Il Consiglio di Stato contro la Pec, ovvero: quando ti remo contro dal cortile di casa
Il Miur aveva deciso che le prossime domande per diventare pre-professori universitari dovevano essere presentate attraverso posta certificata, ma il Consiglio di Stato ha deciso che ciò è da considerarsi impossibile perché, fra l’altro, “è troppo difficile leggere le mail con allegati”. Così, almeno 25mila candidati dovranno spedire la documentazione in forma cartacea, con tutte le immaginabili conseguenze negative che ne conseguono, fra l’altro alla faccia di ogni volontà di innovazione e cambiamento, soprattutto in funzione dei bisogni del cittadino e della necessaria modernizzazione dei rapporti con la PA. Una mail di una nostra lettrice inquadra bene il problema, con tanto di pratica proposta risolutiva possibile.
5 Luglio 2011
Tiziano Marelli
È notizia di pochissimi giorni fa quella relativa al parere negativo del Consiglio di Stato sull’utilizzo di mezzi telematici per la presentazione delle prossime domande da professore universitario. La disputa riguarda i concorsi che dovrebbero partire in autunno. Si tratta di un’operazione monstre: almeno 25mila candidati (ricercatori, professori associati e studiosi di varia specializzazione attualmente impiegati extra-ateneo) che devono essere selezionati da 180 commissioni composte da 900 giudicanti. Una “gara” che comunque non mette in palio cattedre nell’immediato, ma serve a rientrare semplicemente negli elenchi dell’abilitazione nazionale, quelli rispetto ai quali le università italiane potranno attingere per poi “chiamare” docenti ordinari e associati di tutte le materie.
Davanti ad un esercito del genere in marcia sull’Università, il Miur – il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – si era convinto a puntare sulla Pec, la posta elettronica certificata, nella prospettiva di rendere più semplice la trafila ai candidati, e più snella la selezione a chi ne era preposto. In questo modo, le “domande, corredate da titoli e pubblicazioni scientifiche” andavano “presentate per via telematica”, e così sarebbe bastata una mail certificata con tanto di pdf in allegato per assolvere la richiesta. Ma per il Consiglio di Stato il problema si è, invece, rivelato insormontabile perché, paradossalmente, “la trasmissione informatica può diventare troppo onerosa e richiedere tempi di confezionamento e lettura più lunghi”, anche perché risulterebbe “troppo difficile leggere le mail con allegati”. Poche parole a epitaffio di un lodevolissimo tentativo di modernizzazione e innovazione delle metodologie in atto nella Pubblica Amministrazione, con la conseguenza che ora tutti i candidati dovranno spendere soldi inutili (e nemmeno pochi) per riempire di carta le commissioni pre-esaminatrici (solo le pubblicazioni che dovranno essere considerate valide sono dodici, e in cinque copie, tanti sono i componenti di ogni collegio) e intasare le Poste di plichi che poi andranno ad accumularsi al Miur per essere passati al vaglio.
In pratica, stiamo assistendo ad una disputa tutta interna, fra le resistenze indubbie e da considerare senz’altro superate del Consiglio di Stato e le volontà di cambiamento, ad esempio del Ministero dell’Innovazione che proprio sulla PEC ha puntato ormai da tempo molte delle sue carte per snellire procedure e comunicazione fra organi centrali e cittadini, vere e proprie vittime – come questa querelle dimostra – sballottate fra propositi di modernizzazione e resistenze al nuovo che (ineluttabilmente, per fortuna) avanza e lo deve fare sempre più. Se i risultati rispetto ad un progetto ampio che vede ministri disposti ad esporsi in prima persona per la sua realizzazione – come lo è fin dall’atto del suo insediamento Renato Brunetta – sono questi, c’è poco da guardare speranzosi al nostro futuro di cittadini-telematici, soprattutto alla luce di quell’innovazione “silenziosa” e naturale – la lenta ma inarrestabile modernizzazione di tutta la nostra PA, necessaria per metterci al pari con l’andare dei nostri tempi, soprattutto quelli del resto dell’occidente – di cui abbiamo già fin d’ora un gran bisogno.
Proprio su quest’argomento abbiamo ricevuto una mail da una nostra lettrice che crediamo inquadri molto bene il problema. Dopo aver tentato inutilmente di far giungere la sua voce direttamente al Consiglio di Stato attraverso il sito ufficiale (e già questo è abbastanza significativo) Alessandra Intraversato ci scrive, fra l’altro, dicendo che:
“questa decisione, oltre a essere a mio modo di vedere retrograda e indegna di un Paese che voglia dirsi minimamente moderno, è estremamente discriminante da un punto di vista economico: infatti inviare le proprie pubblicazione tramite raccomandata AR ha un costo notevolissimo […] Naturalmente nel resto del mondo civile questo non accade, esistono degli applicativi che permettono di caricare tutte le informazioni necessarie per la partecipazione ai concorsi, compreso l’upload delle pubblicazione direttamente on line, a costo 0 per i partecipanti, e anche a costo quasi 0 per la PA, che si risparmia le montagne di carta a cui siamo così affezionati, e il tempo-uomo che ci vuole a gestirle. Vi segnalo inoltre che da anni l’università è dotata di un content manager per le pubblicazioni scientifiche, gestito dal Cineca, in cui chiunque faccia ricerca a qualunque titolo, dal dottorando in su, ha un proprio account e la possibilità di caricare le proprie pubblicazioni: attraverso questo sito i docenti presentano le domande per i finanziamenti per la ricerca. Poiché l’80% dei partecipanti a questa idoneità è già on line sul sito del Cineca, basterebbe aggiungere un pulsantino ‘presenta domanda per l’idoneità scientifica’”,
e il gioco – aggiungiamo noi – sarebbe fatto. La mail si chiude così: “Il mio sconforto quando ho letto questa notizia è stato notevole, soprattutto perché viene da un organo della giustizia amministrativa che dovrebbe aiutare a rendere le cose più semplici ai cittadini. Evidentemente è la gerontocrazia italiana il vero ostacolo all’innovazione della PA”.
Lo sfogo della professoressa ci pare sacrosanto, così come sacrosanto è stato il nostro dovere di relativa pubblicazione. Ma se si volesse tentare di andare oltre, dovremmo consigliare alla nostra affezionata lettrice di armarsi di carta e penna (sì, proprio carta e penna) per scrivere una classicissima lettera da tempi andati, e inviarla al Consiglio di Stato. Possiamo immaginare che a riceverla sarebbe un funzionario in mezze maniche che, dopo rapida lettura, magari procederebbe veloce alla sua collocazione definitiva, anche questa classica quando non si sa bene che pesci pigliare: nel cestino a fianco della sua più che datata scrivania. Attenzione: cestino inteso come oggetto reale e palpabile, non quello virtuale che si trova su una normale schermata iniziale di qualsiasi pc. In quel caso, per il travet in questione, l’operazione si rivelerebbe un rompicapo telematico di impossibile soluzione.