Colli Franzone: “Investire 5 mld per risparmiarne 7, ecco il Patto Sanità Digitale (tra luci e ombre)”
L’idea del Patto per la Sanità Digitale è semplice: le ICT rappresentano un formidabile driver per la reingegnerizzazione dei processi dei servizi socio-sanitari e per l’efficientamento del sistema. Tutto parte dal Master Plan e dalla capacità della componente pubblica di coinvolgere la componente privata
10 Luglio 2016
Paolo Colli Franzone, Osservatorio Netics sull’Innovazione in Sanità
Dopo due anni esatti dal primo annuncio fatto dal Ministro Lorenzin a “Digital Venice 2014”, finalmente il Patto di Sanità Digitale è stato approvato dalla Conferenza Stato-Regioni ed è quindi pienamente operativo.
Rinfreschiamoci la memoria: il Patto, lanciato come idea durante gli Stati Generali della Salute a inizio aprile 2014, è un’iniziativa finalizzata a promuovere e sostenere la digital transformation del Servizio Sanitario Nazionale.
L’idea alla base del Patto è semplice: le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (ICT) rappresentano un formidabile driver per la reingegnerizzazione dei processi di erogazione dei servizi socio-sanitari e, in ultima analisi, per l’efficientamento del sistema nel suo complesso.
Dando per buoni (e ancora validi, al netto di qualche piccolo aggiustamento dovuto ai 24 mesi nel frattempo intercorsi) i dati Netics/Federsanità in base ai quali a fronte di un investimento di 4,5 – 5 miliardi di Euro in 3 anni il SSN è in grado di recuperare efficienza e tagliare costi per 7 miliardi di Euro l’anno, il Patto nasce con l’obiettivo di realizzare il Master Plan triennale capace di innescare questo enorme circuito virtuoso.
Il modello è quello del partenariato pubblico/privato: a fronte del Master Plan (i cui tempi di realizzazione non sono ancora stati annunciati) e di un conseguente fabbisogno economico-finanziario (anch’esso da dimensionare con precisione), il sistema della domanda e quello dell’offerta lavoreranno con l’obiettivo di dar vita a iniziative capaci di finanziarsi attraverso strumenti innovativi quali i value based (o “performance based”) contracts e i social bonds (con particolare riferimento ai Cost Saving Bonds) o – laddove possibile – attraverso iniziative di ricerca cofinanziata (Horizon 2020, e altre) e/o bandi a valere sui fondi strutturali UE.
Rispetto
alla versione iniziale (il “documento programmatico” presentato a Venezia due
anni fa, ed i suoi allegati più o meno provvisori), questo Patto appare come
sensibilmente orientato a una governance completamente pubblica e
istituzionale: Ministero, AgID, Regioni, associazioni di categoria in
rappresentanza delle professioni sanitarie.
Non è previsto che in “cabina di regia” possano entrare a collaborare e a dire
la loro le associazioni di categoria in rappresentanza dei vendor tecnologici
e/o dei service provider.
E questo probabilmente è un punto di debolezza del Patto, se si vuole davvero dar vita ad operazioni di partenariato pubblico/privato prescindendo dalla componente privata che continua a essere vista come “i fornitori”.
E’ del
tutto evidente (ed ampiamente suffragato dalle esperienze di value based
contracting fatte a livello internazionale in sanità negli ultimi anni) che
nessun privato sarà mai disponibile a finanziare un progetto di innovazione di
processo senza poter essere sicuro di avere il co-governo della situazione.
E nessuna operazione di innovazione di prodotto e/o di “pushing tecnologico
puro” potrà mai essere avviata in regime di partenariato pubblico/privato in
assenza di un’innovazione di processo sovrastante.
C’è ancora moltissimo lavoro da fare per abbattere quel muro culturale fatto di preconcetti e luoghi comuni sul rapporto cliente/fornitore nella Pubblica Amministrazione. Quel gap a fronte del quale ancora oggi è impossibile immaginare un’operazione di approvvigionamento di beni e servizi dove chi compra e chi vende “si mettono sulla stessa barca” condividendo oneri e onori, e rischi.
Ed è qui, su questo aspetto strategico, che si gioca il destino di operazioni come il Patto soprattutto se lo si vuole caratterizzare come una “vera” operazione di Sistema e non come l’ennesimo push-pull tecnologico a fini più o meno sperimentali.
Deve essere molto chiaro a tutte le parti in causa, soprattutto a quelle di matrice pubblica e istituzionale, che gran parte del destino di un SSN universale, equo e sostenibile, passa attraverso la capacità generalizzata di efficientare i processi di erogazione dei servizi utilizzando tutto laddove possibile le ICT.
Così come deve essere molto chiaro a tutti che niente succederà mai davvero a livello di digital transformation del SSN in assenza di un “vero” coinvolgimento degli operatori sanitari.
L’informatica venduta agli informatici, gli eccessi di focalizzazione intorno ai CIO delle iniziative di innovazione, il “dimenticarsi” dei medici e degli infermieri allorquando si concepisce e si progetta un sistema informativo o anche il più piccolo software verticale, sono meravigliosi accorgimenti capaci di far inevitabilmente fallire qualsiasi operazione di digitalizzazione.
Così come la digital transformation non può continuare ad essere trainata dalle (peraltro sacrosante!) esigenze del MEF in termini di rigido e pervasivo controllo della spesa sanitaria.
Ottima qualsiasi iniziativa di contrasto agli eccessi di medicina difensiva, ad esempio: ma guai se i progetti di controllo dell’appropriatezza prescrittiva vengono pensati da ragionieri a prescindere da fortissime basi cliniche.
Ben venga il Patto, dunque. E tutti, compreso il sistema d’offerta attraverso le rispettive associazioni di rappresentanza, sono pronti a contribuire al co-design di un nuovo modello di SSN.
Dove “il paziente al centro” non è uno slogan.
E dove “la spending review” non è un “facimm ammuina”.
Tutto parte dal Master Plan, e dalla capacità che dimostrerà la componente pubblica di saper coinvolgere in modo positivo e costruttivo la componente privata.
E’ tassativamente vietato sbagliare: non ce lo possiamo permettere.