Educazione, perché è necessaria una innovazione inclusiva

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L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità : istruzione, educazione, formazione ne devono essere gli assi portanti, non semplici “strumenti”. Ecco le sfide di un’innovazione che non può essere per pochi

23 Dicembre 2016

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Piero Dominici

L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità : istruzione, educazione, formazione – evidentemente – ne devono (dovrebbero) essere gli assi portanti, non semplici “strumenti” che arrivano a valle dei processi di mutamento per correggere traiettorie e discontinuità inattese e/o imprevedibili. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica , con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza : una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì “simulate” e imposte dall’alto senza calarsi, completamente e concretamente, nelle prospettive e nei mondi vitali dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati a praticare/esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole, co-costruendone le condizioni strutturali e socioculturali e ri-producendole costantemente. Siamo di fronte alla necessità ed all’urgenza di scelte strategiche di lungo periodo anche coraggiose che, nella società interconnessa e ipercomplessa (2003), riguardano sempre più, non soltanto la possibilità di adattarsi e/o gestire il cambiamento (globalizzazione, connettività complessa, rivoluzione digitale, economia e società della condivisione, nuove asimmetrie e disuguaglianze etc. à cfr. anche mia definizione di “società asimmetrica”), ma le stesse opportunità di scegliere tra la “libertà/responsabilità di essere cittadini” e la “libertà/responsabilità di essere sudditi” (Dominici, 2000). Tra partecipazione e libertà di essere sudditi . Nell’utopia di poter andare oltre la libertà di essere sudditi !

Come abbiamo avuto modo di affermare già diversi anni fa, l’ipercomplessità non è – e non è mai stata – un’opzione, è un “dato di fatto”: siamo di fronte ad una ipercomplessità che si è a tal punto estesa da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della stessa. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che, evidentemente, riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti” e di conoscenza scientifica, funzionali proprio all’analisi e gestione di questa ipercomplessità, oltre che dell’ imprevedibilità che la connota (-> epistemologia dell’incertezza). Dimensioni problematiche complesse che, anche nel quadro di una progressiva ridefinizione dello spazio della sfera pubblica (globale) e dei confini (saltati) con la sfera privata, condizionano interpretazioni, discorso pubblico e narrazioni egemoni.

Il vero problema è che continuiamo a non essere educati e formati a riconoscere questa ipercomplessità: in altri termini, continuiamo « a vedere gli oggetti come sistemi e non viceversa» *. Un’inadeguatezza sempre più evidente nella società dell’interdipendenza e dell’interconnessione globale: un “nuovo ecosistema” (1996) in cui tutto è (almeno, in apparenza) collegato e interconnesso, all’interno di processi e dinamiche non lineari, con tante variabili e concause da considerare. Una ipercomplessità che – bene chiarirlo ancora una volta – è cognitiva, sociale, soggettiva, etica, e che, investendo ogni ambito della vita e della prassi, ci richiede, conseguentemente, di ripensare le categorie, l’educazione e le “forme” della cittadinanza.

Detto in altri termini, dobbiamo confrontarci con un’ipercomplessità che ci costringe a fare i conti con alcuni urgenze:

  • L’urgenza di superare i vecchi modelli lineari e cumulativi che continuano a segnare in profondità l’articolarsi e la stessa organizzazione dei saperi.
  • L’urgenza, una volta per tutte, di andare oltre le logiche di separazione e di reclusione dei saperi che, di fatto, vincolano i processi educativi e formativi all’interno di dinamiche individualistiche che consentono soltanto la trasmissione dei saperi, e non la loro comunicazione e condivisione.
  • L’urgenza di superare una vecchia idea/visione dell’apprendimento come processo di accumulazione dei saperi in vista di processi di apprendimento sempre più complessi e articolati ma, soprattutto, sempre più orientati verso la cooperazione e la collaborazione.
  • L’urgenza di riorganizzare, non soltanto i percorsi didattico-formativi, incoraggiando interdisciplinarità e multidisciplinarità (fondamentale), bensì ripensando l’intero sistema di pensiero e accrescendo la conoscenza della conoscenza (Morin) aumentando la relativa consapevolezza.

Possiamo anche fingere di non accorgercene, ma i “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica (le cd. “due culture”) sono completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica). Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione (cit.), abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa).

Il processo evolutivo degli ecosistemi sociali sta progredendo verso una ridefinizione degli spazi relazionali e delle asimmetrie , che porta con sé l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” (2003). Di conseguenza, diventa ancor più urgente una riformulazione del pensiero e dei saperi che coinvolga direttamente sia la Scuola che l’Università, purtroppo ancora pensate e organizzate come “entità” separate le cui politiche (?) andrebbero progettate in chiave sistemica; una riformulazione del pensiero e dei saperi in prospettiva aperta e multidisciplinare, che sappia (evidentemente) tener conto e valorizzare la specializzazione di conoscenze e competenze, superando quella visione distorta e fuorviante che la vede incompatibile con la complessità e l’approccio che essa sviluppa. Quanto detto dovrebbe, poi, concretizzarsi in proposte e strategie educative funzionali – nel lungo periodo – alla costruzione sociale del cambiamento e ad un’ innovazione inclusiva che, ricordiamolo, se imposti esclusivamente come processi dall’alto, si riveleranno sempre un cambiamento esclusivo, per pochi e di breve periodo. Occorre prendere definitivamente coscienza che questo è il vero “fattore” strategico del cambiamento e dei processi di innovazione: il “fattore” culturale, una variabile complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici e sociali. E il livello strategico è, ancora una volta, quello concernente i processi educativi di cui sono protagoniste (dovrebbero esserlo) la Scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione che peraltro, in questi ultimi decenni, si son viste divorare da media, reti e gruppo dei pari lo spazio educativo e della socializzazione; è il livello cruciale dove è possibile educare e formare teste bene fatte (Montaigne) e non teste ben piene ; è anche il livello strategico dove (almeno) provare a coltivare e praticare l’empatia, il pluralismo e il riconoscimento del valore della diversità per costruire società aperte e realmente inclusive, fondate su cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità, del rispetto, della non-discriminazione; infine, è il livello cruciale dove determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’ indebolimento del legame sociale e della Comunità. Percorsi che, inevitabilmente, si incrociano, fino a sovrapporsi, e che riguardano allo stesso tempo teoria e ricerca scientifica, scuola e università, cittadinanza e democrazia, eguaglianza delle condizioni di partenza e inclusione . Educazione e cittadinanza…Educazione è cittadinanza, educazione è possibilità di partecipazione, educazione è inclusione .

La correlazione tra educazione e cittadinanza/inclusione si rivela, in tale prospettiva, ancor più evidente e conseguenziale. Perché non sono, e non saranno, la tecnologia e/o il digitale a determinare cittadinanza e inclusione, o a creare le famose “ Teste ben fatte” (Montaigne). In tal senso, al di là di queste considerazioni preliminari, ci tengo a precisare che, a mio avviso, esiste un altro rischio, estremamente concreto: quello di pensare (e agire di conseguenza) che l’educazione digitale – e, con essa, la stessa cultura digitale …anzi le stesse culture digitali – sia una questione meramente “tecnica”, di “preparazione tecnica”, di “competenze” specifiche legate (esclusivamente) alla “natura” delle (nuove) tecnologie della connessione e dei nuovi ecosistemi/ambienti comunicativi (oltre che, evidentemente, agli ambienti lavorativi e professionali).

Riprendendo alcune questioni sulle quali siamo tornati più volte, non possiamo fare a meno di rilevare la nostra inadeguatezza di fronte alle sfide ed ai dilemmi della ipercomplessità

La complessità sociale (e organizzativa), pur nella sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di gestione della conoscenza (Dominici 2003, 2011), di possibilità conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e realizzate, tradotte in scelte e decisioni – non possiamo non richiamare anche la weberiana sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo . Una complessità, così come l’abbiamo intesa, ulteriormente accresciuta e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare (nella cd. Società Interconnessa -> + informazioni + dati = + razionalità nelle scelte e nelle decisioni), ancor più imprevedibile – nonostante la dimensione del tecnologicamente controllato sia aumentata in maniera esponenziale – proprio in virtù dell’enorme (infinita) mole di dati e informazioni che, non soltanto non parlano mai da soli , ma determinano una condizione permanente e costante di razionalità limitata a tutti i livelli, da quello organizzativo a quello sociale.

Il “dato di fatto” è che non siamo pronti ad affrontare le sfide e i dilemmi (Popper) della (iper)complessità e del nuovo ecosistema, non tanto in termini di metodologia/e della ricerca (e di strumenti di rilevazione, sempre più affinati), quanto di modelli teorico-interpretativi che devono (dovrebbero) guidare/orientare l’osservazione empirica, non soltanto scientifica, di fenomeni e processi. Ma servono educazione e formazione alla complessità e una rinnovata consapevolezza rispetto all’esigenza di un approccio multidisciplinare a questa stessa complessità che implica una ridefinizione dello spazio dei saperi e il ribaltamento di quelle logiche di potere e controllo che, a tutti i livelli, ne hanno sancito la parcellizzazione e reclusione dentro gli angusti “confini” delle discipline; discipline sempre più isolate e incapaci di comunicare tra di loro – con profonde implicazione anche per l’esterno delle torri d’avorio.

Questo è “il” problema, è “la” questione, non la specializzazione dei saperi, processo d’altra parte inevitabile con l’affinamento delle metodologie di ricerca e degli strumenti di rilevazione; specializzazione spesso maldestramente contrapposta alla complessità e al relativo approccio, ma anche ai concetti di multidisciplinarietà e interdisciplinarità. Il “vero” ostacolo, oltre alle culture organizzative ed alle logiche dominanti, sono proprio le separazioni/steccati disciplinari – si pensi all’annosa e, per certi versi, incredibile distinzione tra discipline umanistiche e materie scientifiche, tra formazione umanistica e formazione scientifica (uno dei motivi del nostro ritardo culturale che tanti danni produce ancora) – che, non soltanto ostacolano l’osservazione e la comprensione della realtà (a livello sociale e delle organizzazioni complesse), la produzione sociale e la condivisione della conoscenza (architrave del nuovo ecosistema), ma si rivelano anche non in grado di restituire quello sguardo d’insieme e quell’ottica globale che gli attuali processi sociali, politici, culturali richiedono costantemente. In tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non supportata da una cultura della comunicazione, da una visione sistemica della complessità e, a livello di decisore politico, da politiche sociali (lungo periodo) in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università), si riveli sempre un’innovazione mancata. La società della conoscenza e il nuovo ecosistema globale (1996) – non solo per queste ragioni, ho preferito parlare di “Società Interconnessa” – sono destinati a diventare sempre più esclusivi e chiusi, anche in quei “luoghi” in cui non è ancora possibile erigere muri e barriere per gestire (?) la diversità, le disuguaglianze e i conflitti. Sono i germi di quella che abbiamo definito la “società asimmetrica”(cit.): una società apparentemente aperta e inclusiva che, in realtà, garantisce opportunità di inclusione e mobilità solo in linea teorica e a livello di quadro giuridico di riferimento. Quest’ultimo, necessario ma non sufficiente a costruire e, appunto, garantire i pre-requisiti di una cittadinanza piena, partecipata e “non – eterodiretta”.

Come affermato più volte in passato e, di recente, anche in un articolo pubblicato sul Il Sole 24 Ore: « Gettati nell’ipercomplessità*, siamo di fronte ad un complesso processo di trasformazione antropologica (1996), al cambiamento di paradigmi, modelli, codici, oltre che alla inevitabile sintesi di nuovi valori e criteri di giudizio: le straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, non soltanto spalancano orizzonti e scenari tuttora inimmaginabili, ma rendono ancor più evidente l’urgenza di ripensare, in maniera radicale, istruzione, educazione e formazione, sottolineando la sostanziale inadeguatezza di Scuola e Università di fronte a tale ipercomplessità, di fronte all’indeterminatezza e all’ambivalenza della metamorfosi in atto; di fronte all’estensione su scala globale di tutti i processi politici, sociali e culturali. La “nuova” velocità del digitale, nell’interazione complessa con il fattore umano e il sistema delle relazioni sociali, conserva l’ambivalenza originaria di qualsiasi “fattore” di mutamento e di qualsiasi processo sociale e culturale; un’ambivalenza che, oltre ad essere straordinaria opportunità, mette ancor più in evidenza i nostri limiti e le nostre inefficienze – a livello personale, organizzativo e sociale – ma, soprattutto, ci lascia poco tempo per la riflessione e l’analisi critica. Nel prendere atto di tale inadeguatezza, e della irreversibilità di tali processi e dinamiche, rileviamo come esista il rischio concreto di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla dimensione tecnologica e, più in generale, applicativa, sottovalutando ancora una volta quella riguardante le Persone, il sistema di relazioni, il contesto educativo e culturale, i mondi vitali (!), le nuove asimmetrie. In tal senso, educazione e formazione critica alla complessità ed alla responsabilità si configurano come gli “strumenti” complessi di costruzione sociale della Persona (prima) e del Cittadino (poi); strumenti in grado di definire le stesse condizioni strutturali, oltre che le regole d’ingaggio , della “nuove” forme di cittadinanza (globale) e di inclusione, correlate all’avvento della cd. società della conoscenza. Si tratta di prerequisiti fondamentali e propedeutici per l’educazione – non soltanto digitale e, più in generale, tecnologica – che chiamano in causa molteplici livelli di analisi e intervento. Ma non possiamo assolutamente accontentarci di accrescere la consapevolezza rispetto alle molteplici variabili in gioco. La cd. educazione digitale deve mettere in condizione le Persone (e i Cittadini) di affrontare e gestire le dinamiche e i processi che scaturiscono non soltanto dall’innovazione tecnologica, ma da numerosi altri fattori (economico, sociale, politico, culturale) che contraddistinguono il nuovo ecosistema (1996); in maniera tale che giovani (e adulti) siano in grado, non soltanto di difendersi dai “lati oscuri” del digitale, di “saper utilizzare” gli strumenti e abitare i nuovi ambienti, ma anche, e soprattutto, siano in grado di saperne sfruttare i vantaggi e le enormi potenzialità sia per la condivisione di informazioni e conoscenza che per la costruzione/rafforzamento/intensificazioni delle reti di relazionalità (comunicazione vs. connessione; inclusività vs. esclusività). Alla luce di queste brevi considerazioni – che andrebbero sciolte e argomentate – l’educazione digitale – e con essa l’educazione stessa – va profondamente ripensata sulla base anche di una ridefinizione degli obiettivi fondamentali. Nella Società Interconnessa/iperconnessa, proprio perché abitiamo il “nuovo ecosistema”(1996) e la cd. era dell’accesso (Rifkin) in cui le nuove disuguaglianze (sempre più marcate ed evidenti) e le nuove asimmetrie, riguardano da vicino l’ accesso a risorse immateriali, la capacità di elaborare e condividere conoscenze e quella di organizzarle sistematicamente e funzionalmente – ebbene proprio in questa delicata fase evolutiva, l’educazione digitale si configura di fatto – deve diventare – come la “base” su cui edificare, socialmente e culturalmente, la nuova cittadinanza, il nostro vivere insieme, ripensando lo spazio relazionale e comunicativo e provando a ridefinire il “contratto sociale”. Di conseguenza, l’educazione digitale va ripensata (e realizzata), a mio avviso, non soltanto come “strumento” per preparare tecnicamente i nostri giovani (e con loro, gli insegnanti, i dirigenti, le Persone etc.) al cambiamento accelerato in corso; va ri-pensata (e realizzata) soprattutto come cultura della complessità e come educazione alla responsabilità, entrambe fondate su un’epistemologia dell’incertezza (Morin). Allo stesso tempo, va ripensata anche come insieme di strumenti complessi in grado di rendere effettivi diritti e doveri fondamentali per la stessa sopravvivenza delle moderne democrazie. Perché non sono, e non saranno, la tecnologia e/o il digitale a determinare cittadinanza e inclusione.

[…] Occorre essere consapevoli che il futuro è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali. Andando oltre quelle che, in tempi non sospetti, avevamo definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (proprio in questa prospettiva cfr., in particolare, “Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente – EQF” – vedi distinzione tra “conoscenze”, “abilità” e “competenze”; cfr. anche i Descrittori di Dublino , riferimenti importanti ma poco conosciuti, anche in ambito universitario; si veda anche un testo del WEF, World Economic Forum, “ 8 digital life skills all children need ” dove, tra le “digital life skills” si fa riferimento, con un approccio che non mi convince assolutamente – ma ci torneremo – anche al critical thinking “pensiero critico” e si parla addirittura di “empatia digitale”(?) à “digital empathy”…e torno a ripetermi, non è un problema soltanto di “competenze”, al di là di come possiamo intendere un concetto importante, sul quale sono state proposte infinite definizioni, dalle più specifiche a quelle più onnicomprensive e universali).

Occorre correggere radicalmente la strutturale inadeguatezza e le clamorose miopie che caratterizzano, da sempre, le istituzioni e i “luoghi” responsabili della definizione e costruzione delle condizioni di emancipazione sociale , non soltanto promuovendo un’educazione critica alla complessità e alla responsabilità (fin dai primi anni di scuola), ma premiando e incoraggiando, nei fatti e non soltanto nei documenti istituzionali, l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità anche, e soprattutto, a livello della ricerca scientifica. Ciò avrebbe ricadute significative per gli stessi percorsi didattico-formativi».

Ammesso, e non concesso, che la Politica e i saperi esperti coinvolti (?) a livello decisionale decidano di intraprendere questi “percorsi”, uscendo da una preoccupante condizione di “navigazione a vista” e, allo stesso tempo, da quell’ eccesso di riformismo legato alle stagioni ed ai tempi della Politica, dovremo necessariamente prepararci e abituarci all’idea che i “risultati” (gli effetti) di queste scelte a dir poco strategiche, di vitale importanza – lo ribadisco – per il “vivere insieme” e la stessa qualità della democrazia, “si vedranno” (si potrebbero vedere) soltanto tra molti anni, sempre e comunque nel lungo periodo.

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