Open Data: la norma c’è, ora chiediamoli

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Dal 28 al 30 marzo 2014, si è svolta a Bologna SOD14, la seconda edizione del raduno di Spaghetti Open Data, la più ampia community sugli open data in Italia. L’evento ci fornisce l’occasione per fare un breve resoconto su uno dei temi caldi del panorama italiano dei dati aperti, sia dal punto di vista giuridico che informatico, ovvero l’importante principio dell’openbydefault. Ne ripercorriamo sinteticamente la storia per i non addetti ai lavori.

31 Marzo 2014

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Morena Ragone* e Francesco Minazzi**

Dal 28 al 30 marzo 2014, si è svolta a Bologna SOD14, la seconda edizione del raduno di Spaghetti Open Data, la più ampia community sugli open data in Italia. L’evento ci fornisce l’occasione per fare un breve resoconto su uno dei temi caldi del panorama italiano dei dati aperti, sia dal punto di vista giuridico che informatico, ovvero l’importante principio dell’openbydefault. Ne ripercorriamo sinteticamente la storia per i non addetti ai lavori.

Il openbydefault principio è stato introdotto nell’articolo 52 del Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (cd Codice dell’Amministrazione Digitale – CAD), a seguito della riscrittura dell’intero articolo ad opera del Decreto Legge 18 ottobre 2012, n. 179.

La norma in questione recita che “i dati e i documenti che le amministrazioni titolari pubblicano, con qualsiasi modalità, senza l’espressa adozione di una licenza di cui all’articolo 2, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, si intendono rilasciati come dati di tipo aperto ai sensi all’articolo 68, comma 3, del presente Codice. L’eventuale adozione di una licenza di cui al citato articolo 2, comma 1, lettera h), e’ motivata ai sensi delle linee guida nazionali di cui al comma 7.

Traducendo dal linguaggio giuridico, il principio sta a significare che i dati pubblicati – siano o meno a pubblicazione obbligatoria – dalle Pubbliche Amministrazioni sono da considerarsi aperti, secondo la definizione datane dall’articolo 68, comma 3, del CAD – definizione anch’essa introdotta dal citato decreto-legge n. 179/2912 – qualora ad essi non sia apposta motivatamente una licenza d’uso (rectius: di riutilizzo) più restrittiva.

La portata del principio è di immediata evidenza: tutto ciò che viene pubblicato nei termini appena espressi può essere riutilizzato da chiunque, senza necessità di autorizzazione, fermo restando l’obbligo di citazione della fonte (come chiarito anche da AgID, che ha ricondotto la licenza “by default” ad una cc-by).

In questo modo, cittadini, enti, civic hackers, giornalisti possono, pertanto, fruire dei dati messi a disposizione dalla pubblica amministrazione. Il principio base è chiaro ed esaustivo.

Per rendere tale previsione ancora più incisiva, per i soli dati a pubblicazione obbligatoria previsti “dalla normativa vigente”, l’articolo 5 del Decreto Legislativo 20 marzo 2013, n. 33, nel disciplinare il nuovo diritto di accesso civico, attribuisce a chiunque il diritto di chiedere alla pubblica amministrazione l’ostensione sul sito web dei dati, laddove la loro pubblicazione sia, appunto, prevista per legge.

A distanza di un anno dalla loro introduzione nell’ordinamento, all’interno delle discussioni nate al raduno SOD14, sia in presenza, sia online per esempio su twitter, si è rilevato come sia necessario fare un bilancio della loro operatività; da alcuni si è osservato, infatti, come tale principio si sia rivelato un fallimento.

La questione non investe la formulazione della norma, in realtà di pregevole fattura, né le competenze redazionali o il rischio di essere in presenza di una “legislazione spot” -scongiurata dalla volontà espressa in tal senso non solo dal legislatore europeo, ma dallo stesso legislatore italiano, con principi analoghi introdotti in differenti testi normativi – quanto, a parere di chi scrive, il suo utilizzo.

La forza dell’innovazione citata risiedeva nella combinazione tra richiesta di dati, al fine di provocarne la pubblicazione – rendendo totalmente operativo il disposto dell’art. 50 del Codice, per esempio – ed, in tal modo, l’assoggettamento all’open by default.

Il principio introdotto dall’articolo 52 del Codice, infatti, vale per tutti i dati “esposti” dalle amministrazioni, sempre che alcune specifiche tipologie non siano state sottratte al suo raggio d’azione con apposite – e motivate – licenze più restrittive; nel caso del diritto di accesso civico, e per tutti i dati a pubblicazione obbligatoria, si aggiunge la possibilità di richiesta diretta a rilevarne l’omissione.

Ciò che ha fatto difetto è stata proprio la richiesta dei dati, cosa che induce a riflettere.

E’ possibile che le ragioni siano da ricercare, da un lato, in uno scarso senso civico diffuso, o nella carenza di interesse, anche perché è possibile che gli attori coinvolti (cittadini e civic hacker, in primis) non abbiano raggiunto una massa critica tale da “bombardare” di istanze di accesso civico le PA.

Certo, la facilità ed immediatezza della richiesta – agevole solo nel caso dell’accesso civico, al momento -sono sicuramente fattori migliorabili; tuttavia, è plausibile che influisca molto il perdurante digital divide fisico e culturale (molte zone non hanno ancora l’adsl e molti utenti sono digiuni di informatica) e la percezione – senz’altro diffusa in Italia – di un’eccessiva distanza della PA dal cittadino.

Quest’ultimo, infatti, non viene invogliato ad interagire con l’Amministrazione, anche solo per inviare una semplice e-mail di richiesta al proprio comune, ad esempio. In questo, è indubbiamente mancata anche adeguata informazione: quanti enti pubblici hanno esplicitamente, massivamente e chiaramente avvertito i proprio utenti dell’esistenza dell’accesso civico, per esempio?

Dall’altro lato, una grave carenza va ascritta in capo alle associazioni – tante, forse troppe – dedite alla partecipazione, all’attivismo, alla promozione dell’ open data e dell’open government, nonché ai giuristi che si occupano della materia, che hanno principalmente, seppur lodevolmente, concentrato le proprie azioni sulla formazione e sull’informazione, trascurando il lato più “aggressivo”, l’azione.

Una di esse, tra le più incisive, sarebbe stata (o potrebbe essere…) quella di avviare delle cause giudiziarie “pilota”, per esempio, convocando in giudizio le pubbliche amministrazioni inadempienti agli obblighi di pubblicazione; certo, il costo elevato di un giudizio presso il Tribunale Amministrativo Regionale non aiuta, ma trattasi, tuttavia, di una spesa affrontabile sicuramente dai grossi studi, o dalle associazioni operanti nel settore.

Un anno consente di fare, quindi, queste prime valutazioni; un periodo di tempo, comunque, ancora breve perché una norma, a suo modo rivoluzionaria, possa dirsi fallita.

 

* Morena Ragone è giurista, dottoranda di ricerca presso l’Università di Foggia, studiosa di diritto di Internet e delle nuove tecnologie, diritto d’autore, informatica giuridica, eGovernment e Open Govenment, ha approfondito le problematiche giuridiche connesse alla rete e ai nuovi media, nonché alla tutela e al trattamento dei dati personali. Sito www.morenaragone.it

 

** Francesco Minazzi Data Jurist – Digital Based Lawyer http://okfn.org/members/digitjus/ @digitjus

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