Sviluppare il pensiero computazionale a scuola è strategico, ecco perché

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Per capire le potenzialità del digitale occorre averne una comprensione piena, non solo una capacità di uso; deve diventare uno strumento quotidiano di analisi e di ragionamento appreso fin dai primi giorni di scuola e che aiuti i futuri manager, professionisti e funzionari

17 Marzo 2016

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Giorgio Ventre, direttore del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione dell’Università di Napoli Federico II, coordinatore iniziativa Miur "Programma il futuro"

Sempre di più si avverte nella società l’esigenza che quella che una volta veniva definita la classe dirigente abbia una adeguata formazione al digitale ed all’innovazione. In un recente articolo apparso sulla Harvard Business Review, si notava come nei board delle principali banche del Regno Unito in solo un caso era presente un membro con delle competenze nelle tecnologie dell’informazione. E stiamo parlando di uno dei settori, quello finanziario, che in linea di principio dovrebbe essere più aperto a questi temi, non solo per l’impatto nei propri processi interni ma soprattutto per quello sui processi dei propri clienti.

Ma quando si parla di competenze digitali, in realtà di cosa parliamo? Cosa si intende oggi quando si sente parlare di formazione alle tecnologie dell’informazione? Nel rapporto “Le competenze nella Pubblica Amministrazione” del Ministero per la Funzione Pubblica di digitale si parla solo all’interno della voce “Literacy”, che raggruppa tutta una serie di soft-skill necessari alla dirigenza delle Pubbliche Amministrazioni. E compare con un significato a mio avviso assolutamente riduttivo: quello di una mera capacità di uso di strumenti ed applicativi informatici.

Il digitale che serve alla classe dirigente di questo Paese è però ben altro: è la possibilità di immaginarne un uso per migliorare la produttività interna; è la competenza che consente di disegnare complesse riorganizzazioni del lavoro; è la visione di nuove funzioni e di nuovi servizi da offrire ai cittadini ed alle imprese; è il possesso di capacità critiche per poter valutare a fondo la realizzabilità, i costi ed i rischi legati a progetti piccoli e grandi di innovazione. In sintesi, è la capacità di comprendere pienamente tali tecnologie per valutarne le potenzialità e le sfide nel cambiamento e miglioramento di servizi e di processi.

Verso cosa dobbiamo allora orientare un radicale processo di formazione e di creazione di competenze? Un primo suggerimento ci viene da un interessante saggio apparso sul McKinsey Quarterly dal titolo fortemente autoesplicativo: The perils of ignoring software development. In una società dove sempre di più il successo o il fallimento di una azienda, di una organizzazione, dipendono dall’uso innovativo ed efficiente delle tecnologie digitali e dalla quantità di risorse che a tali progetti vengono assegnate, non è più concepibile che i decisori siano completamente all’oscuro dei meccanismi logici interni al digitale ed in particolare alla tecnologia del software. Si potrebbe obiettare che in realtà tali competenze non siano necessarie purché il decisore sia assistito da personale tecnico di adeguata preparazione, ma appare subito chiaro che per decisioni che avranno impatti profondi sulla organizzazione interna di una impresa o di un soggetto pubblico, o sul suo modo di offrire servizi ai propri clienti ed utenti è necessaria una capacità di analisi che vada ben oltre la mera competenza tecnica e che sia al contrario radicata nella capacità di governo complessivo di una entità. Stiamo parlando quindi di formare una figura professionale che sia in pieno possesso di competenze manageriali e, nel caso della Pubblica Amministrazione, normative, ma anche di adeguate competenze sulla natura e sul potenziale di innovazione delle nuove tecnologie.

E’ evidente quindi che nel caso specifico delle Amministrazioni centrali e locali e degli enti pubblici dobbiamo ridisegnare sia il profilo delle competenze richieste in ingresso ai futuri funzionari e dirigenti, sia le iniziative di formazione interne. Ma ancora di più dobbiamo immaginare interventi che vadano al profondo delle competenze che vengono oggi richieste ad un qualunque cittadino di uno stato evoluto: dobbiamo cioè guardare alla Scuola.

Il primo punto verso il quale dobbiamo orientare i nostri sforzi è aprire le competenze logiche e linguistiche di ognuno di noi alla comprensione di quello che oggi viene chiamato pensiero computazionale, ossia verso quelle tecniche di comprensione e di soluzione dei problemi alla base dello sviluppo del software. Il Ministero dell’Istruzione ha compreso tali esigenze anche alla luce di analoghe esperienze negli Stati Uniti, in Francia e nel Regno Unito, ed insieme al Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica ha avviato nel settembre 2014 una fase sperimentale che ha visto l’introduzione del coding, ed appunto dell’insegnamento del pensiero computazionale, in migliaia di scuole di tutti gli ordini, con il progetto “Programma il Futuro”. Ed è estremamente confortante vedere che alla luce dei risultati ottenuti abbia deciso, con il Piano Nazionale Scuola Digitale, di inserire tale insegnamento in modo strutturato nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado.

Per capire le potenzialità del digitale occorre averne una comprensione piena, non solo una capacità di uso. E quale approccio migliore di quello di renderlo uno strumento quotidiano di analisi e di ragionamento appreso fin dai primi giorni di scuola e che aiuti i futuri manager, professionisti e funzionari. Il nostro sistema educativo ci crede e, cosa decisamente straordinaria per un Paese di norma molto indietro nelle statistiche legate all’uso ed alla diffusione del digitale, sta facendo da battistrada al resto d’Europa.

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