I soldi per pagare i debiti? Lo Stato se li fa prestare (obbligatoriamente) dagli enti locali
Nel Decreto Legge sulle liberalizzazioni, viene annunciata una boccata d’ossigeno per i creditori delle PA: immediatamente disponibili 5,7 miliardi di euro per estinguere parte dei debiti accumulati dalle amministrazioni pubbliche verso i creditori. Ma da dove spuntano questi soldi? Semplice: da comuni, province e regioni, che dal 29 febbraio prossimo saranno obbligati a versare la propria liquidità di cassa a Banca d’Italia. Ne parliamo con Carlo Rapicavoli, Direttore Generale della Provincia di Treviso che in un recente articolo ha sollevato il problema.
7 Febbraio 2012
Tommaso Del Lungo
Nel Decreto Legge sulle liberalizzazioni, viene annunciata una boccata d’ossigeno per i creditori delle PA: immediatamente disponibili 5,7 miliardi di euro per estinguere parte dei debiti accumulati dalle amministrazioni pubbliche verso i creditori. Ma da dove spuntano questi soldi? Semplice: da comuni, province e regioni, che dal 29 febbraio prossimo saranno obbligati a versare la propria liquidità di cassa a Banca d’Italia. Ne parliamo con Carlo Rapicavoli, Direttore Generale della Provincia di Treviso che in un recente articolo ha sollevato il problema.
In molti hanno salutato con entusiasmo la pubblicazione in gazzetta ufficiale, lo scorso 24 gennaio, del Decreto Legge 1/2012 “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, cosiddetto decreto sulle liberalizzazioni. In particolare nell’analisi che ne ha fatto la stampa è stato dato risalto al fatto che l’art. 35 del Decreto indica che il debito della PA verso i fornitori (che per Confindustria ammonta a circa 70/90 miliardi) venga alleggerito immediatamente, rendendo subito disponibili 5,7 miliardi. In pochi però si sono soffermati nell’analisi del modo in cui lo Stato reperirà questa cifra. Noi lo abbiamo appreso grazie ad un articolo di Carlo Rapicavoli, Direttore Generale della Provincia di Treviso, che denunciando una grave “compressione dell’autonomia degli enti locali”, spiega che l’improvvisa liquidità dello Stato non è poi così improvvisa, ma deriva dal ritorno (fino al 2014) dell’istituto della tesoreria unica per tutti gli enti locali. Si tratta, quindi, della liquidità accumulata da regioni, province e comuni, che – in due trance, il 29 febbraio e il 16 aprile – saranno obbligati a versare alla Banca d’Italia, prima il cinquanta, poi il cento per cento delle somme depositate sui loro conti correnti.
“Si tratta di una grave limitazione dell’autonomia delle regioni e degli enti locali – spiega Rapicavoli – che in questo modo vengono privati di un importante strumento di gestione finanziaria che è risultata ampiamente vantaggiosa per le casse pubbliche. Un atto che non mi sembra eccessivo paragonare ad un commissariamento”.
Il prima e il dopo
Cerchiamo di chiarire bene, però, di cosa stiamo parlando e cosa cambia con l’articolo 35 del Decreto liberalizzazioni del Governo Monti. La norma attualmente in vigore in tema di tesoreria per gli enti locali e regionali risale al 1997 e – dopo un periodo di sperimentazione – è entrata a regime nei primi anni Duemila, istituendo per le autonomie locali un servizio di tesoreria misto. “In pratica – ci spiega Rapicavoli – tutti gli enti locali possiedono un conto infruttifero presso la Banca d’Italia, all’interno del quale confluiscono i trasferimenti diretti da parte dello Stato; ed un proprio sistema di tesoreria – affidato tramite gara ad un operatore commerciale del sistema bancario – in cui affluiscono i tributi locali, i pagamenti di diritti, i finanziamenti di altro tipo etc.” Per Rapicavoli questa novità ha concesso a molti enti una effettiva autonomia finanziaria e, nei casi più virtuosi, anche un notevole vantaggio economico come la possibilità di ottenere servizi a costi bassi o nulli per l’amministrazione, condizioni vantaggiose per alcune categorie di cittadini ed interessi attivi sulla liquidità accumulata.
Con il Decreto liberalizzazioni, invece, si sospende la norma del 1997 (almeno fino al 31 dicembre 2014) e si torna a quella pre-vigente, datata1984, che prevede l’istituto della tesoreria unica.
Se il decreto liberalizzazioni sarà quindi convertito in legge con lo stesso testo con cui è stato approvato dal Consiglio dei Ministri, gli enti dovranno trasferire alla Banca d’Italia tutta la liquidità depositata presso il proprio tesoriere. Inoltre, nel caso in cui esistano investimenti diversi dai titoli di stato, questi devono essere smobilizzati (senza alcuna analisi dell’eventuale vantaggio o svantaggio) e la liquidità deve confluire in Banca d’Italia.
Perché è un problema
“La conseguenza più immediata – spiega Rapicavoli – è che gli enti non avranno più la possibilità di disporre direttamente della propria liquidità. L’articolo 35, infatti, è il medesimo che prevede l’impegno dello Stato di ripagare parte dei debiti accumulati negli anni con i fornitori. In Banca d’Italia, dunque, i soldi non rimarranno vincolati, ma potranno essere utilizzati per altri scopi. Non è impossibile ipotizzare una situazione in cui un ente locale emetterà un mandato di pagamento, ma la Banca d’Italia non avrà liquidità per coprirlo”. Tuttavia, sebbene importantissimo, questo è solo uno dei problemi che gli enti locali si troveranno a fronteggiare, un altro particolarmente importante in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo riguarda la cancellazione dal prossimo bilancio di un’entrata cospicua come quella degli interessi attivi. “Gli enti virtuosi – continua Rapicavoli – che per il patto di stabilità non sono riusciti a spendere tutta la propria liquidità, perderanno in questo modo entrate significative. Stiamo parlando di cifre importanti se un ente medio come la Provincia di Treviso ha circa 60 milioni di euro «bloccati», ma che producono dei buoni interessi”.
Altro problema, non irrilevante, è che i servizi di tesoreria sono stati affidati tramite gara pubblica sulla base di alcuni parametri inseriti nei bandi. “Treviso, ad esempio, aveva fatto includere la possibilità di erogare mutui a tassi agevolati per i cittadini, o servizi aggiuntivi a costi ridotti per particolari categorie svantaggiate… il tutto a costo zero per l’amministrazione provinciale, perché la banca trovava un corrispettivo nella possibilità di gestire la liquidità dell’ente. Visto che questo requisito fondamentale verrà a mancare dovremo necessariamente rinegoziare il contratto di tesoreria, e stavolta sarà solamente un costo”.
La ratio della norma
Date queste premesse si vede come il ritorno temporaneo alla tesoreria unica non si tradurrebbe in un risparmio, perché per interloquire con la Banca d’Italia gli enti locali dovranno comunque avvalersi dei servizi di un operatore bancario.
“Non si tratta nemmeno di una norma per arginare gli abusi dell’autonomia finanziaria – spiega Rapicavoli – perché il legislatore era già intervenuto per impedire l’utilizzo di prodotti finanziari rischiosi come i «derivati» che negli anni passati avevano generato vere e proprie catastrofi per gli enti locali”.
Insomma per Rapicavoli la ratio è abbastanza evidente: “L’amministrazione centrale si trova immediatamente con una liquidità (altrimenti impensabile) di circa 8,6 miliardi (questa la cifra prevista dalla relazione tecnica che accompagna il Decreto, ma probabilmente saranno molti di più). Tuttavia non possiamo ignorare che così facendo si cancellano tutti gli sforzi fatti per far nascere e sviluppare nelle amministrazioni locali responsabilità, capacità di programmazione e di monitoraggio della spesa, che sono la base della buona gestione dell’ente”.