“Connected life”: se le città imparano dai cittadini ad essere più intelligenti
Alberto Marinelli, docente di Teoria e Tecnica della Comunicazione e dei Nuovi Media alla facoltà di Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, ci spiega qual è il ruolo della comunicazione multimediale in una smart city e quali sono gli strumenti attraverso i quali le PA possono incidere sui comportamenti dei cittadini creando le condizioni per la realizzazione di una città intelligente.
15 Ottobre 2012
Roberta Gatti*
Alberto Marinelli, docente di Teoria e Tecnica della Comunicazione e dei Nuovi Media alla facoltà di Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, ci spiega qual è il ruolo della comunicazione multimediale in una smart city e quali sono gli strumenti attraverso i quali le PA possono incidere sui comportamenti dei cittadini creando le condizioni per la realizzazione di una città intelligente.
Qual è il ruolo della comunicazione multimediale in una smart city?
E’ necessario fare una premessa: le smart cities prevedono che le persone che le abitano facciano sempre più una vita connessa. Questa modalità di vita indicata con l’espressione connected life che ormai si trova sempre più comunemente nella riflessione teorica (per esempio nel recente libro di Barry Wellman “Networked: The New Social Operating System”) sottende l’idea che le tecnologie abilitino un nuovo modo operativo di vivere la nostra vita, come il sistema operativo del computer abilita le applicazioni.
Queste vite connesse che viviamo, sempre più abilitate dalle tecnologie (e non intendo dire che le tecnologie sono condizionanti e determinanti ma che entrano in ogni aspetto della nostra esistenza) si sperimentano di più su alcuni segmenti, su alcune dimensioni: è infatti sulla dimensione relazionale che le persone sono più abituate alla dimensione smart, nel senso che le loro relazioni transitano sempre di più dalle appendici mobili che si portano in tasca, dai loro smartphone, dai tablet e dalle loro reti di connessione.
Sulle città invece tutta questa dimensione si sta proiettando adesso: mi auguro che l’Agenda Digitale apra prospettive in questa direzione, lavori in termini di implementazione delle necessarie connettività di base che rendono poi praticabile questo tipo di dimensione e la diffusione di una cultura adeguata. Le persone non debbono aver paura delle tecnologie: esse semplificano la loro esistenza. Il fatto di essere “embedded”, conficcati in una dimensione tecnologica anche all’interno di una città, non può far altro che semplificare la loro vita e consentire alle persone di ottenere quello che vogliono nella maniera più semplice e agevole possibile.
Quello che voglio dire è che viviamo in una dimensione multimediale, o meglio multidevice, e che la utilizziamo per rispondere ad un bisogno: cerchiamo di ottenere la risposta utilizzando o un dispositivo o un canale di comunicazione. Faccio un esempio: sto uscendo di casa e devo capire se usare lo scooter o se prendere un mezzo. Posso usare il televisore o il pc per avere le previsioni meteo aggiornate sulla mia area urbana, magari con il conforto del social network, e sulla base di questo decidere. A questo punto la città intelligente dovrebbe reagire con gli stessi criteri. Nel senso che alla fermata dell’autobus mi aspetto l’indicazione del tempo di attesa del mezzo (cosa che con qualche difficoltà comincia a funzionare). E poi, visto che normalmente faccio il percorso in auto o con lo scooter e non ho il biglietto vorrei poterlo comprare senza perdere tempo utilizzando un sensore (ad esempio tramite la tecnologia Near Field Comunication, come si sta diffondendo sull’ultima generazione di telefonini) che mi avvisi del pagamento del biglietto.
La città in qualche modo deve provare ad assorbire gli stili di vita che autonomamente come cittadini e come utenti stiamo cominciando a praticare negli spazi che ci sono stati abilitati. Molti di questi spazi sono a ridosso delle tecnologie trasportabili semplicemente perché è il mercato più vivace, quello dove le innovazioni sono più diffuse e forse anche perché c’è stata maggiore disponibilità a spendere da parte dei consumatori.
Le tecnologie sono un fattore abilitante che favorisce comportamenti e pratiche sociali. Quali sono secondo lei, gli strumenti su cui deve puntare una smart city?
Come accennavo non partiamo da zero, nel senso che le persone autonomamente si sono già attrezzate e adeguate a seconda delle realtà urbane in cui sono inserite. E qui entrano in gioco svariati fattori (tra cui la disponibilità economica e il capitale culturale). Intendo dire che c’è una parte più avanzata della popolazione che corre molto rapidamente da questo punto di vista e ha già adottato stili di vita da città smart. Lo sforzo che bisogna fare è di “diffusione”, cioè garantire l’accesso a tutti. E l’accesso può significare attenzione a tanti piccoli dettagli e non comporta necessariamente enormi investimenti tecnologici: comporta soprattutto un investimento di conoscenza e di intelligenza sulla valutazione dei contesti d’uso. Ciò che le persone fanno e ciò di cui hanno bisogno nello specifico contesto urbano. E nella scelta del canale più giusto, per far arrivare l’informazione che serve al momento giusto con il canale più economico nel contesto specifico d’uso. E’ senza senso tirare fuori tutti il telefonino per sapere un’informazione che è diretta a migliaia di persone nello stesso tempo. Per questo può servire un classico schermo: le persone passano e leggono. La stessa cosa può essere usata per le comunicazioni di pubblica utilità: è evidente che per cose di questo tipo possiamo usare quelli che chiamiamo mezzi di comunicazione one way senza interazione da uno a molti, e lasciare i mezzi di comunicazione che richiedono bidirezionalità e attivazione a funzioni più complesse.
Per realizzare interventi come questi bisogna rendere armonici i vari passaggi e rendere armonica soprattutto la strategia che guida la presa di contatto dei bisogni delle persone in un singolo istante della loro vita nella città. Questo consente di evitare errori palesi come ad esempio i cartelloni luminosi sulle autostrade che segnalano un indirizzo web a cui collegarsi per avere le informazioni sul traffico in tempo reale….mentre si è alla guida dell’auto. A volte la cartellonistica è invece usata in modo intelligente: si possono fare diversi esempi che facilitano la circolazione in città. A Roma e anche ormai in altre città ci sono cartelloni che segnalano i tempi di percorrenza del tratto di strada dando utili indicazioni e la possibilità di scelta all’automobilista: o decido di rimanere in coda o scelgo un tragitto alternativo se il tempo previsto è lungo. Questo è un esempio di intelligenza applicata alla mobilità ed è questo ciò che mi aspetto da una città smart: non un cartellone che mi rimanda al web ma che mi dà informazioni utili. Questo esempio esplicita come si deve entrare in contatto col consumatore nella maniera più intelligente possibile e utile rispetto alla specifica esigenza d’uso.
Altre dimensioni richiedono differenti punti di contatto e di smistamento delle informazioni o di coinvolgimento. Non abbiamo per niente affrontato l’idea del coinvolgimento delle persone mentre, invece, le persone, secondo una logica molto chiara a chi gestisce i social media, sono disposte a cooperare. Cooperare significa che possono rilasciare informazioni passive, per esempio essere monitorati negli spostamenti da casa al lavoro grazie a dispositivi presenti nei nostri telefoni cellulari, e quindi permettere uno studio di massa sui flussi delle città e i tempi di spostamento che è una cosa straordinariamente importante. In una città intelligente potrebbe servire al programmatore degli spostamenti per ragionare sui tempi di accesso agli uffici e alle scuole, ed evitare che tutte le attività partano alle 8,00 precise in tutti i luoghi della città producendo il caos. E’ questo che mi aspetto da una logica che tratti i cittadini in maniera intelligente.
Quindi gli apparati multimediali sempre connessi sono in grado di incidere sui comportamenti e sulle scelte dei cittadini…
La parola chiave è “connected” intesa come “connected life”, “connected consumer” e “connected media”. Ho scritto un libro nel 2004 e l’ho intitolato “Connessioni”: nessuno allora aveva capito perché! Il perché è che io avevo in mente questa idea: tutta la nostra vita è fatta di connessioni, è abilitata attraverso connessioni, alcune di queste viaggiano in maniera sotterranea nel senso che ci abilitano tecnologicamente rispetto ad alcune funzioni senza che noi ne avvertiamo quasi la presenza. In altri casi, e sono tutte le dimensioni relazionali, sono quelle che apriamo e che teniamo aperte: quelle che ci raggiungono e che ci consentono in qualche modo di entrare nella vita della città. Faccio un esempio banale: ormai tutti quanti sono abituati a consultare le recensioni delle persone rispetto agli alberghi dove pensiamo di prenotare. Mi auguro che meccanismi di questo genere entrino decisamente anche nell’esperienza di vita della città. Stiamo studiando sistemi in cui “l’intelligenza della folla”, nel senso che le migliaia e in alcuni casi milioni di persone che attraversano la città riescano a rendere l’esperienza coinvolgente anche per le altre migliaia e milioni di persone che l’attraverseranno in futuro.
La PA segue con grande ritardo la diffusione di questa cultura, oserei dire “delle città”. Questa è una sfida che impone alle amministrazioni pubbliche o a chi gestisce un luogo strategico della città, di esporsi alla valutazione, allo scambio e alla condivisione dell’esperienza. Allo stesso tempo sappiamo che se tutto questo si rivelasse positivo, ciò risulterebbe essere un potentissimo volano rispetto al fatto che altre persone vogliano vivere la stessa esperienza culturale intensa. Più persone che ne parlano bene o che postano immagini significa che molte altre ne seguiranno e saranno invogliate a fare la stessa esperienza.
Questo è il meccanismo in cui siamo inseriti e molte realtà imprenditoriali devo dire che l’hanno capito molto meglio delle PA. Qualche PA ha cominciato a capire che il brand città, o il brand urbano o il brand fatto dai tanti piccoli luoghi che richiamano mentalmente una città, va gestito attraverso forme di coinvolgimento sociale del genere che accennavo prima.
Parliamo di Pubbliche Amministrazioni, nuove forme di comunicazione e oggetti multimediali: come possono le istituzioni inserirsi e influire sulle vite sempre connesse dei cittadini?
Le istituzioni pubbliche attualmente sono nella fase in cui erano rispetto al web verso la fine degli anni novanta: sono nella fase del presidio. L’importante è esserci, occupare uno spazio, farsi vedere…Questa è la logica perché l’idea del social è lontana dalla cultura tipica dell’operatore della PA o comunque viene risucchiata dentro una cultura tipica attraverso le esperienze individuali. All’interno delle PA generalmente sono singole persone che introducono logiche nuove di comunicazione perché nella loro vita, da privati cittadini, o insisto, da consumatori hanno avuto un’esperienza positiva di questi aspetti e fanno i portabandiera di questo tipo di espressione di canale comunicativo all’interno della PA. Non siamo ancora nella fase della diffusione e della validazione: uso il termine validazione perché come sappiamo processi di questo tipo, se gestiti in maniera ingenua, possono essere molto più dannosi del web 1.0 gestito in maniera ingenua. Nel caso del web 1.0 il rischio poteva essere la disaffezione del cittadino derivante dal fatto che un servizio previsto veniva disatteso e questo poteva essere il livello massimo di disincanto e di problematizzazione che poteva venire dall’esperienza; nel caso del social la dimensione è molto più profonda quindi avventurarsi senza una riflessione sufficientemente matura e consolidata, espone o potrebbe esporre le PA a rischi decisamente maggiori.
Secondo lei quale strategia dovrebbero usare le Pubbliche Amministrazioni per mettersi al passo con i comportamenti sociali dei cittadini?
Cominciare dalle cose più semplici… ma non banali: è pressoché inutile che i politici utilizzino i nuovi canali di comunicazione per consentire che qualcuno clicchi “like” sulla propria pagina personale: questo potrà dare qualche piccolo ritorno ma alla fine serve a poco. E’ necessario invece cominciare a sperimentare, entrare in sintonia con specifici target già abilitati a queste connessioni, o con specifici contesti dove tutto questo ha un senso: per esempio nella gestione degli eventi a basso costo. E’ evidente che se devo fornire informazioni sul concerto di una star della musica rock posso permettermi di fare un piano media utilizzando i mezzi di comunicazione tradizionali (cartellonistica, ecc..). Però se devo diffondere, validare un processo che viene dal basso, che si appoggia, ad esempio, sulla rete delle biblioteche, che ha come destinatario un target ristretto, e che utilizza la qualità e il racconto della qualità delle persone che l’hanno già vissuto, è evidente che i social media funzionano perfettamente. Ho fatto un esempio segmentato rispetto ad uno specifico polo di attrazione. Se ne tocchiamo altri molto più complicati dobbiamo considerare un bilanciamento costi benefici a seconda delle situazioni. Si pensi al ruolo di grande utilità dei social network nelle situazioni di emergenza: essi possono avere un effetto eccezionalmente efficace perché prevedono il coinvolgimento dal basso delle persone sia nella costruzione delle informazioni sia nella rete di solidarietà, e in tutte le fasi di gestione dell’evento. Dall’allarme fino alla gestione del post! E poi puntano sul coinvolgimento dei singoli soggetti. Ma possono essere usati anche in maniera sciocca…con risultati non altrettanto positivi!
Siamo passati dagli eventi alle calamità e potremmo scivolare su qualsiasi segmento: i social media, essendo embedded (conficcati) nella nostra vita possono essere utilizzati su una pluralità di processi. Non sono un’entità separata, non è qualcosa come la radio in cui decidi di stabilire un contatto a quell’ora per raggiungere quel determinato target: essi sono molto diffusi, molto reticolari, a basso costo e consentono una fluidità nella gestione che è tarata solo sull’intelligenza di coloro che li utilizzano, purtroppo. Anche se molto può essere demandato alla dimensione dal basso: perché è evidente che su un canale come questo delle emergenze essi si riappropriano della possibilità di co-gestirlo e riescono a fare molto di più di quello che intenzionalmente possono realizzare le amministrazioni pubbliche.
Lei ha accennato ad uno strato di popolazione che è più evoluto rispetto all’utilizzo degli oggetti di comunicazione multimediale. Da cosa dipende questa differenziazione di comportamenti?
Parliamo di divari: quando siamo partiti 10 anni fa ad approcciare questo tema la distinzione era tra chi aveva accesso e chi non aveva accesso. Poi ci siamo piano piano accorti che il divario è relativo e che non è uno ma che ci sono 10000 differenti di divari. Come ti sposti acquisti il presidio di uno spazio e nel frattempo la tecnologia e le pratiche sociali sono già schizzate da un’altra parte e ti ritrovi attardato. Detto questo, e sapendo che la dimensione è sfaccettata ed è infinita e che ci sono alcune soglie che debbono essere garantite a tutti (mi auguro che l’agenda digitale finalmente risolverà il problema dell’accesso!), è innegabile rilevare che ci sono persone che corrono rapidamente e che nell’approccio verso le nuove tecnologie sono facilitate dalle proprie competenze culturali (ad esempio chi conosce l’inglese utilizza le risorse che sono sulla rete in maniera radicalmente differente da chi non conosce questa lingua). E’ un divario questo che si riproduce paradossalmente tutte le volte che metto le tecnologie o gli accessi alle tecnologie in relazione al bagaglio culturale di fondo che mi trascino.
Il problema, è di difficilissima soluzione anche perché se 10 anni fa si pensava che internet o il digitale avrebbe abbattuto le barriere e avrebbe messo tutti sullo stesso piano, adesso questa fiducia acritica sulle tecnologie non c’è più. E si parla di velocità relativa.
E i divari non riguardano solo quelli all’interno del nostro Paese: ci sono divari anche tra sistemi paese! E’ evidente che questo differenzia molto le persone: se si fa un’analisi del traffico si scopre, ad esempio, che mentre in Italia abbiamo smesso quasi del tutto di scaricare file pirata di musica, adesso lo stanno facendo in Russia. Il traffico è tutto spostato sull’Est. In Africa invece stanno accedendo adesso, con le connettività a bassissimo numero di larghezza di banda, al primo web: cosa di assoluta rilevanza perché in questa maniera hanno accesso a fonti di informazione importanti…
La domanda è: cosa faremo noi coi next generation network? Faremo un sacco di cose belle sull’intrattenimento, mettendo anche in campo soluzioni che rendano più facile la vita dei cittadini!
La corsa in atto per ampliare la larghezza di banda non sarà solo per vedere le partite di calcio sui tablet o per vedere i film in HD on demand…ma, mi auguro che le amministrazioni smart la utilizzeranno anche ad esempio per dematerializzare, accedere da qualsiasi punto al cloud della PA dove sono conservati i miei dati sensibili, ecc…Esempi pionieristici ci sono. La sfida è garantire l’accesso a tutti, omogeneizzare questi divari ed eliminare i colli di bottiglia.
Qual è la sua ricetta sul ruolo della comunicazione multimediale nelle smart cities?
La prima cosa è che bisogna ricorrere e valorizzare l’intelligenza diffusa. Come è stato fatto per la prima volta dal governo quando è stato aperto un canale di comunicazione ed è stato chiesto alla gente aiuto per individuare dove era possibile risparmiare e come lo si poteva fare, io penso che una delle prime iniziative che andrebbe presa è di chiedere alle persone che abitano e attivano la città e che hanno esperienze della loro vita, di provare a immaginare, insieme a chi deve decidere, che cosa bisogna fare. Perché al fatto che l’intelligenza in qualche modo venga dal basso con i processi ci credo, sia dal punto di vista volontaristico ma anche umano; credo che ci siano ormai delle riprove sostanzialmente funzionanti nei sistemi tecnologici. L’idea di sfruttare l’intelligenza draft sulle persone è comunque una delle prime chiavi di lettura.
La seconda cosa è che non è sufficiente investire in infrastrutture, anche se le infrastrutture servono. L’unità di misura dell’intelligenza di una città non è scavare tanti pozzi, tante gallerie, far passare tanti cavi. La diffusione della fibra ottica è importante ma non è l’unico fattore in gioco. L’infrastrutturazione è fondamentale ma inutile senza un’attenzione anche culturale (e per culturale intendo dire vicino alla sensibilità delle persone).
Ci sono moltissimi esempi in cui la tecnologia applicata ai processi garantisce un grandissimo risparmio di risorse: se solo le persone si chiedessero: “Qual è la risposta smart che si può dare in un determinato ambiente?”. E mi riferisco all’applicazione di tecnologie che sono alla portata di tutti. Banalmente, insieme ai cablaggi, mi aspetto un insieme di idee dalle persone e un insieme di tante piccole attività che alle fine rendano la vita migliore per tutti, senza nemmeno buttare troppi soldi, senza fare grandi cose. Anzi una miriade di piccoli interventi che vadano tutti secondo una certa logica che è quella che ho descritta prima. Che prendano atto del fatto che le persone, i cittadini in questo caso, sono più avanti delle PA. Ovviamente il presupposto è che ci siano interventi che portino tutti ad un livello minimo, e nel caso delle città che sono più evolute, grazie al riuso, potranno fare da volano per quelle che sono più arretrate. Saranno la parte trainante, i buoni esempi che tutti potranno poi riutilizzare.
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