Open data: una visione al femminile

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Il mondo è pensato ad immagine e somiglianza di un maschio normodotato. Partendo da una frase "rubata ad un amico",  Morena Ragone, Vice Presidente – Circolo dei Giuristi Telematici e co-founder Wikitalia apre una riflessione sulla "doverosa inclusione di una visione di genere nella co-progettazione di servizi al femminile". Al centro, lo strumento "open data" e la domanda: di quali dati aperti hanno bisogno le donne per valorizzare, valorizzarsi, inserirsi, lavorare, studiare, formarsi, o anche solo, semplicemente, vivere? Ci prepariamo così all’appuntamento delle WISTER – Women for Intelligent and Smart TERritories, dedicato alla scrittura partecipata del #PianoD: come liberare le risorse delle donne,  il 28 maggio a FORUM PA 2013. 

15 Maggio 2013

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Morena Ragone

Giurista, studiosa di diritto di Internet e PA Digitale, Regione Puglia, Team RTD, Responsabile sub-azione 3.8.a POR FESR-FSE Puglia 2014-2020 - Strumenti di ingegneria finanziaria, Esperta in Diritto applicato alle nuove tecnologie

 In un precedente articolo[1] pubblicato in questa stessa rubrica si è partiti dai dati pubblicati dall’Istat per valutare il complesso rapporto delle donne con le nuove tecnologie, nei molteplici – e non esaustivi – aspetti dell’utilizzo di strumenti, applicativi, web e social network, ma, ancor più e ancor prima, della diffusione di alfabetizzazione e cultura digitale tra la popolazione femminile.  Alla doverosa inclusione di una visione di genere nella co-progettazione di servizi al femminile ho riflettuto frequentemente in questi ultimi tempi, soprattutto a seguito di alcuni istruttivi confronti sul tema oggetto di questa breve riflessione.Rubando la frase ad un amico, “il mondo è pensato ad immagine e somiglianza di un maschio normodotato”, alla luce dell’esperienza umana e professionale di questi anni non me la sento di dargli torto. Mi sono chiesta, allora, in un’ottica costruttiva, se sia possibile e utile ripensare i servizi in un’ottica di genere, in chiave tale da tutelare, rispettare e valorizzare le diversità e progressivamente eliminare il gender gap esistente.Ripensare l’offerta di servizi anche in un’ottica di “adeguatezza di genere” ha alla base, come è evidente, un problema che non è solo formativo o lavorativo, solo per citarne alcuni: l’uso del termine “cultura” riflette proprio la difficoltà di isolare singoli contesti senza far riferimento alla società ed a tutte le sue complesse articolazioni.I dati[2] pubblicati dal Parlamento Europeo in occasione dello scorso 8 marzo hanno mostrato, tra le altre cose, che le donne si laureano di più (e meglio, n.d.a.) dei coetanei maschi, ma all’aumento della qualità e quantità dell’istruzione non corrispondono pari stipendi, pari possibilità di assurgere ai gradi più elevati della carriera, pari sacrifici a livello di “economia familiare”. Il dato del part-time è, in questo senso, esemplificativo anche isolatamente considerato: il 75% dei contratti part-time sono utilizzati dalle donne, e non credo sia necessario chiedersi il perché. Per quanto la amata/odiata tecnologia possa avvicinare le donne al lavoro – o il lavoro alle donne – le difficoltà connesse alla difficile coesistenza vita-lavoro (la cosiddetta “conciliazione”) rendono questo rapporto meno fluido di quanto potrebbe essere. E, ovviamente, molto meno elastico di quanto non sia il rapporto vita-lavoro per un individuo di sesso maschile.Pertanto, che la popolazione femminile abbia necessità di servizi è un dato; di quali, si può discutere. Per esempio, è possibile chiedersi se attraverso uno degli strumenti più discussi a nostra disposizione si possa in qualche modo tener conto delle diversità di trattamento esistenti ed apportarvi dei correttivi. Penso allo strumento dei “dati aperti” – quelli ora previsti dall’art. 68, comma 3 del d. lgs. 82/2005, Codice dell’Amministrazione Digitale – rilasciati dalle amministrazioni titolari: è possibile tracciare una esigenza “genered oriented”, che tenga anche conto delle necessità femminili? In altre parole: di quali dati aperti hanno bisogno le donne per valorizzare, valorizzarsi, inserirsi, lavorare, studiare, formarsi, o anche solo, semplicemente, vivere?Al di là del sempre opportuno approccio olistico, esistono dati che possono avere un valore differente e “aumentato”: si pensi, per esempio, ad alcuni dati sanitari relativi all’incidenza delle malattie che colpiscono più frequentemente le donne, suddivisi per fasce di età, per struttura, luogo e numero di posti letto disponibili, periodo medio di degenza, tasso di dimissione, etc…Se entriamo in ambito professionale – rectius, delle malattie professionali – l’assenza di specifici dati in merito è ancora più rilevante: non esistono vere statistiche “di genere” che studino l’impatto di malattie tipicamente femminili (tra le quali inserirei, d’imperio, quelle insorgenti per l’assenza di progettazione femminile nello studio delle postazioni di lavoro, anatomia, luce, forme, colori e materiali etc.), ma solo studi statistico-numerici.I dati sanitari sono solo uno dei possibili esempi: la complessità del vivere femminile rende essenziali – quindi ad alto valore – tutti i dati connessi alle primarie esigenze del quotidiano: dai servizi pubblici, agli orari di scuole e farmacie; dall’ambiente, alla qualità dell’aria; dai dati relativi al traffico, a quelli di esercizi commerciali e mercati rionali.Pochi dati che possono consentire la creazione anche di piccole applicazioni[3], e che in determinati contesti possono fare la differenza. Ovviamente, il discorso si stratifica ulteriormente se ipotizziamo diverse tipologie di ‘femminile’: donna, donna-madre, donna-lavoratrice e varie ed ulteriori combinazioni definiscono altri singoli microcosmi nel macrocosmo dei bisogni e dei possibili dati ad essi collegati.Se in tutto questo, però, vi è sembrato che la donna abbia bisogno di tutti i dati ad alto valore disponibili, è perché, semplicemente, è così: la “complessità del femminile” si rispecchia nella complessità della società stessa, nei diritti e nelle esigenze di tutti per tutti.Nonostante tali evidenze, si chiede alla donna, e solo ad essa, di essere “una e trina”(c’è il riconoscimento di una certa ‘divinità’ in questo?) e, contemporaneamente, si fatica a prendere coscienza – quando non si sceglie deliberatamente di misconoscerlo – che il problema non riguarda il solo femminile, ma la società nel suo complesso.Servono strutture e servizi, si, ma servono per tutti. E servono dati, tanti dati di qualità, per valorizzare le rispettive differenze ed integrarle in un percorso orientato al reale progresso sociale.
Partecipate qui ai lavori sul wiki delle WISTER per scrivere il #PianoD!
Iscrivetevi QUI all’incontro #PianoD: come liberare le risorse delle donne, in programma il 28 maggio, dalle ore 15,00 alle 18,00 a FORUM PA 2013
 

[1] L’articolo “Donne e teconologie: inclusione e partecipazione”, a firma di Fernanda Faini, è disponibile all’indirizzo http://archive.saperi.forumpa.it/story/70068/donne-e-tecnologie-inclusione-e-partecipazione
[3] Si veda, ad esempio, “Di de mercaa”, app classificatasi al secondo posto nel contest OpenApp Lombardia http://www.openapp.lombardia.it/di-de-mercaa/
 
Morena Ragone è giurista, dottoranda di ricerca presso l’Università di Foggia, studiosa di diritto di Internet e delle nuove tecnologie, diritto d’autore, informatica giuridica, eGovernment e Open Govenment, ha approfondito le problematiche giuridiche connesse alla rete e ai nuovi media, nonché alla tutela e al trattamento dei dati personali. È docente e relatrice in convegni di settore, pubblica articoli di approfondimento sui quotidiani giuridici online Altalex e LeggiOggi, è editor della rubrica ‘Diritti Digitali’ per la testata online ‘Ninja Marketing’. Cofondatrice del Centro Studi di Diritto dello Spettacolo e tra i promotori degli Stati Generali dell’Innovazione, è Vice-Presidente dell’associazione Wikitalia e del Circolo dei Giuristi telematici. Attualmente è responsabile di Azione del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale presso la Regione Puglia.
 

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