Piccoli Comuni tra l’obbligo di associarsi e ricerca di alternative

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Il presente articolo è la sintesi di un più ampio lavoro avente per oggetto la realtà dei piccoli Comuni e le esperienze delle Unioni di Comuni che verrà presentato il 28 gennaio a Bologna, nel corso di un convegno organizzato da FORUM PA dal titolo “Non solo Aree metropolitane: la cooperazione intercomunale dei medi e piccoli Comuni per l’innovazione e lo sviluppo”.

7 Gennaio 2015

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Nicola Melideo

Il presente articolo è la sintesi di un più ampio lavoro avente per oggetto la realtà dei piccoli Comuni e le esperienze delle Unioni di Comuni che verrà presentato il 28 gennaio a Bologna, nel corso di un convegno organizzato da FORUM PA dal titolo “Non solo Aree metropolitane: la cooperazione intercomunale dei medi e piccoli Comuni per l’innovazione e lo sviluppo”.

La legge 56/2014 prescrive che entro il 31/12 di quest’anno (termine reiterato più volte dal 2010) tutti i Comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti debbano conferire le loro funzioni fondamentali a gestioni associate intercomunali.

Ma non sarà così, e ce lo conferma, a due settimane dalla scadenza, un indicatore inequivocabile: il numero dei Comuni che nel 2014 hanno trasferito risorse finanziarie a Unioni di Comuni (in appresso anche UdC). Nel 2013, hanno effettuato trasferimenti a favore delle UdC di appartenenza 1916 Comuni, per un valore di quasi 418 milioni di Euro; nel 2014, da gennaio a ottobre, il valore dei trasferimenti assomma a poco più di 350 milioni di Euro, mentre i Comuni “finanziatori” si sono ridotti a 1393 (Fonte SIOPE – MEF). In particolare, i Comuni con meno di 5000 abitanti che trasferiscono risorse nel 2014 sono diminuiti di 372 unità rispetto al numero di Comuni della stessa classe demografica “contribuenti” nel 2013.

Se non intervengono, dunque, cambiamenti di scenario imprevedibili, alla fine del 2014 i Comuni con meno di 5000 abitanti che risulteranno associati in una UdC (senza considerare il numero delle funzioni effettivamente gestite in forma associata) saranno all’incirca il 17% del totale. 

Alcuni motivi del mancato decollo dell’associazionismo

Molte sono le ragioni che trattengono i “piccoli Comuni” dal dare piena attuazione alla norma. Ne elenchiamo alcune:

1. L’esaurimento (non momentaneo) dei finanziamenti incentivanti;

2. Il fatto che il Governo continui a considerare l’associazionismo come una modalità per tagliare la spesa improduttiva, mentre chi ha sperimentato le gestioni associate di norma è del parere che la forma “Unione” genera, almeno inizialmente, costi più elevati senza garantire risparmi a regime, almeno sino a che esse non diventino “altra cosa” rispetto al modello organizzativo-gestionale degli Enti locali;

3. Unioni che siano “altra cosa” dai Comuni significa innanzitutto che esse debbano:

  • avere dimensioni demografiche di almeno 20.000-30.000 abitanti (molto al di sopra delle soglie minime stabilite);
  • saper praticare, nelle gestioni associate, la distinzione tra decisioni strategiche, che richiedono un elevato livello di partecipazione politica, e decisioni gestionali, che non possono essere “assembleari”, ma vanno prese in sedi tecniche, “manageriali”;
  • accentrare e semplificare radicalmente le funzioni di Amministrazione generale e la gestione delle risorse umane;
  • prevedere, dunque, un ruolo centrale per la figura del Direttore generale con adeguati poteri ed un chiaro e condiviso piano di obiettivi da perseguire;

4. L’evidenza che nelle UdC funzionanti i Comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti svolgono un ruolo insostituibile. Il fatto che nelle gestioni associate, che nei fatti coinvolgono Comuni sino a 30.000 abitanti, si trovino a condividere la stessa esperienza associativa Comuni obbligati ad associarsi e Comuni del tutto liberi di farlo o non farlo (e, dunque, con un legame meno “impegnativo” con la forma associativa), mina in partenza ogni vincolo solidaristico necessario per qualsivoglia gestione associata;

5. La questione della distanza dei piccoli Comuni dai centri urbani: sono 2151 i Comuni “cintura” (secondo la definizione del DPS – Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica, facente capo alla Presidenza del Consiglio). In essi, prossimi ai centri urbani, vivono quasi 5 milioni di abitanti (la metà di tutti i piccoli Comuni) caratterizzati da uno stile di vita “urbano”: volerli assimilare agli altri 3551 Comuni (intermedi, periferici e ultra-periferici, a seconda della loro distanza da un centro urbano) appare operazione priva di senso;

6. Le patologie (eccessivi costi unitari per alcuni servizi) attribuite ai piccoli Comuni: queste, a ben vedere, si concentrano nei Comuni fino a 2.000 abitanti soprattutto nel Sud e Isole. In generale l’analisi dei bilanci 2012 dei Comuni pubblicati dal Ministero dell’Interno (finanzalocale.interno.it), dimostra che i piccoli Comuni sono gestiti molto meglio dei grandi Comuni, almeno per quanto riguarda le Entrate: ne è indice autorevole il fatto che essi vantano il più basso tasso medio di residui attivi (14,7%-16%) tra tutti i cluster di Comuni presi in esame (gli altri valori sono: il 18,8% nei Comuni tra 5.000 e 10.000 abitanti; 22%, nei comuni con ab. tra 10.000 e 20.000; 30,8% nei Comuni di dimensioni superiori ai 20.000 ab.);

7. La fierezza di molti amministratori, il loro sentirsi sia sul piano etico che su quello della dedizione alle proprie comunità “più a posto”, più affidabili della media dei politici di rango superiore. E, soprattutto, non si reputano in alcun modo corresponsabili dello stato precario della finanza pubblica, per cui rifiutano ogni pretesa tutoria nei confronti dei Comuni da essi amministrati;

8. Il divario inevitabile nel grado di “buon governo” tra Comuni contigui: gli amministratori che ritengono di gestire in modo rigoroso i loro Enti temono che la scelta associativa possa comportare la diffusione del virus della malagestione ad opera di Enti meno virtuosi;

9. L’incapacità di molte Regioni di proporre valide iniziative di supporto alle gestioni associate per renderle “sostenibili” e l’inesistenza di una regia nazionale;

10. Il fatto che ogni Unione, infine, faccia storia a sé: tra di esse non intercorrono rapporti, relazioni, scambi di esperienze. A volte non sanno l’una dell’esistenza dell’altra. Le poche Unioni che hanno avuto successo si offrono come modelli senza cogliere, spesso, le differenze strutturali che le connotano rispetto alla grande maggioranza delle UdC esistenti.

Esistono alternative all’obbligo di associarsi?

Alla prospettiva di lavorare per un’adesione generalizzata ma puramente di facciata è, forse, preferibile un impegno volto a definire ex novo natura e contenuti del progetto associativo.

Alcune proposte da approfondire:

  • stabilire con chiarezza gli obiettivi che si vuole conseguire dai piccoli Comuni e verificarne con gli stessi (possibilmente senza ricorrere alle scorciatoie delle opinioni espresse dalle Associazioni rappresentative), con analisi condivise, la fattibilità e la sostenibilità;
  • rimuovere l’obbligo di associazione per tutti i Comuni, semplificare e ridurre gli adempimenti burocratici improduttivi (OIV, trasparenze varie, controllo di gestione, et similia) quanto meno per tutti i Comuni fino a 2000 abitanti;
  • promuovere un associazionismo, sempre nella forma delle Unioni di Comuni, su base volontaria facendo leva sulla disponibilità di “modelli” di cooperazione strutturata;
  • identificare con precisioni le performance da incentivare ed, in ogni caso, garantire che i risparmi ottenuti da libere gestioni associate o dal ricorso a centri servizio (come le centrali di committenza) siano reimpiegati sul territorio ad opera degli stessi Comuni, purchè in forma associata;
  • riconoscere le eventuali incentivazioni da parte di Stato e Regioni solo ex post e a fronte di risultati effettivamente conseguiti;
  • eventuali investimenti per l’avvio delle gestioni associate, di conseguenza, vanno finanziati direttamente dai Comuni coinvolti;
  • prevedere a tal fine mutui agevolati per le attività di progettazione e di start up delle forme associative (nuove), mentre per le attività di sviluppo possono essere previste forme di finanziamento (sempre ex post) che tengano conto dell’effettiva capacità di conseguire gli obiettivi posti alla base della scelta associativa;
  • promuovere partenariati pubblico-privati soprattutto nell’ambito dei sistemi informativi, della condivisione in rete di piattaforme ICT in grado di consentire la gestione centralizzata dei servizi, a partire da quelli non rilevanti per i cittadini (amministrazione generale, gestione del personale, segreteria generale, etc.);
  • mobilitare le Province perché nella la progettazione dei servizi di area vasta, si focalizzino anche sull’erogazione di servizi di assistenza tecnico-amministrativa ai piccoli Comuni e sull’offerta di servizi di supporto.

 

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