Pianificazione strategica: immaginare il futuro per creare sviluppo
Non un semplice sguardo rivolto al futuro, ma una capacità quasi “visionaria” di tracciare scenari e proporre soluzioni di lungo periodo, mettendo in gioco tutti i diversi aspetti che influenzano lo sviluppo dei territori. La pianificazione strategica chiede questo agli attori chiamati a partecipare a un processo che investe orizzonti temporali sempre più estesi. Di pianificazione strategica, e in particolare delle prospettive di trasformazione e sviluppo delle aree del Mezzogiorno, si parlerà martedì 23 settembre a Bari, in occasione del terzo convegno internazionale organizzato nell’ambito delle attività della ReCS – Rete delle Città Strategiche, in collaborazione con Comune di Bari, Ba2015 (Piano Strategico Metropoli Terra di Bari) e Intesa Sanpaolo.
16 Settembre 2008
Non un semplice sguardo rivolto al futuro, ma una capacità quasi “visionaria” di tracciare scenari e proporre soluzioni di lungo periodo, mettendo in gioco tutti i diversi aspetti che influenzano lo sviluppo dei territori. La pianificazione strategica chiede questo agli attori chiamati a partecipare a un processo che investe orizzonti temporali sempre più estesi. Di pianificazione strategica, e in particolare delle prospettive di trasformazione e sviluppo delle aree del Mezzogiorno, si parlerà martedì 23 settembre a Bari, in occasione del terzo convegno internazionale organizzato nell’ambito delle attività della ReCS – Rete delle Città Strategiche, in collaborazione con Comune di Bari, Ba2015 (Piano Strategico Metropoli Terra di Bari) e Intesa Sanpaolo.
Ma cosa significa in concreto fare pianificazione strategica e quanto pesano realmente i processi di partecipazione e condivisione nell’elaborazione dei piani di sviluppo per il territorio? L’abbiamo chiesto a Dino Borri, direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari e presidente del Comitato scientifico del Piano Strategico Metropoli Terra di Bari.
Quali novità introduce la pianificazione strategica rispetto ad altri strumenti più tradizionali di programmazione e progettazione?
La pianificazione strategica è innanzitutto una pianificazione multisettoriale integrata, è un processo a tutto campo per lo sviluppo di una regione, di una collettività: quindi, una pianificazione ambientale, economica, territoriale, sociale. Altra caratteristica è la dimensione molto estesa dell’orizzonte temporale: di solito i piani strategici che si fanno ora in giro per il mondo sono piani di next generation, di generazione futura. L’orizzonte è spostato molto avanti, addirittura fino a 50 anni per gli aspetti che riguardano le problematiche ambientali.
Ma come si fa a pianificare con un orizzonte temporale così ampio?
Bisogna trovare un compromesso tra la necessità di guardare ad alcuni settori in maniera un po’ più ravvicinata (ad esempio le previsioni strettamente economiche sono più difficili sul lungo periodo, perché i cicli sono più ravvicinati) e quella di guardare, invece, molto lontano per altri aspetti, come appunto le questioni ambientali che stanno diventando sempre più rilevanti per la vita delle comunità. Si può guardare lontano utilizzando due strumenti: il primo, più tradizionale, sono le analisi di tendenza, che consistono nello studiare il passato cercando poi di proiettarlo nel futuro; il secondo, molto più innovativo, consiste in una sorta di “capacità visionaria”, per cui il futuro non è costruito solo sulla base di esperienze passate, ma anche sulla visione che si ha di esso, su un’intenzionalità, sulla volontà di costruirlo in un certo modo. La pianificazione strategica, naturalmente, non è solo la definizione di obiettivi, ma anche l’individuazione puntigliosa e collettiva delle azioni da compiere per conseguirli.
In che senso collettiva? Quali sono i soggetti che intervengono nella pianificazione strategica?
L’elemento della collettività è molto importante e consiste nel contributo che arriva alla pianificazione da soggetti esperti, portatori di un sapere diffuso nella comunità. La pianificazione strategica è molto democratica, almeno in teoria. Dico questo perché non possiamo nasconderci il fatto che, su questo modello di pianificazione dal basso, si sia innestata anche una certa retorica. Innanzitutto in comunità ampie come le nostre non si può pensare di andare a discutere nelle piazze; gli interlocutori diretti sono i rappresentanti delle comunità. Poi non si deve dimenticare che l’investimento nella pianificazione dialogica è molto complesso: spesso si fa molto ascolto e poi delle cose che vengono dette non si trova più traccia nei documenti e nelle azioni. Il dialogo avviato, invece, dovrebbe essere mantenuto, gli stakeholder dovrebbero essere sentiti con continuità. Ma fare questo è molto difficile.
Le nuove tecnologie possono contribuire ad estendere questo processo di partecipazione?
La maggior parte dei piani strategici oggi fa uso di Ict, però l’esperienza ci dice che il digital divide è ancora molto forte. Si mettono in piedi sistemi, come siti web, per consentire alle persone di depositare commenti e suggerimenti ai piani strategici o consultare la documentazione e poi si vede che l’utilizzo di questi strumenti è davvero modesto. I piani strategici investono azioni complesse e settori specialistici, siamo in un dominio molto tecnologico, anche se ammantato di qualificazioni di democrazia e partecipazione. Le stesse tecnologie sono percepite come ostili dalla maggior parte delle persone, che nel quotidiano non ha tempo di riflettere sulle nostre strategie e di dedicarsi a sedute di interazione con il web semantico.
Come convivono le identità locali (culturali, economiche, urbanistiche) con la dimensione di area vasta e le logiche di governance multilivello insite nella pianificazione strategica?
Il mondo globale è fatto di tante identità, non di soggetti astratti, compatti, uniformi. Per questo non vedo alcuna contraddizione tra il fatto che si sviluppi una competizione tra aree territoriali a livello globale e il fatto che, in ognuna di queste aree, ci siano tante piccole identità locali che vogliono esprimersi. La loro presenza e il loro coinvolgimento crescente in questi processi multilivello, in cui le metropoli dialogano al proprio interno con centri più piccoli, è un arricchimento per le singole aree. I piani strategici oggi incorporano questa dimensione di diversità, anche se il confronto tra le diverse identità non è semplicissimo.
Al centro del convegno del 23 settembre ci saranno le aree del Mezzogiorno e le loro prospettive di sviluppo. Come si colloca lo strumento della pianificazione strategica nella realtà del Sud d’Italia?
Credo che il Mezzogiorno, e più in generale il Mediterraneo meridionale (penso ad esempio a realtà come Il Cairo o Algeri), sia segnato da una contraddizione, forte ma virtuosa, tra due elementi: da una parte una certa difficoltà a proiettarsi nel futuro, causata dai bisogni pressanti dell’oggi (povertà, mancanza di lavoro); dall’altra la predisposizione a un atteggiamento disincantato, dovuto a motivazioni storiche e culturali, che spinge a guardare alla realtà senza farsi troppo coinvolgere. Un atteggiamento mentale che induce un pensiero non totalmente radicato nel presente e, quindi, capace di avere delle visioni, di proiettarsi con l’immaginazione nel futuro. Mi chiedo, perciò, se non sia proprio questo il contesto più adatto a trovare soluzioni per questo mondo difficile, in cui bisogna affrontare i problemi drammatici dell’oggi, ma al tempo stesso guardare lontano, essere lungimiranti. Credo che il Sud d’Italia abbia questa potenzialità ed è qui che si colloca la sfida della pianificazione strategica nelle grandi aree metropolitane del Mezzogiorno.