare. Esso ha creato le condizioni sia legali sia culturali per un cambio di paradigma al cuore della politica di coesione: alla tradizionale funzione di sostegno agli investimenti strutturali per lo sviluppo territoriale si è venuto ad affiancare un inedito ruolo a contrasto delle emergenze. Nell’Ottava relazione sulla coesione la Commissione Europea suggerisce che questo nuovo indirizzo sia reso permanente in futuro. E tutto lascia intendere che si stia andando speditamente in questa direzione.

Innanzitutto, i nuovi regolamenti sui fondi di coesione 2021-2027 contengono una clausola che permette agli stati membri di richiedere in via temporanea l’attivazione di una parte delle misure di flessibilità concesse con CRII e CRII+ qualora colpiti da grossi shock negativi (es: disastri naturali). Secondariamente, la sollecitudine con cui la Commissione ha presentato modifiche al regolamento 2014-2020 in due occasioni apre un precedente dimostrando che sarebbe disposta a farlo di nuovo nel periodo 2021-2027. E non è da escludere che questa circostanza si verifichi tra non molto guardando alle possibili ricadute recessive del conflitto Russia-Ucraina.

Occorre tuttavia domandarsi quali potrebbero essere gli effetti sul medio e lungo periodo di una politica di coesione utilizzata in maniera crescente come strumento anti-crisi. Esistono due modi speculari, uno negativo l’altro positivo, di leggere la questione.

Partiamo dalla visione negativa o pessimistica. Come dimostra l’esperienza dei pacchetti CRII, per mettere i fondi di coesione nelle condizioni di agire tempestivamente contro le emergenze è necessario introdurre una forte dose di flessibilità nella gestione. Questo, a sua volta, implica una deroga parziale o totale da aspetti che formano l’ossatura delle politiche di coesione. Per citarne alcuni: vincolo di destinazione territoriale, co-finanziamento nazionale, concentrazione tematica, principio di partenariato fino al metodo stesso di programmazione. Questi elementi costituiscono altrettanti vincoli a una mobilizzazione rapida dei fondi ma, nel contempo, operano anche come garanzia di un utilizzo delle risorse coerente con l’obiettivo di riduzione dei divari iscritto nei trattati europei. Introdurre eccezioni ai rispettivi obblighi può dunque condurre ad un appannamento dell’identità stessa della politica di coesione attraverso una lenta ma progressiva disarticolazione dal suo interno. Il che la rende più vulnerabile al rischio, già presente da anni, di un ridimensionamento (economico, geografico, tematico) nel negoziato per il budget dell’UE post-27, proprio perché sarà più difficile mostrarne il valore aggiunto rispetto ad altri strumenti. A maggior ragione di fronte all’attuale proliferazione di fondi e programmi europei e con la possibilità che il Dispositivo per la ripresa e resilienza (PNRR) sia in qualche forma reso permanente. Ricorrere costantemente alla politica di coesione di fronte ad ogni emergenza significa depotenziarla rispetto ai suoi obiettivi originari dirottando risorse verso una funzione diversa da quelle assegnatale dai trattati.

Ma esiste anche una maniera ottimistica di vedere la questione. I pacchetti CRII hanno, in fondo, messo in evidenza come i fondi strutturali possano essere utilizzati efficacemente anche per rispondere a eventi negativi imprevisti come la pandemia. Una maggiore flessibilità per rafforzare questo indirizzo in futuro può essere introdotta senza necessariamente rinunciare ai principi fondativi della politica di coesione, e lasciando che la maggior parte delle risorse rimangano comunque dedicate agli investimenti strutturali. Ad esempio, si potrebbe dotare i programmi di una riserva di emergenze separata. Peraltro, rafforzare il ruolo della politica di coesione nelle crisi potrebbe dotarla di un ulteriore valore aggiunto che la qualificherebbe agli occhi dei suoi (molti) detrattori.

Il dibattito è aperto e sicuramente terrà banco a mano mano che la riflessione sul futuro delle politiche di coesione aperta dalla Ottava relazione sulla coesione comincia a dispiegarsi. Sarà importante sviluppare una soluzione equilibrata e pragmatica alla questione.

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