Banda larga: in arrivo i fondi che aspettavamo da 5 anni?
Non si può certo dire che non sia un obiettivo ambizioso quello che il Piano nazionale Banda Ultralarga si propone per il 2020. Elaborato dalla Presidenza del Consiglio, insieme al Ministero dello Sviluppo Economico, all’Agenzia per l’Italia Digitale e all’Agenzia per la Coesione, il documento si dà l’obiettivo di azzerare in tre anni il gap accumulato dal nostro paese con il resto dell’Europa. E per la prima volta, dopo anni, mette sul piatto anche un bel po’ di fondi (quasi tutti europei), nonostante – alcuni dicono – siano sempre troppo pochi.
26 Novembre 2014
Eleonora Bove
Non si può certo dire che non sia un obiettivo ambizioso quello che il Piano nazionale Banda Ultralarga si propone per il 2020. Elaborato dalla Presidenza del Consiglio, insieme al Ministero dello Sviluppo Economico, all’Agenzia per l’Italia Digitale e all’Agenzia per la Coesione, il documento si dà l’obiettivo di azzerare in tre anni il gap accumulato dal nostro paese con il resto dell’Europa. E per la prima volta, dopo anni, mette sul piatto anche un bel po’ di fondi (quasi tutti europei), nonostante – alcuni dicono – siano sempre troppo pochi.
Sottoposta a consultazione pubblica fino al 20 dicembre 2014 insieme ad un altro piano nazionale, quello dedicato alla Crescita digitale 2014-2020, la strategia nazionale per la banda ultralarga annuncia entro il 2020 la copertura per l’85% della popolazione con connettività di almeno 100 mbps e per il restante 15% almeno 30 mbps. Ci prefiggiamo di colmare un ritardo di almeno 3 anni, che ci ha portato sotto la media europea di oltre 40 punti di percentuali, ovvero all’ultimo posto nell’UE come copertura veloce. Peggio di noi nessuno. Un deficit che non riguarda solo l’infrastruttura, ma l’intera offerta da parte degli operatori di telecomunicazioni di servizi di connettività. Dall’ultimo aggiornamento annuale, infatti, emerge che, a fronte di un investimento privato inferiore ai 2 miliardi di euro, nel prossimo triennio saranno 482 i comuni collegati alla banda larga a 30 mbps dagli operatori privati, mentre 4.300 Comuni potranno sperare nei 30 Megabit solo con incentivi pubblici a fondo perduto. Il mercato da solo quindi non ci aiuterà, il contributo pubblico appare quanto mai necessario, anche se pensato sussidiario a quello privato. Tradotto in moneta, l’investimento pubblico-privato calcolato per raggiungere la completa attuazione del piano strategico è di 12,3 miliardi di euro da qui al 2020: 6 miliardi previsti dal piano bandalarga, 4,5 dal piano crescita, 2 da parte degli operatori. Un contributo pubblico, come si diceva, pensato come traino di quello privato che si spera di far crescere almeno di 500-600 milioni, prevedendo alcune misure di defiscalizzazione e di semplificazione normativa. E’ infatti uno degli obiettivi della strategia italiana quello di stimolare da un lato l’offerta, abbassando le barriere di costo e agevolando l’accesso alle risorse economiche, dall’altro la domanda.
Copertura finanziaria nel dettaglio
Le soluzioni finanziarie previste sono state individuate sulla base di una suddivisione in cluster delle aree di intervento, che anche se nella intenzioni non voleva apparire come una classifica, nei fatti lo è. In prima classe (Cluster A) troviamo le principali 15 città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia, Verona, Messina, Padova e Trieste per le quali entro il 2020 è previsto il salto ai 100 Mbps grazie ai soli investimenti privati (circa 1 miliardo). In seconda classe (cluster B) troviamo 1.122 città che passeranno all’alta velocità grazie all’investimento pubblico, poco più di 6 miliardi, in parte a fondo perduto.
Arriviamo al fondo della classifica dove troviamo prima i 2.650 comuni (cluster C), in molti casi rurali, per cui è previsto il contributo pubblico, in parte a fondo perduto, per un totale di 4,2 miliardi di euro e poi il gruppo più sostanzioso: 4.300 città, che raccolgono il 15% della popolazione, per cui è necessario un investimento totalmente pubblico a fondo perduto dell’ammontare di 1 miliardo (cluster D).
Il piano finanziario, anch’esso lo ricordiamo oggetto della consultazione pubblica, si dispiega così annualmente: nel 2015, 618,9 milioni; nel 2016, 1,237 miliardi; nel 2017, 1,856 miliardi; nel 2018, 1,237 miliardi; nel 2019, 618,9 milioni e nel 2020, 618,9 milioni. In tutto 6,189 miliardi.
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Dove troveremo i fondi? Investimenti per 2 miliardi – come detto – arriveranno dai privati; le restanti fonti di finanziamento saranno per lo più i programmi europei: 419 milioni dal Piano Strategico Bul; 2,4 miliardi da programmi regionali a valere su Fers e Fears. In particolare questi saranno così ripartiti:
- 722 milioni di euro per le 4 regioni convergenza;
- 26 milioni di euro per le regioni in transizione;
- 196 milioni di euro per le regioni competitività;
- 256 milioni di euro, infine, sono relativi alle risorse FEASR (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) gran parte dedicati a coprire il fabbisogno del cluster D e in misura minore al cluster C a cui appartengono alcuni Comuni rurali. Si tratta di fondi certi, ma la cui destinazione potrà variare fra i diversi obiettivi proposti nell’ambito dell’Accordo di Partenariato fra l’Italia e la Commissione Europea.
Infine 230 milioni da programmi nazionali Fers e, dal 2017, fino a 5 miliardi utilizzando Fondo sviluppo e coesione (2014-20).
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Sempre troppo poco?
Secondo la tabella di marcia, dunque, tra tre anni ci allineeremo all’attuale media europea. Una media che nel frattempo, però, sarà slittata ancora più su. Secondo il rapporto Assinform 2014, infatti, per essere in linea con la politica digitale europea l’Italia dovrebbe investire 23 miliardi in più ogni anno nell’ICT. Stando a questi dati, l’obiettivo dell’Agenda Digitale Europea di avere entro il 2015 il 75% dei cittadini utenti regolari di Internet diventa incredibilmente arduo da raggiungere per il nostro Paese. Non solo perché l’utilizzo di internet nel nostro Paese è cresciuto di poco più di dieci punti di percentuali (da 40,3% a 54,3%) negli ultimi cinque anni, ma perché le condizioni attuali sono tutt’altro che favorevoli. La domanda di servizi di connettività è bassa rispetto ai principali paesi europei e la crescita è troppo lenta, inferiore non solo a Paesi come la Germania, che ha notoriamente attutito meglio di altri l’impatto della crisi, ma anche rispetto alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Spagna che pure hanno sofferto in questi ultimi dieci anni. Sono i dati Eurostat a dircelo.
Come ha tenuto a precisare il Consiglio Europeo, un forte antidoto alla crisi è proprio lo sviluppo di una strategia digitale e la realizzazione, nella fattispecie, di un mercato unico digitale, ma allo stesso tempo il tallone di Achille dell’Italia sembra essere proprio qui. Scoprire che solo il 5% delle imprese italiane vende on line un po’ di amaro in bocca lo lascia, soprattutto quando tra le motivazioni c’è quella, dichiarata dal 40% delle imprese intervistate, di non coglierne l’utilità rispetto alla propria attività (dati Digital Agenda Scoreboard 2014). Il fatto è che nelle imprese la diffusione delle attività in rete sconta delle basse competenze che si rilevano tra i cittadini italiani in generale.
Inutile dirci che non è la quantità, ma la qualità che conta, non ce la caviamo da qualsiasi punto di vista. Non solo abbiamo la percentuale di utenti connessi più bassa di Europa (56% contro la media europea del 72%), ma anche meno competente: in Italia il 61% degli individui nell’ampia fascia 16-74 anni possiede un livello di skills ICT basso o addirittura nullo [ne avevamo parlato qualche tempo fa a proposito delle competenze digitali] e per fare un confronto non serve arrivare a citare i progressisti paesi del nord Europa con percentuali sotto al 30, basta guardare la vicinissima Spagna con il 46%. Sarà forse per questo che il 64% (dati Istat) preferisce ancora interfacciarsi con la pubblica amministrazione attraverso il canale più tradizionale di tutti i tempi: lo sportello. E anche se la percentuale che utilizza internet raggiunge il 37% per i laureati, non c’è titolo di studio che tenga, l’utilizzo degli strumenti on line sul totale si ferma a meno del 20%.
Internet e servizi: pane e companatico
Bisogna quindi leggere alla luce di questi dati la strategia italiana, che sceglie di accompagnare il piano integrato delle infrastrutture, che ambisce a massimizzare l’offerta del servizio di connettività fino a 100 mbps, con uno dedicato ai servizi. Il piano crescita Digitale, anch’esso aperto alla consultazione, pianifica, infatti interventi per circa 4,5 miliardi di euro su Identità digitale, e-skills e smart city.
Due documenti, due strategie complementari perché se l’accesso alla banda ultra larga sostiene la diffusione di internet fra i cittadini, l’implementazione di servizi, di piattaforme abilitanti e di programmi volti all’accrescimento delle competenze digitali concorrono alla crescita digitale del Paese di cui AgID è guardiana e, di concerto con le amministrazioni regionali e locali, ne coordina l’attuazione.
Due piani strategici pensati in modo complementare e unitario per il perseguimento degli obiettivi dell’Agenda Digitale (in particolare quello relativo al supporto alla infrastrutturazione per la banda ultra larga e potenziamento dei servizi Ict a cittadini e imprese) e che rientrano nell’ambito dell’accordo di partenariato con la Commissione europea per la programmazione delle risorse 2014-2020.
Monitoraggio
Il MISE coordina tutti gli interventi della strategia e, avvalendosi della propria società inhouse, Infratel Italia, l’attua. Tuttavia l’attività di monitoraggio è oggetto di un’analisi più estesa ad opera del COBUL, di cui sono membri referenti nominati dal MISE, l’AGID, l’Agenzia per la Coesione e Infratel. L’AGID ha il compito di assicurare l’armonizzazione degli interventi nazionali concernenti l’Agenda Digitale Italiana secondo quanto previsto dalla L. 134/2012, pertanto è l’AGID a valutare la coerenza ai fini del raggiungimento del Pilastro dell’Agenda Digitale Europea – “accesso a internet veloce e super veloce”.