Perché le PA non stanno rispondendo al censimento ISTAT?
Il 20 dicembre prossimo scade il termine ultimo per rispondere al questionario (on line naturalmente) del Censimento delle Istituzioni Pubbliche. Purtroppo il numero dei rispondenti è ancora molto, molto basso nonostante rispondere non sia un’opzione, ma un obbligo di legge con tanto di sanzioni per i dirigenti responsabili e inadempienti. Le prossime due settimane sono quindi un’occasione da non perdere: rispondere al censimento può infatti voler dire non solo rispettare un obbligo, ma cogliere l’opportunità per ripensare a come le informazioni girano o non girano nell’organizzazione, a quali difese implicite o esplicite si sono strutturate nel tempo contro la trasparenza, a quanto i numeri fondamentali dell’ente sono noti al suo stesso interno. Una trasparenza interna che diventa premessa indispensabile per la trasparenza e l’accountability verso i cittadini e quindi per rispettare quella “total disclosure” che la legge ormai impone a tutte le amministrazioni pubbliche.
5 Dicembre 2012
Carlo Mochi Sismondi
Il 20 dicembre prossimo, come abbiamo noi stessi più volte annunciato, scade il termine ultimo per rispondere al questionario (on line naturalmente) del Censimento delle Istituzioni Pubbliche. Purtroppo il numero dei rispondenti è ancora molto, molto basso nonostante rispondere non sia un’opzione, ma un obbligo di legge con tanto di sanzioni per i dirigenti responsabili e inadempienti. Il limitato numero delle risposte è un fatto, che come tutti i fatti non può essere discusso, ma solo interpretato. Cerchiamo quindi di capire perché è così basso il numero delle amministrazioni in regola, tanto basso che, pur tenendo conto delle due settimane che mancano alla scadenza, c’è il timore di avere un risultato molto al di sotto delle aspettative.
Una prima spiegazione possibile è che negli anni si sono moltiplicati i questionari che le amministrazioni hanno ricevuto e che quindi l’interesse a rispondere è calato in proporzione all’aumento delle risposte da dare. Se è così, va ricordato che questa non è una ricerca come le altre, ma che “il” censimento costruisce il quadro conoscitivo fondamentale del Paese e che tale quadro è alla base di tutte le successive azioni di approfondimento.
Un’altra ragione potrebbe derivare dalla grande “confusione” che l’agitatissimo e nebbioso momento di fine legislatura spande su tutte le amministrazioni e in particolare su quelle della PA centrale. Non è molto razionale, ma nei tanti anni di esperienza che mi porto dietro ho notato che in ogni periodo di interregno (e quasi ci siamo) il dirigente pubblico tende a uscire il meno possibile allo scoperto. Dare dati, produrre numeri è sempre qualcosa giudicato potenzialmente pericoloso nella PA: meglio astenersi, tanto alle sanzioni chi ci crede!
La scarsa risposta potrebbe però derivare, e qui il ragionamento si fa più interessante, dalla struttura stessa dell’indagine che, essendo molto completa ed ambiziosa, richiede un rispondente autorevole, che abbia accesso alle informazioni del suo ente.
Qui secondo me casca l’asino: molto spesso le conoscenze non sono merce disponibile, sono anzi appannaggio geloso dei singoli uffici. Non è banale infatti, nella maggior parte delle organizzazioni pubbliche, trovare chi sappia rispondere in modo esauriente su temi quali la consistenza e le caratteristiche delle risorse umane e la loro collocazione nelle organizzazioni centrali e nelle unità territoriali; la tipologia dei servizi resi e la modalità della loro erogazione; la consistenza dei servizi online e la loro diffusione più o meno omogenea; la sostenibilità ambientale; il processo di informatizzazione con l’indicazione di quanti sono gli addetti all’ICT nelle amministrazioni e come sono organizzati; e così via.
In questo senso le prossime due settimane possono essere un’occasione da non perdere: rispondere al censimento può infatti voler dire non solo rispettare un obbligo, ma cogliere l’opportunità per ripensare a come le informazioni girano o non girano nell’organizzazione, a quali difese implicite o esplicite si sono strutturate nel tempo contro la trasparenza, a quanto i numeri fondamentali dell’ente sono noti al suo stesso interno. Questa trasparenza interna diventa infatti premessa indispensabile per la trasparenza e l’accountability verso i cittadini e quindi per rispettare quella “total disclosure” che la legge ormai impone a tutte le amministrazioni pubbliche.
Un passo ormai non più rimandabile, basti pensare che oggi è stato diffuso l’indice di Transparency International per il 2012, indice che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e politico a livello globale. L’Italia è al 72° posto su 174 Paesi nel mondo, tre posti in meno rispetto allo scorso anno. Siamo molto lontani dalla sufficienza (42 su 100 non è certo un voto lusinghiero) e dalle prime tre classificate, Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda, tutti e tre con un punteggio di 90 su 100. Considerando solo i Paesi europei siamo fanalino di coda, in compagnia di Bulgaria e Grecia.
Il censimento diventa quindi palestra di accountability e di trasparenza: rispondere diventa un esercizio per testare quanto l’amministrazione è pronta a rispondere a queste sfide che sono importanti sempre, ma ancor più in un momento in cui la ricostruzione della fiducia è l’obiettivo fondamentale per il mondo pubblico.