Resilienza in città, ovvero della flessibilità urbana

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Sentiremo parlare di resilienza dei sistemi urbani sempre più spesso perché è proprio in relazione a questo tema che si gioca la più grande sfida delle città intelligenti. Ma cosa si intende per resilienza? La cronoca di questi ultimi giorni ci mostra – se non ne avessimo già preso coscienza – che oggi dai cambiamenti climatici a quelli sociali, dalle pandemie alle carenze alimentari, i rischi da affrontare per le nostre città sono sempre più numerosi e complessi. In molte parti del mondo come anche nel nostro Paese, sono ormai diversi gli esempi in cui sono i cittadini a portare avanti azioni che, contribuendo al bene collettivo, li rendono attori di comunità resilienti. Una riflessione.

17 Novembre 2014

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Martina Cardellini

Sentiremo parlare di resilienza dei sistemi urbani sempre più spesso perché è proprio in relazione a questo tema che si gioca la più grande sfida delle città intelligenti. Ma cosa si intende per resilienza? La cronoca di questi ultimi giorni ci mostra – se non ne avessimo già preso coscienza – che oggi dai cambiamenti climatici a quelli sociali, dalle pandemie alle carenze alimentari, i rischi da affrontare per le nostre città sono sempre più numerosi e complessi. In molte parti del mondo come anche nel nostro Paese, sono ormai diversi gli esempi in cui sono i cittadini a portare avanti azioni che, contribuendo al bene collettivo, li rendono attori di comunità resilienti. Una riflessione.

Sempre più spesso capita di imbattersi nella parola “resilienza”: una parola potente come è stata definita da B. Severgnini, nel suo ultimo libro La vita è un viaggio. Presa in prestito dalla tecnologia dei materiali, deriva dal verbo latino resilire che significa saltare indietro, rimbalzare. Possiamo dire che la resilienza è la capacità che un sistema ha di rispondere in modo elastico a sollecitazioni esterne: una risposta adattiva e positiva a un cambiamento traumatico. 

Quotidiani, riviste specialistiche e giornali ne parlano ormai quasi quotidianamente e si stanno sviluppando filoni di ricerca, si studiano strumenti di misurazione, di conservazione e condizioni per generarne di nuove. Il fatto è che si tratta di una risorsa preziosa e proprio per questo motivo “resilienza sarà la parola chiave dei prossimi dieci, venti anni”, racconta Piero Pelizzaro, Responsabile Cooperazione Internazionale di Kyoto Club.

Le città sulla corda 

È già da un po’ di tempo che il termine viene usato anche in relazione ai sistemi urbani. Ed effettivamente è proprio in questo tipo di realtà complesse ed esposte a potenziali crisi sociali, ambientali, economiche, che più occorre mettere a fuoco il valore di questa risorsa, preservarla e, laddove scarsa, adoperarsi per farla crescere [leggi il nostro articolo sulle favelas brasiliane].

Per spiegarla meglio prendiamo in prestito da G. Bateson l’immagine di un acrobata sulla corda e paragoniamola a un sistema urbano in evoluzione. “L’acrobata dev’essere libero di passare da una posizione d’instabilità all’altra; vale a dire: certe variabili, come la posizione delle braccia e la loro velocità di movimento, devono avere una grande flessibilità, che l’acrobata sfrutta per mantenere la stabilità di altre caratteristiche più fondamentali e generali. Se le sue braccia sono bloccate o paralizzate, egli cade”[1].

Bene, così come l’acrobata anche le città hanno bisogno di una certa dose di flessibilità distribuita al loro interno per gestire cambiamenti repentini e rispondere in modo positivo a forti pressioni esterne. I sistemi metropolitani che abitiamo sono costantemente esposti a diversi rischi, da quelli ambientali a quelli sociali, fino a condizioni neanche troppo inusuali come gli attacchi terroristici, le pandemie e la carenza alimentare (quest’ultimo, stando ai recenti dati della Coldiretti, sarà un rischio del prossimo futuro per le nostre città, sebbene in altre regioni del mondo rappresenti già oggi una condizione di fatto). Proviamo allora ad immaginare quanto le braccia delle città sono in grado di muoversi mantenendo i sistemi urbani in equilibrio…

Molta fragilità, poca resilienza

L’attenzione globale sulla questione probabilmente si è accesa con l’arrivo dell’uragano Sandy a New York City. “Forse Sandy ha fatto nascere il casus belli, ma non perché ci siano stati morti e sia mancata l’elettricità, piuttosto perché Wall Street è rimasta chiusa per tre giorni, – spiega Pelizzaro – questo significa che si sono persi milioni di dollari e gli investitori per questo motivo hanno incominciato a considerare la cosa. Da quell’anno, analizzando i rapporti del World Economic Forum, il fallimento dell’adattamento ai cambiamenti climatici viene identificato come il quinto rischio sistemico per l’economica mondiale e la resilienza è riconosciuta come l’unica reazione sana in un mondo sempre più interdipendente e interconnesso”.

Se anche la Grande Mela ha messo in mostra tutta la sua fragilità di fronte a uno shock come quello subito nel 2011, cosa potremmo dire delle resilienza delle nostre città che oggi franano non appena piove per due giorni di fila? Le città italiane vantano alti indici di fragilità.

Eppure di queste stesse questioni ne parlava già Antonio Cederna negli anni settanta, lamentandosi della trascuratezza della politica italiana in materia di difesa ambientale, sicurezza del suolo e pianificazione urbanistica. “I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di naturale poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti. […] Fino a che la difesa della natura e del suolo non diventerà la base della pianificazione del territorio, fino a che questo non sarà considerato patrimonio comune, continueremo a contare le morti e le distruzioni”[2].

Il valore del niente

Forse si dovrebbe cominciare con il “tirar fuori dal ghetto dell’ambiente il cambiamento climatico”, spiega Pelizzaro. E guardarlo in una più ampia prospettiva, perché “il cambiamento climatico è anche e soprattutto una questione sociale, va a colpire diversi aspetti delle nostre comunità, così come le infrastrutture e l’economia reale, per questo non può essere considerata una questione meramente ambientale”. Ma a giudicare da quanto poco è stato fatto fino ad oggi nel nostro paese (ad oggi in Italia solo una città ha un Piano di Adattamento e manca del tutto una politica nazionale al riguardo) il processo sarà lungo e lento e naturalmente dovrà riguardare anche l’aspetto culturale.

Ecco un racconto che spiega il perché: “Ho alloggiato in un grande hotel nella periferia di Lecce. – racconta Pelizzaro – Mi sono incuriosito e ho voluto chiedere alla receptionist cosa c’era in quel luogo prima che si costruisse l’edificio. Lei mi ha risposto che ‘non c’era niente, era inutilizzato, era un campo’. Ma il campo non è niente, aggiungo io, quel campo ha un valore. Un valore di protezione in primo luogo, e soprattutto quel campo assicura che, se arriva un carico d’acqua, il flusso idrico potrà drenare attraverso il terreno. Certamente un hotel può creare economia, ma bisogna comunque valutare quanta ne crea e metterla in rapporto ai danni che può arrecare”. Questi sono i conti sbagliati della nostra economia di cui parla Cederna, quelli che hanno puntato tutto sul tornaconto immediato e sul profitto.

Il territorio, o il campo in questo caso, non è res nullius, come si è generalmente abituati a pensarlo, bensì il contrario: un prezioso bene comune da tutelare. “Quel che è veramente vitale – scriveva L. Mumford – è la conservazione della matrice verde nella quale le comunità urbane, grandi e piccole, sono inserite: soprattutto la necessità di evitare che la crescita incontrollata del tessuto urbano cancelli questa matrice e sconvolga l’intero sistema ecologico della città e della campagna”[3]. Da questo bisogna partire per “affrontare il cambiamento climatico come una politica sociale sistemica oppure, se continueremo a considerarla sempre e solamente una politica ambientale, la resilienza non verrà mai attuata nel suo complesso”, sottolinea Pelizzaro.

Resilienze crescono

Resilienti non si nasce, ma si cresce. E la città di Copenhagen ne è un valido esempio. Nel 2011 la città aveva un Piano Clima. Eppure l’alluvione ha creato danni per circa un miliardo e mezzo di corone danesi. “La città è rimasta bloccata. Si è diffuso il panico tra la cittadinanza e il comune ha ammesso di aver sbagliato – fa notare Pelizzaro –. La prima cosa da fare? Riconoscere di avere un problema e di esser esposti a un rischio. Ma in Italia questa cosa non si fa. L’assunzione di responsabilità è praticamente nulla”. Per quanto questo sia davvero il primo passo da compiere per poi procedere e, come è accaduto nella capitale danese, ridefinire subito un piano d’azione. “Il CPH Climate Plan 2025 è stato fatto nei primi sei mesi post-intervento e non nei seguenti cinque anni. Anche perché nei mesi immediatamente successivi la memoria degli imprenditori è viva, cioè è quello il momento in cui si trova sostegno. Se passa il tempo si perde memoria, pensiamo a Genova”. Inoltre è stato anche istituita una figura interessante, il Chief Resilience Officer per invogliare i cittadini a lavorare insieme sui temi dell’adattamento ai cambiamenti climatici.

In Italia è stato fatto ben poco fino ad oggi, soprattutto a livello di governo centrale. Tuttavia, durante lo sviluppo del progetto BlueAp di Bologna, che porterà la città ad avere il suo Piano di Adattamento nel 2015, Pelizzaro racconta che sono state rilevate “capacità di resilienza” di cui la città era già in possesso, in parte ignara. Si tratta di risposte della comunità che hanno un ruolo importante nel percorso verso città più resilienti. Tuttavia accade spesso che “le amministrazioni non le vedano, ma le risposte dei cittadini vanno più veloci delle nostre istituzioni”: da strumenti come GramignaMap agli interventi di guerrilla gardening, inizialmente criticati e definiti gesti criminali. “Sono, in realtà, azioni concrete che l’amministrazione non fa a causa dei tagli di bilancio, come prendersi cura delle aiuole, delle rotatorie, ridare vita ad un spazio abbandonato mettendoci un orto urbano o arricchendolo con dei fiori, insomma rendendo le città più vivibili”, prosegue Pelizzaro. Spesso i cittadini già oggi portano avanti azioni che contribuiscono al bene collettivo, e che li rendono di fatto attori di comunità resilienti.

Costruire resilienza, così come misurarla, non è certo un affare da poco. Ma non nascondiamoci dietro l’alibi del non ci sono i soldi. Di espressioni di resilienza ce ne sono molte nelle città, e spesso sono proprio le comunità a generarne, anche nelle fragili città italiane. E, assicura Pelizzaro, “se noi mettessimo a sistema le cose che già si fanno, di soldi quasi non ci sarebbe bisogno: molte cose vengono già fatte! Se allora i comuni dialogassero di più con i cittadini, attraverso una partecipazione più stretta, capirebbero che forse tante cose non c’è bisogno di finanziarle perché sono già state finanziate. In questo modo daremmo una prima risposta agli shock economici, climatici, e quindi sociali”. È proprio su queste risposte resilienti che le città devono puntare: da qui si può partire per far ritrovare elasticità a un Paese ormai irrigidito.

 


[1] G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976
[2] A. Cederna, Corriere della Sera, 3 gennaio 1973
[3] L. Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967

 

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