Riforma PA: un’analisi dello status quo
Ieri è stato pubblicato in G.U. il decreto legge che costituisce il primo passo verso una più complessa ed organica riforma della PA, annunciata dal Governo, che vedrà il suo organico dispiegarsi con il disegno di legge delega che attendiamo a breve. In questa occasione presentiamo l’edizione 2014 del rapporto di FORUM PA sul pubblico impiego che è una impietosa e preoccupante descrizione di una situazione non più sostenibile. Sarà questa la volta buona per cambiamenti strutturali? Vedremo.
26 Giugno 2014
Carlo Mochi Sismondi
Ieri è stato pubblicato in G.U. il decreto legislativo legge che costituisce il primo passo verso una più complessa ed organica riforma della PA, annunciata dal Governo, che vedrà il suo organico dispiegarsi con il disegno di legge delega che attendiamo a breve. In questa occasione presentiamo l’edizione 2014 del rapporto di FORUM PA sul pubblico impiego che è una impietosa e preoccupante descrizione di una situazione non più sostenibile. Sarà questa la volta buona per cambiamenti strutturali? Vedremo.
Per ora vi propongo qualche breve riflessione introduttiva e vi invito a leggere l’intero documento e, se vorrete, a commentarlo.
In tutti i Paesi l’indebolimento strutturale della finanza ha portato ad un ripensamento del settore pubblico e, con esso, del pubblico impiego, allo scopo di ottenere risparmi e di "fare di più con meno".
Mentre però per alcuni di essi, come UK e soprattutto Francia, è stata questa l’occasione per una coraggiosa riforma strutturale, la crisi ha portato sinora in Italia ad un sostanziale arroccamento delle posizioni, in una sorta di "catenaccio" teso da una parte a difendere il più possibile lo status quo, dall’altra a raggiungere comunque, con lo stesso apparato organizzativo e con tagli più o meno lineari, il massimo dei risparmi possibili. Il risultato di questa politica sono stati blocco delle assunzioni e delle nuove professionalità; consolidamento dei privilegi degli assunti, specie dirigenti; disinvestimento nella formazione, nella comunicazione e nel processo di cambiamento; assenza cronica di valutazione, presente solo in casi sporadici; blocco totale della mobilità, persino nella stessa amministrazione; progressioni orizzontali per i dipendenti e livelli stipendiali abnormi per le fasce più alte della dirigenza; proliferare clientelare di enti, società e unità locali, che hanno portato così ad un quadro così disastroso, nei suoi fenomeni chiave, che nessuna innovazione incrementale può sperare di modificare.
Non è quindi sufficiente pensare ad una revisione della spesa, se non è accompagnata da una "rivoluzione" che, partendo dai fattori fondamentali, ripensi il lavoro pubblico sulla base di principi inderogabili: apertura ai giovani; possibilità di prepensionamento volontario e massiccio dei più anziani, in primis i dirigenti; mobilità obbligatoria; riduzione percentuale dei dirigenti e riallineamento dei loro emolumenti su livelli "europei"; deciso incremento delle spese per la formazione; riconoscimento dei talenti; possibilità di crescita professionale legata al merito; riduzione drastica degli enti, delle unità locali e delle partecipate; introduzione di nuove professionalità legate alla digitalizzazione e al project management e contestuale riconoscimento delle alte competenze, sciogliendole dall’obbligo della promozione dirigenziale; osmosi tra privato e pubblico e viceversa; uso intelligente e lungimirante del lavoro flessibile. La situazione in cui troviamo non può dirsi figlia di "cattiva" politica, quanto piuttosto di inerzia e di "non politica", aiutata da una difesa dell’esistente che ha fatto comodo a tutti: politica, sindacato, dirigenza.
All’immediata vigilia della riforma promessa dal Governo e anticipata dal D.Lgs. del 24/6 u.s., la nostra Pubblica amministrazione, dopo più di due decenni di riforme, si trova ad aver dato un importante contributo in termini di risparmi attraverso una sostanziale diminuzione della massa salariale e una spasmodica e a volte autolesionista ricerca degli sprechi da tagliare, ma di non aver risolto i suoi squilibri strutturali e quindi di essere non tanto inefficiente quanto inefficace a rispondere ai bisogni attuali. Cercare di mettere il vino nuovo della nostra complessa società dell’informazione, della negoziazione, della rete nelle botti vecchie di organizzazioni tutto sommato ancora gerarchiche e fordiste ha portato danni gravi. Ne è nato un doppio scontento, una doppia frustrazione: della parte più dinamica ed innovativa della società, che continua a vedere nella burocrazia un freno e un nemico, e negli innovatori presenti nelle amministrazioni che si trovano a combattere con armi spuntate e con pesanti zavorre sulle spalle. Ascoltando quotidianamente i protagonisti, pubblici e privati, sentiamo che siamo ad un passo dal definitivo arrendersi, dall’attaccare le scarpine al chiodo. Non c’è più tempo da perdere. Se la riforma Renzi/Madia sarà la svolta che serve lo vedremo, certo è di una profonda rivoluzione che abbiamo bisogno.