Il futuro del lavoro e la crescita economica: il Goal 8 a FORUM PA 2017
Cresciamo meno della metà
dei nostri partner europei in termini di produttività procapite, abbiamo un
tasso di disoccupazione giovanile di poco inferiore al 40% e abbiamo oltre due
milioni di giovani (uno su cinque) che non studiano e non lavorano. Se questo è
il ritratto dell’Italia al 2017 c’è davvero molto da lavorare per raggiungere
gli obiettivi del Goal 8 dell’Agenda 2030, che definisce le priorità per una
crescita economica inclusiva e sostenibile, con piena occupazione e lavoro
dignitoso per tutti. Ne abbiamo parlato con Davide Ciferri, economista presso
l’Ufficio Studi di Cassa depositi e prestiti e docente alla John Cabot University, referente del
gruppo di lavoro sul Goal 8 all’interno di ASviS.
19 Aprile 2017
Michela Stentella
“Il Goal 8 tratta in maniera congiunta i temi dello sviluppo economico e del lavoro. Tra tutti i target del goal possiamo identificarne tre sui quali l’Italia dovrebbe concentrarsi: quello che guarda all’aumento della produttività, che è una delle debolezze storiche del sistema economico nazionale; quello che punta al raggiungimento della piena occupazione; infine quello che si concentra sulla riduzione del numero dei NEET cioè dei ragazzi che non lavorano e non studiano”. Così Davide Ciferri [1], referente del gruppo di lavoro sul Goal 8 all’interno di ASviS, sintetizza le criticità maggiori per il nostro Paese nel raggiungimento degli obiettivi di crescita economica e piena occupazione individuati all’interno dei Sustainable Development Goals dell’Agenda 2030 dell’ONU.
Partiamo dal tema relativo alla produttività: un problema endemico dell’economia italiana da almeno 20 anni, come evidenzia Ciferri: “In termini di produttività del lavoro noi cresciamo tendenzialmente meno della metà di quanto fanno i nostri partner europei e questo incide sulla nostra capacità di crescita economica, quindi sul PIL in senso aggregato. In questo campo qualcosa si sta muovendo, iniziative come il Piano industria 4.0 e quello per garantire l’accesso alla banda larga su tutto il territorio nazionale riusciranno probabilmente ad incidere sulla capacità del sistema di essere più produttivo. Tuttavia dobbiamo ricordare che queste politiche, che incidono su alcuni fattori abilitanti dei processi produttivi – e indirettamente possono favorire nuovi investimenti da parte delle imprese – non necessariamente si traducono in un aumento di produttività del lavoro, fattore sul quale incidono dinamiche parzialmente indipendenti”.
Se sull’orizzonte della produttività qualcosa comunque si sta muovendo in termini di strategia, al momento non ci sono invece buone prospettive per quanto riguarda il mercato del lavoro. “Nonostante le recenti riforme, i tassi di disoccupazione sono ancora molto alti – sottolinea Ciferri – e soprattutto c’è un divario di genere significativo non solo guardando ai tassi di occupazione (dove il divario è più o meno quantificabile in quasi 20 punti percentuali, ed è comunque più alto rispetto alla media degli altri paesi avanzati), ma anche guardando al tasso di inattività. Qui il divario tra uomini e donne (pari anche in questo caso a circa 20 punti percentuali) mostra delle differenze territoriali significative: raggiunge per le donne del sud circa il 60% rispetto a del 36% (valore comunque alto) di quelle residenti al nord. Esiste strutturalmente un divario significativo che non riguarda solamente la possibilità per una donna di entrare nel mercato del lavoro, ma anche la propensione di genere, condizionata dal meccanismo complessivo che la società ci trasmette. E non ci sono al momento iniziative significative volte a favorire una maggiore partecipazione delle donne e un’entrata effettiva nei livelli occupazionali”.
Stessa cosa vale per i NEET. Alcune stime indicano che il costo effettivo dei NEET per l’economia italiana, il costo della perdita di questo capitale umano e sociale, oscilla tra un punto e mezzo e due punti di PIL. Nel corso della crisi i NEET sono aumentati di circa 7 punti percentuali (secondo i dati OCSE oggi siamo sopra il 26% partendo da un 19% prima della crisi). “Una dinamica così non si è registrata in nessun’altra economia avanzata – sottolinea Ciferri – nei paesi OCSE i NEET durante la crisi sono aumentati in media di circa un punto percentuale”. Come mai questo aumento esponenziale nel nostro Paese? Tra i fattori determinanti, l’inadeguatezza del sistema formativo e la sfiducia nella mobilità sociale. “Alcune statistiche OCSE hanno evidenziato come la nostra capacità di formare persone con le skill adatte ad affrontare le sfide poste dal mercato del lavoro sia diminuita drasticamente nel corso degli ultimi anni. Anche iniziative interessanti non sono state adeguatamente valorizzate o rafforzate. Pensiamo a Garanzia giovani, un’iniziativa lanciata nel 2013 e volta non tanto a favorire l’occupazione giovanile quanto l’attivazione dei giovani sul mercato del lavoro, attraverso iniziative di formazione e di tirocinio, che in qualche modo offrissero un aumento delle condizioni di occupabilità. Quel programma, che aveva anche stanziamenti europei molto significativi, è stato poi un po’ tralasciato, non si è voluto investire fino in fondo su una prospettiva che avrebbe potuto determinare davvero un cambio di passo”. “Altra carenza strutturale del nostro mercato del lavoro è il fatto di non garantire una mobilità sociale adeguata: manca in realtà un equilibrato schema di incentivi per chi decida di impegnarsi nella propria crescita professionale e migliorare la propria condizione economica e sociale. Il sistema appare bloccato e questo ha determina un progressivo aumento della componente giovanile sfiduciata”.
Quali prospettive per il futuro quindi? Le nuove tecnologie peseranno in modo rilevante sullo sviluppo economico e sulle dinamiche occupazionali? “Se guardiamo a una dinamica di lungo periodo, ci aspettiamo una divergenza forte tra i processi di crescita economici e la dinamica occupazionale dovuta alle scelte tecnologiche e di investimento delle imprese, che appaino ineluttabili. Pensiamo alla crescita esponenziale di imprese 4.0 o comunque fortemente connesse alle tecnologie dell’informazione avvenuta in altre economie avanzate: queste imprese con fatturati mostruosi (pensiamo alle imprese della Silicon Valley), che tuttavia hanno livelli occupazionali decisamente modesti. Una prospettiva che sta già riguardando anche imprese che tradizionalmente avevano una maggiore intensità di fattore lavoro, come quelle meccaniche, dove la rivoluzione del ciclo determinerà una forte esigenza di ricollocazione della forza lavoro attualmente impegnata. Il dibattito è aperto: pensiamo alla discussione alquanto originale relativa alla tassazione sui robot per finanziare strumenti di ammortizzatori sociali per compensare la perdita del lavoro di persone che stanno nella catena di produzione. Questo scenario peserà non solo sulla dinamica occupati/crescita economica ma influirà sulla formazione del nostro stato sociale: il meccanismo con cui cercheremo di sopperire alle eventuali perdite di occupazione, la modalità con cui proveremo a sostituire il capitale umano per renderlo più efficiente e maggiormente utilizzabile in altre produzioni e settori, come riorganizzeremo la scuola e il sistema educativo…insomma, ancora una volta come per tutti gli obiettivi dell’Agenda 2030, le dimensioni si intrecciano e si influenzano, chiedendo uno sguardo e una strategia a 360 gradi”.
A FORUM PA 2017 il 23 maggio parleremo di “ Come coniugare lavoro e sviluppo in un’epoca di continua disruptive innovation”
[1] Economista presso l’Ufficio Studi di Cassa depositi e prestiti, insegna econometria alla John Cabot University e collabora con la Luiss e l’Università di Roma Tor Vergata. È membro del segretariato dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). È Affiliated Researcher presso il Centre for Empirical Finance della Brunel University di Londra. Ha prestato servizio nello staff del ministro Enrico Giovannini al ministero del Lavoro e delle politiche sociali (governo Letta). Dottore di ricerca in Economia Monetaria e Finanziaria all’Università di Roma Tor Vergata.