EDITORIALE
Città intelligenti? Sì, per favore, e subito
Il paradigma delle “smart city” – dopo essere stato un
hype per un paio d’anni ed aver avuto l’onore di essere oggetto di un
importante articolo di una legge chiave per la nostra ripresa – rischia di evaporare senza mai essere stato messo davvero in pratica. Proprio ora che
ci sarebbero, con la programmazione europea e con i bandi di Horizon 2020,
anche un po’ di soldi. E nel frattempo le nostre città
non sono diventate intelligenti “a loro insaputa”
17 Settembre 2015
Carlo Mochi Sismondi
Strano Paese il nostro che brucia le idee, i paradigmi e le innovazioni senza viverle e metterle in pratica. Così le parole, se usate senza cura, rischiano solo di coprire un vuoto di idee imbarazzante e una carenza di azione politica che ci inchioda ancora alle ultime posizioni nelle classifiche dell’economia digitale.
Questa sorte potrebbe subire il paradigma delle “smart city” che dopo essere stato un hype per un paio d’anni, dopo aver avuto l’onore di essere oggetto di un importante articolo di una legge chiave per la nostra ripresa, proprio ora che ci sarebbero, con la programmazione europea e con i bandi di Horizon 2020, anche un po’ di soldi non riesce a trovare più la necessaria attenzione della politica, ma spesso neanche dei sindaci e, di conseguenza, delle grandi aziende tecnologiche.
Sono passate quindi senza risultati tutte le scadenze imposte dall’art. 20 del D.L. 179/12 “Crescita 2.0” e nessuno dei compiti che l’AgID aveva a norma di legge è stato espletato, nonostante gli sforzi di molti soggetti, ANCI in primis. Così ad oggi:
- non abbiamo il Piano Nazionale delle Comunità Intelligenti e quindi non abbiamo neanche un rapporto annuale sulla sua attuazione;
- non possiamo disporre delle “linee guida recanti definizione di standard tecnici, compresa la determinazione delle ontologie dei servizi e dei dati delle comunità intelligenti, e procedurali nonché di strumenti finanziari innovativi per lo sviluppo delle comunità intelligenti”;
- nonostante non siano passati i 90 giorni concessi dalla legge, ma quasi tre anni, non abbiamo “la piattaforma nazionale delle comunità intelligenti e le relative componenti, che includono: a) il catalogo del riuso dei sistemi e delle applicazioni; b) il catalogo dei dati e dei servizi informativi; c) il sistema di monitoraggio”;
- né tantomeno abbiamo il famoso “statuto” delle comunità intelligenti con uno straccio di definizione di cosa deve garantire una città ai propri cittadini per essere considerata smart.
Certo l’avvicendarsi di tre Governi e tre direttori dell’AgID in tre anni non ha facilitato le cose, così come non l’ha fatto il muoversi scomposto di molte amministrazioni centrali tutte in qualche modo coinvolte, ma sarebbe forse il momento di chiederci se queste benedette comunità intelligenti, come le chiama la legge, o “smart city”, come le chiama tutto il resto del mondo, ci servano e se ci servono che cosa dobbiamo mettere dentro questa scatola, che a furia di essere vaga resta spesso vuota.
A tal proposito vi do una notizia che forse è confermata dalla vostra esperienza quotidiana di cittadini: le nostre città non sono diventate intelligenti nel frattempo “a loro insaputa”. Anzi hanno sempre più bisogno di essere smart, quindi il tema non solo non è obsoleto, ma è prioritario in un Paese dove il vivere urbano descrive la qualità della vita della maggioranza dei cittadini.
Il punto è che, a nostro parere, questa “intelligenza” non è nascosta nei singoli device o nelle singole applicazioni, ma nella capacità di costruire, condividere e usare la conoscenza . Amministrare e far evolvere un nucleo urbano ha infatti molto più a che fare con la gestione delle informazioni, dei dati, che con qualche gadget più o meno accattivante. Non si può governare il territorio senza conoscerlo e non si può diventare una vera responsive city (ossia una città in grado di mutare e crescere sulla base delle esigenze misurabili dei cittadini) senza poter contare su una “ cultura del dato ” e sulle competenze per trasformare il dato grezzo in informazione, e l’informazione in decisione.
Questa è la ragione per cui abbiamo deciso di dedicare la prossima edizione (sarà la quarta) di Smart City Exhibition (Bologna Fiere 14-16 ottobre) proprio al tema dei dati. Si chiamerà, come forse avete già visto, “ Citizen Data festival” e ciascuna delle tre parole ha un significato preciso:
Citizen: perché la digitalizzazione dei processi, l’apertura dei dati, la gestione efficiente delle reti e degli ambienti interconnessi ci servono perché abilitano nuovi servizi per i cittadini e per le imprese e perché danno loro la possibilità di partecipare alle scelte e di condividere le soluzioni.
Data: perché solo attraverso la produzione, la liberazione, e l’utilizzo efficace dei dati, le città e i territori – caratterizzati ormai da un insieme di flussi informativi e reti di relazioni e comunicazioni, fisiche e digitali – sono in grado di gestire la complessità e di creare quindi capitale sociale e migliore qualità della vita.
Festival: perché c’è bisogno che i protagonisti della data revolution facciano rete in ambienti informali e stimolanti in cui – attraverso un alternarsi di panel, workshop, sessioni formative e momenti di networking – si incontrano i bisogni dei cittadini, le pratiche dei tecnici, le policy degli amministratori, le visioni degli esperti e le proposte del mercato.
E’ solo con questa centralità della conoscenza condivisa che le città e i loro cittadini potranno essere intelligenti. E’ solo con la partecipazione, la collaborazione, la cura dei beni comuni che questa conoscenza sarà fertile, produrrà un benessere equo e sostenibile e abiliterà le potenzialità di ciascun cittadino e di ciascuna impresa.
Possiamo permetterci di dimenticarcelo per qualche stretta di cassa o per qualche miopia che ci fa dimenticare la stessa missione del “government”? Non credo.
Sarà ora di darci una mossa.
Leggete “la nuova geografia del Lavoro” di Moretti: le città che ci riusciranno prospereranno nel mercato globale, per le altre il declino è inevitabile.