Innovazione aperta, la chiave per trasformare le città
Per la trasformazione digitale delle città, mettendo la persona al centro, la chiave di volta è l’innovazione aperta, nei dati che utilizza e che produce, ma anche negli stessi progetti, che consenta alle altre amministrazioni di copiare e migliorare
26 Ottobre 2016
Fabio De Luigi, Coordinatore Sistemi Informativi, Comune di Ferrara

“Cos’è la città se non la sua gente?” Così scriveva William Shakespeare quando le città iniziavano a esistere come luoghi specifici e l’inurbamento era ancora ben di la da venire. Ma il punto è proprio quello, parlare di smart city è in fondo una dichiarazione di amore per la città e parlare di smart citizens significa entrare direttamente al cuore del problema, ma anche e soprattutto delle opportunità. Perché passata la sbornia tecnologica degli ultimi anni (in cui smart city equivaleva solo a tecnologia) ora, e per noi che viviamo le tante città medie e piccole di questo paese non è certo una novità, è il “sistema città” che fa la differenza.
Le tecnologie, ma anche la coesione sociale, l’apertura alla globalizzazione ma anche il genius loci che noi italiani tanto amiamo. E se spostiamo lo sguardo da questa nuova angolatura ecco che il lavoro che svolgiamo al cantiere PA della cittadinanza digitale assume un significato di sistema: dal confronto con le norme (tante, forse troppe) che toccano i temi dell’innovazione ai servizi che definiscono infrastrutture generali (come SPID, PagoPA e ANPR), alle esperienze di successo sparse per l’Italia (regionali, comunali o anche di piccole realtà) al tema generale della conoscenza e delle competenze. Ancora le persone al centro quindi, le persone che stanno dentro alla PA e che sono il nucleo di queste innovazioni, e le persone che vivono la città (i city users) che possono essere non solo destinatari dell’innovazione ma anche ( e soprattutto) promotori, attraverso un processo di costruzione dal basso in cui sono sia utilizzatori che promotori di innovazione. Un’innovazione aperta quindi, aperta nei dati che utilizza e che produce, ma anche negli stessi progetti, che consenta agli altri di copiare e migliorare. Aperta anche, e non è scontato anche se la piattaforma ANCI sta lavorando in questo senso, nei procedimenti amministrativi, che il corpus normativo rende spesso complessi e per i quali un’intelligenza collettiva (il riuso degli atti amministrativi) sarebbe di grande aiuto.
I problemi non mancano, dalla formazione interna del personale della PA all’onnipresente questione dei finanziamenti, dalla complessità delle norme per gli appalti di forniture di beni e servizi alla compresenza di tanti livelli di governance con obiettivi spesso sovrapposti o poco definiti. Ma siamo anche anche in presenza di un grande fermento, il governo centrale su alcuni di questi temi è molto più attivo che in passato e questo, in qualche modo, sta forzando un coordinamento tra tutti i livelli o comunque innalza il livello di attenzione di tutti. Rimangono le questioni storiche come la difficoltà a reperire personale adeguato (e su questo la questione del depotenziamento delle Provincie complica ulteriormente le cose, in quanto occorre gestire in qualche modo gli esuberi e il ricollocamento di personale), il nuovo codice degli appalti che è molto “giovane” e quindi ancora in fase di studio da parte di tutti, l’utilizzo di fonti di finanziamento non abituali per la PA come i vari fondi comunitari (per i quali spesso non sono presenti le professionalità adeguate all’interno delle varie amministrazioni). Temi che abbiamo tutti molto ben presenti e per i quali per molti di noi il solo modo di affrontarli è facendo squadra assieme.
Quindi azione collettiva sia tra amministrazioni e cittadini che tra amministrazioni e amministrazioni, in un ecosistema generale in cui ci si influenza mutuamente e si massimizza l’esperienza.
Per tutto questo possiamo davvero dire che sui temi dell’innovazione è davvero finito il processo della progettazione come atto individuale calato dall’alto, come da un sommo architetto che tutto riesce a capire e interpretare. Anche perchè, come scriveva Le Corbusier, “alla fine è sempre la vita ad avere ragione e l’architetto ad avere torto”.