La sfida dei servizi digitali universali
Dal DESI 2022 sappiamo che oltre la metà dei cittadini italiani non dispone neppure di competenze digitali di base. La sfida è allineare l’accelerazione della trasformazione digitale con una buona padronanza di competenze, non solo digitali. Ora a passo veloce, a poco più di un anno dall’approvazione del “Piano strategico nazionale per lo sviluppo delle competenze della popolazione adulta”, va recuperato il tempo perduto puntando sulle competenze d’uso ma anche su un buon livello di alfabetizzazione funzionale, cioè sulla capacità di attivare le conoscenze per svolgere attività della vita quotidiana
9 Febbraio 2023
Mirta Michilli
Direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale
Questo articolo è tratto dal capitolo “Trasformazione digitale” dell’Annual Report di FPA presentato il 27 gennaio 2023. Per leggere tutti gli approfondimenti scarica la pubblicazione
Dall’inizio della pandemia, nel marzo del 2020, sono passati 32 mesi. Abbiamo imparato a convivere con l’incertezza, ad adeguarci a norme e comportamenti non sempre comprensibili, a rimodulare senza la presenza fisica le nostre relazioni, personali e professionali, tra Smart Working e didattica a distanza. Con una vita domestica improntata al digital lifestyle ci siamo sentiti tutti più tecnologici, già immersi nella trasformazione digitale. Ma con la pandemia ci siamo scoperti anche più irrazionali, creduloni, paranoici, complottisti, tecno-fobici, come ci ha raccontato il Censis nel rapporto pubblicato dopo l’emergenza sanitaria[1]. Secondo una recente indagine Swg[2] un terzo degli italiani è superstizioso, il 24% non esclude l’esistenza della magia nera. Alla voce ‘maghi’ possiamo consultare anche la rassegna stampa del Codacons in tempo di Covid[3]. Passata la pandemia torneremo a essere razionali? In realtà la “società irrazionale” non è frutto dell’emergenza sanitaria, ma del basso livello culturale degli italiani[4]. Già dieci anni fa in Italia erano attivi circa 160 mila maghi che erogavano 30 mila prestazioni giornaliere[5]. Quindi nulla di nuovo. Se 4 persone su 10 quando non riescono a risolvere un problema si rivolgono alla fattucchiera e 8 su 10 non comprendono un articolo di giornale, come pretendiamo che possa attecchire una sana cultura digitale? Continuiamo a confondere il digital lifestyle, lo stile di vita digitale, con la padronanza delle competenze minime per lavorare e partecipare in una società che si è già data nuove regole nell’organizzazione dei servizi e nella comunicazione con i cittadini[6]. Non possiamo pensare di migliorare le competenze digitali degli italiani senza occuparci di accrescere anche il livello culturale. Tullio De Mauro sosteneva che l’acquisizione di competenze legate alle tecnologie informatiche e della comunicazione funziona solo se l’individuo possiede buone competenze di base, ovvero un buon livello di alfabetizzazione funzionale, cioè la capacità di attivare le conoscenze per svolgere attività della vita quotidiana, come saper leggere il bugiardino di un medicinale, la bolletta o l’etichetta di un prodotto alimentare.
La regola del “meno cinque”
Gli esperti dell’Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo (Unla) hanno elaborato una formula facile da memorizzare, la regola del “meno cinque”: in età adulta regrediamo mediamente di cinque anni rispetto al livello massimo di una competenza acquisita a scuola, se non la esercitiamo. Circa il 20% della popolazione adulta europea con un basso livello di istruzione (66 milioni) si concentra in Italia, dove vivono 13 milioni di adulti che hanno conseguito solo la licenza media (37,9%). Ma il numero complessivo di adulti potenzialmente bisognosi di riqualificazione coinvolge oltre la metà della popolazione, se consideriamo, ad esempio, anche i lavoratori scarsamente qualificati e/o con competenze che rischiano di diventare obsolete per le veloci trasformazioni tecnologiche. Le indagini nazionali e internazionali sulla cultura della popolazione italiana ci segnalano due emergenze: il persistere di livelli bassi di qualificazioni e di titoli di studio e la quota estremamente ridotta di adulti impegnati in attività di studio e formazione (9,9%). Finalmente un anno fa è stato redatto il “Piano strategico nazionale per lo sviluppo delle competenze della popolazione adulta”. Ora a passo veloce va recuperato il tempo perduto, puntando proprio sulle competenze d’uso.
La prova del nove dello SPID
I conti non tornano. Per competenze digitali di base siamo ancora molto indietro, oltre la metà dei cittadini italiani non dispone di quelle di base, eppure abbiamo raggiunto con quasi due anni di anticipo l’obiettivo fissato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[7] per numero di identità digitali da attivare. Lo scorso ottobre risultavano già attivi oltre 32 milioni di SPID[8], il risultato atteso per giugno del 2024. Ma 32 milioni di identità SPID erogate corrispondono effettivamente a 32 milioni di cittadini in grado di interagire con un’identità digitale? Oppure si tratta di identità multiple? Probabilmente il numero totale è calcolato sulle cifre fornite da ogni singolo Identity Provider accreditato, che certifica l’identità associandola a un indirizzo di posta elettronica univoco. La maggior parte di noi, ad esempio, ha una sola residenza fisica e fiscale, ma può avere più indirizzi di posta elettronica con più provider. E se per lo SPID si verificasse la stessa cosa? È importante sapere quanti singoli cittadini hanno lo SPID e non quante identità digitali sono state attivate.
Al primo dubbio, segue un’altra perplessità. Attivare lo SPID non è particolarmente complicato, ma neanche così facile. Non è un processo lineare. Spesso si verificano uno o più incidenti di percorso che non sono immediati da comprendere e risolvere, anche a causa di messaggi piuttosto oscuri nel significato. Basta consultare lo spazio Forum Italia[9] attivato dal Dipartimento per la trasformazione digitale, per rendersi conto delle più svariate difficoltà che incontrano persone con un’esperienza digitale già consolidata. Per questo difficilmente possiamo immaginare che un italiano su due sia capace di risolvere tutti i problemi da solo o di interagire in modo funzionale con un operatore o una chatbot (esperienza che suggerisco di provare). Dal DESI 2022[10] sappiamo che oltre la metà dei cittadini italiani non dispone neppure di competenze digitali di base. Ma allora chi sono i cittadini italiani che possiedono lo SPID? Ci aiuta a capirlo l’Osservatorio Digital identity della School of Management del Politecnico di Milano: hanno attivato la propria identità digitale tutti i giovani tra 18 e 24 anni, mentre possiede lo SPID solo un over 75 su quattro. L’indagine rivela anche forti differenze territoriali, dal record del Lazio, con il 74% di SPID attivati, all’ultimo posto del Molise, ancora al 52%. Secondo le elaborazioni del Censis[11], i cittadini dotati di SPID hanno un titolo di studio alto (61,6%), sono nella fascia di età 30-64 anni e abitano nelle metropoli del Nord-Ovest.
Servizi ad alta accessibilità per utenti dormienti
I cittadini maggiorenni che possiedono lo SPID (63%) come lo usano? Secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano si sta verificando un significativo miglioramento, con uso medio di 25 volte l’anno (crescita del 14%), contro le 22 del 2021 e le 9 del 2020. Oltre ai medium users (ahimè, parliamo di una volta al mese!), c’è però ancora una parte non trascurabile che è ‘dormiente’, usa SPID solo sporadicamente o non lo usa affatto. Analfabeti digitali di ritorno? Non possiamo diffondere tecnologia senza preoccuparci delle competenze d’uso, senza aiutare le persone a usare realmente i nuovi servizi digitali. E dobbiamo preoccuparci di rendere i servizi davvero accessibili, universali. Le pagine scritte da Annamaria Testa sulla Treccani[12] ci ricordano il lavoro fatto da Tullio De Mauro per semplificare la bolletta dell’energia elettrica. Una pista di lavoro preziosa per tutte le persone che si occupano del design dei servizi digitali, che devono essere ad alta accessibilità e a ‘burocrazia zero’.
Le competenze d’uso e la formula del “più cinque”
La tecnologia può essere uno strumento straordinario per accelerare l’inclusione sociale, invece la stiamo usando per creare nuove disuguaglianze[13]. Dove stiamo sbagliando? La sfida è allineare l’accelerazione della trasformazione digitale con una buona padronanza di competenze, non solo digitali. Gli interventi di trasferimento di tecnologie e risorse per sostenere imprese e organizzazioni devono essere sempre accompagnati da azioni di formazione continua, altrimenti continuiamo ad ampliare il divario tra la digitalizzazione dell’economia e la capacità dei cittadini di usare i nuovi servizi. La qualità del capitale umano va innalzata perché la crescita delle competenze è la più grande leva di shared value, che genera benessere per persone e comunità e, contestualmente, produttività per imprese e sistemi economici. Competenze funzionali e competenze digitali d’uso possono essere il volano che mette in funzione la formazione continua, per consentire a chi ha un titolo di studio basso di recuperare conoscenze in modo autonomo o semiautonomo e con il confronto con i colleghi. Se continuiamo ad apprendere perché non possiamo guadagnare anni di alfabetizzazione funzionale e tecnologica? In altre parole, possiamo trasformare la regola del “meno cinque” nella formula del “più cinque”. Come fare? Basta scalare il modello di innovazione sociale che le organizzazioni del Terzo Settore attuano da anni nei territori per combattere il divario digitale, promuovere la formazione continua e la piena partecipazione dei cittadini. Servono interventi multidimensionali (povertà educativa, NEET, disoccupati, lavoratori fragili ecc.) per implementare un ecosistema formativo, fatto di alleanze ibride anche con le grandi corporation tecnologiche, in grado di aiutare i cittadini a sperimentare le tecnologie abilitanti per imparare a vivere in modo più equo e sostenibile. I diversi interventi previsti dal PNRR, come le Reti di facilitazione digitale, dovrebbero essere reinterpretati in questa direzione, con una forte governance orientata al bene comune.
De Mauro nel commentare l’articolo 3 della Costituzione scriveva «Senza alfabeto niente democrazia. Senza alfabeto (digitale) solo sottosviluppo»[14]. La parola digitale tra parentesi l’ho aggiunta io, perché credo proprio che sarebbe stato d’accordo. «Man mano che le tecnologie si sviluppano, si alza sempre più la richiesta di competenze. Non possiamo più permetterci il lusso dell’ignoranza che ci siamo concessi per molto tempo», sosteneva già molti anni fa Tullio De Mauro, attivista civile e attento studioso dei livelli culturali degli italiani.
[1] Censis, 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2021.
[2] SWG, RADAR – Niente più sarà come prima, 10-16 ottobre 2022
[3] https://codacons.it/tag/maghi/.
[4] Alfonso Molina, Il rapporto Censis e il problem solving della fattucchiera, HuffPost, 6 dicembre 2021.
[5] La ricerca su maghi, indovini, medium e chiaroveggenti, è stata realizzata dal Centro studi e ricerche “Antonella Di Benedetto” di Krls Network of Business Ethics per conto di Contribuenti.it, ed è stata presentata nel 2013 al convegno “Italiani e fattucchieri in tempo di crisi”.
[6] Codice dell’amministrazione digitale (CAD). d.lgs. 82/2005.
[7] Governo italiano [2021], Piano nazionale di ripresa e resilienza.
[8] Fonte: Avanzamento trasformazione digitale, AgID.
[9] forum.italia.it.
[10] Commissione europea, The Digital Economy and Society Index (DESI), 2022.
[11] Lo SPID e le due Italie digitali, Diciassettesimo Rapporto Censis sulla comunicazione, “I media dopo la pandemia”, ottobre 2021.
[12] Annamaria Testa, Gli indimenticabili scatti di Tullio De Mauro, Treccani, 30 marzo 2022.
[13] Mirta Michilli, Tutti i divari digitali dell’Italia: ecco perché la tecnologia crea nuove disuguaglianze, agendadigitale.eu, 19 aprile 2022.
[14] Tullio De Mauro, L’educazione linguistica democratica, Laterza.