Forconi? “qu’ils mangent de la brioche!”
È la frase che si attribuisce a Maria Antonietta quando le annunciarono, prima della rivoluzione, una rivolta con i forconi di un popolo che non aveva più pane.
12 Dicembre 2013
È la frase che si attribuisce a Maria Antonietta quando le annunciarono, appena prima della rivoluzione, una rivolta con i forconi di un popolo che non aveva più pane. Il rischio che la politica risponda completamente fuori tono alla protesta di piazza esisteva allora, quando il potere era asserragliato in una Versailles già nei fatti marginale, ed esiste ora quando alla disperazione vera, che costituisce l’immenso serbatoio di energia e di rabbia a cui attingono spesso pochi approfittatori, la risposta arriva come da Marte: incomprensibile e distorta.
Se Luigi XVI e Maria Antonietta avessero capito che non era più Versailles il luogo della storia e fossero tornati a Parigi, magari tra il popolo asserragliato in Place de la Grève, forse avrebbero colto qualche anno prima l’aria che tirava e che non passava dalla Corte. Ora in questo mondo interconnesso e sincrono, dove tutto succede insieme, dai funerali di Mandela alle farneticazioni dei capipopolo in Jaguar, dov’è la piazza che dovremmo frequentare per capire? E come possiamo rispondere a tono se siamo circondati dal rumore, ma non sappiamo più dove e chi pone le domande?
Mi aggiro così tutti i giorni tra gli uffici pubblici e le centinaia di commenti che quotidianamente vengono postati a latere degli articoli nostri e dei vari quotidiani online, alla ricerca della piazza che mi aiuti a capire, provando a far sì che FORUM PA resti luogo della comprensione e della connettività. Cerco in questo modo di comprendere e di distillare, per le cose su cui posso avere qualche competenza, le ragioni che possono essere alla base di una rabbia vera, quella che può animare per mesi piazza Tahrir, separandole dai momentanei sbuffi che al massimo producono qualche “Vaffa”.
A ciascuno il suo: io mi occupo della PA e provo a fare, in questo ambito, un sommario e provvisorio elenco delle cose che mi sono apparse ora, in questa indagine, assolutamente insopportabili e che devono quindi trovare risposte adeguate (pane vero non brioche) immediatamente (settimane, non mesi, né tantomeno anni), per evitare che “i forconi” trovino nell’impiego pubblico altra truppa per riempire le piazze:
- La concomitante presenza sia di un blocco contrattuale (ormai di cinque anni) sia di un blocco del turnover, entrambi comunicati come peggio non si sarebbe potuto e di cui nessuno si è preso chiara responsabilità, ha messo sulle spalle del pubblico impiego un fardello pesantissimo, forse necessario, ma che nessuno ha spiegato e di cui nessuno ha detto neanche grazie, quasi fosse un risarcimento postumo per posizioni di maggior favore di cui i dipendenti pubblici dovessero vergognarsi. L’antidoto può essere solo maggior rispetto, di quello vero che induce al dialogo tra pari.
- La disuguaglianza eccessiva e non basata su alcun giudizio di merito è causa di profondo disagio. La crescente sproporzione tra gli stipendi dei dirigenti, specie apicali, e quelli del comparto situa le due categorie in due status sociali completamente diversi che non sono percepiti come dipendenti dal merito; inoltre le differenze di trattamento, a parità di lavoro, tra i diversi comparti del pubblico impiego parlano di privilegi, di lobby, di favoritismi che nessuno tollera più. Il simbolo di questo è lo status dei dipendenti del MEF o della Presidenza del Consiglio. Unica via d’uscita è ridurre da subito, anche con coraggiosi provvedimenti, tale disuguaglianza. Non c’è tempo di aspettare che si sani da sola.
- Il congelamento della speranza di un miglioramento tiene lontano i migliori dal pubblico impiego. In qualsiasi posto di lavoro devo poter sperare di crescere, di far carriera, di farmi valere. Se questa speranza muore o è legata solo all’anzianità, resta solo la rassegnazione. E’ necessario bloccare subito le progressioni orizzontali automatiche e dare condizioni di credibilità alla valutazione e alla scelta.
- Il blocco dell’investimento sulle persone diventa arroccamento, di cui è simbolo il dimezzamento delle spese di formazione e l’impossibilità di viaggiare, di collegarsi, di aggiornarsi, di partecipare a convegni; ma anche l’assenza di mobilità che fa diventare il lavoro pubblico una lapide. Non è possibile trattare le amministrazioni come castelli chiusi; bisogna discriminare e lavorare per budget: ogni dirigente deve avere a disposizione un investimento per aggiornare, formare e far muovere le sue persone, di cui dovrà ovviamente rispondere con i risultati.
- Le mancate promesse di valutazione minano le condizioni della fiducia. Fino a che non c’è un effettivo riconoscimento del merito, persino con il rozzo sistema delle fasce proposto da Brunetta, e nella notte tutti i gatti continuano a essere neri, i migliori faranno sempre più fatica a non sentirsi degli utili idioti. Se non è possibile che il monte salari nel suo complesso aumenti (affermazione tutta da dimostrare), non possiamo rinunciare comunque a premiare il merito dei migliori, a costo di penalizzare gli altri, ma dobbiamo avere il coraggio di scegliere chi sono quelli da premiare, che non possono che essere una minoranza.
- Il taglio delle spese minime di funzionamento impedisce alle amministrazioni lo svolgimento dei loro compiti. Rendere impossibile il lavoro, togliendogli la benzina, ma lasciando invariati i modelli organizzativi, i perimetri e la geografia delle amministrazioni, non può che confermare che la PA è percepita dalla politica come inutile e assistenziale. Riduciamo, anche drasticamente, gli enti. Ma se li teniamo mettiamoli in condizione di funzionare efficacemente. Dare le lavagne multimediali nelle scuole, ma non la connettività, non è solo stupido, è anche offensivo verso chi nella scuola ci lavora.
- L’ignoranza dell’alta dirigenza sui processi d’innovazione resta l’ostacolo maggiore alla modernizzazione della macchina pubblica. Non spiego ulteriormente perché sia Luca Attias con un intervento sia io con un editoriale ne abbiamo abbondantemente parlato.
- Il crescere degli adempimenti formali in forma inversamente proporzionale all’attività di produzione del valore, rende la PA sempre più aliena. E’ quella che ho chiamato “necrofilia amministrativa”. A mano a mano che si tagliano le condizioni di effettiva operatività, ossia gli strumenti per rispondere ai bisogni dei cittadini e delle imprese, drammaticamente cresciuti in tempo di crisi, si creano con leggi, direttive, circolari e decreti sempre ulteriori passaggi burocratici, sempre più stringenti limiti, sempre più fitte regolamentazioni. Peccato che si stia chiudendo con chiavistelli sofisticatissimi una scatola ormai semivuota, in cui l’attività core è quasi ferma. In questo senso una completa e duratura moratoria normativa non può che essere necessaria, così come l’attenzione a non normare aspetti quotidiani della vita dell’amministrazione che devono poter essere risolti dalla dirigenza con una buona cultura organizzativa.
- Queste condizioni di disagio, che renderebbero impossibile il lavoro in qualsiasi organizzazione complessa, sono, a mio parere, gravi soprattutto perché, visti nel loro insieme, sono tutti indizi chiari della rinascita dello sciagurato patto tacito che ha reso per decenni impossibile qualsiasi reale innovazione nella PA: “poco ti do, poco ti chiedo”.
Questa strategia al ribasso non ce la possiamo permettere ed è alla base di quello scontento tacito di cui alcuni episodi, come forme di solidarietà delle forze dell’ordine con moti di arrabbiati, sono preoccupante testimonianza.
Ma se continuiamo a pensare a come pararci dalle conseguenze, senza agire sulle cause, non andiamo lontano.