Corso (Polimi): “Qualificare, non tagliare, la spesa IT: tre punti per non affossare la Sanità”
10 Dicembre 2015
Mariano Corso, Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano
L’acceso dibattito relativo all’articolo 29 della Legge di stabilità 2016, che prevedeva il taglio drastico e immediato del 50% alla “spesa informatica ” della PA, ha portato ad un sensibile miglioramento del testo con tagli più intelligenti, spalmati su tre anni e selettivi. La lettura del testo tuttavia evidenzia alcuni pericolosi assunti che vanno messi attentamente in discussione perché potenzialmente pericolosi quando si pensa al futuro della Sanità, ma anche di altri settori strategici per il Paese come Scuola, Ricerca e Giustizia .
Un primo assunto di fondo sembra essere quello che la spesa Sanitaria, così come ogni altra componente della spesa pubblica, sia troppo alta e vada quindi tagliata per dare più ossigeno all’economia di mercato. In realtà la spesa sanitaria italiana non è alta e non va più tagliata, ma modernizzata. Negli ultimi anni la Sanità italiana è già stata soggetta a pesanti tagli: con un rapporto spesa/PIL al 9,1% siamo oggi terzultimi tra le nazioni dell’UE a 15 (seguiti solo da Irlanda e Spagna). Pur essendo il Paese più anziano in Europa, la nostra spesa sanitaria procapite è solo di 2.355 Euro contro gli oltre 3600 Euro di Germania e Austria e i quasi 4000 dell’Olanda. Siamo di fatto poco sopra la Grecia che con la sua spesa ridotta a meno di 2000 Euro si trova a dover affrontare una drammatica crisi sociale.
Venendo da un Sistema sanitario pubblico e universalistico che era considerato tra i migliori del mondo, questa falsa efficienza è stata ottenuta attraverso il ritardo degli investimenti in modernizzazione che ha innescato un pericoloso circolo vizioso di declino della qualità dei servizi: progressivo e rapido deterioramento della qualità percepita dei servizi sanitari: dal 2010 al 2014 l’Italia è infatti passata dal 15° al 22° posto dei 34 censiti dell’Euro Health Consumer Index, l’Italia è oggi in coda tra i paesi europei più ricchi per capacità di risposta ai bisogni di salute come la prevenzione, la gestione dei pazienti anziani sul territorio e la possibilità di offrire ai cittadini cure di nuova generazione.
In questa situazione, a fronte di una domanda di servizi essenziali in crescita per effetto della già citata dinamica demografica del Paese, ci sono solo due strade: i) investire per modernizzare e riqualificare il settore sanitario pubblico rendendo i servizi più efficienti e sostenibili oppure ii) accettare che la cattiva qualità della sanità pubblica si ripercuota in costi per cittadini ed imprese, lasciando che siano questi a sopperire rinunciando alle cure, ricorrendo a operatori privati o, dove possibile, trasferendosi all’estero per vivere o curarsi. Ci sono preoccupanti indizi di come, in modo più o meno inconsapevole e inerziale, nel nostro Paese si stia scegliendo questa seconda strada, con sempre più imprese e cittadini della classe media che rinunciano alle cure, ricorrono al privato o vanno all’estero, il tutto con pesanti costi sociali ed economici per il nostro Paese.
Il secondo assunto messo in luce dal dibattito è che la spesa informatica sia una delle fonti di inefficienza e vada quindi tagliata. In realtà la spesa informatica della Pubblica Amministrazione non va affatto tagliata, ma qualificata. Per effetto dei tagli sopra citati agli investimenti la spesa ICT si è già pesantemente ridotta negli ultimi anni e risulta oggi lontana da quella dei principali Paesi Europei. Ancora una volta possiamo usare il caso della Sanità: per la digitalizzazione del proprio Sistema Sanitario l’Italia ha speso nel 2014 circa 22 euro a cittadino, contro i 40 circa di Francia e Germania i 60 dell’Inghilterra e addirittura i 70 euro a cittadino della Danimarca. In queste condizioni tagliare la spesa Informatica è un obiettivo velleitario o peggio ancora irresponsabile. Anche se più contenuta del 50%, infatti, una riduzione ulteriore delle risorse a disposizione per la spesa informatica porterebbe immancabilmente a poter coprire i soli costi di gestione corrente (che di per costituiscono già oltre il 50%), limitando al massimo o rimandando la manutenzione (con gravi rischi per la continuità dei servizi) e fermando ogni iniziativa di investimento. Singolare che tutto questo avvenga proprio quando sembrava che il Paese si fosse finalmente dato una strategia per la salute digitale e che il Governo puntasse sulla digitalizzazione come leva per il rilancio del Sistema Sanitario.
Il terzo assunto che emerge dalla lettura dell’articolo 29 è che una delle principali cause dell’inefficienza della spesa informatica stia nella frammentazione dei processi di acquisti che nasconde sprechi e corruzione e che quindi centralizzando gli acquisti presso Consip e prevedendo controlli vincolanti su prezzi e qualità da parte di Agid, sia possibile ridurre, addirittura dimezzare, la spesa informatica. In realtà, con la normativa esistente, la centralizzazione di tutti gli acquisti in Consip e l’inserimento di ulteriori controlli rischiano non solo di impedire l’innovazione e rallentare i tempi già lunghi di approvvigionamento, ma paradossalmente anche di aumentare i costi, costringendo le amministrazioni virtuose che hanno identificato con impegno e responsabilità soluzioni più economiche ed innovative, ad accedere a quelle disponibili in Consip sopportando tempi e costi maggiori. In questo modo si va in direzione esattamente opposta rispetto allo spirito della nuova direttiva europea sugli appalti che promuove maggiore discrezionalità, flessibilità ed orientamento all’innovazione delle stazioni appaltanti.
Questi tre assunti rappresentano quindi altrettante pericolose semplificazioni che rischiano di tradursi in scelte politiche forse popolari nel breve, ma drammaticamente sbagliate nel medio periodo. Una politica che, senza stanziare risorse per modernizzare le Pubbliche Amministrazioni, imponga di ridurre la spesa informatica non solo non taglia gli sprechi, ma preclude l’unica via credibile ad una possibile razionalizzazione della spesa pubblica.