Malasanità del tutto personale. Vediamo addirittura di sorriderne un po’

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Quando si legge di un caso di malasanità i sentimenti si mescolano e a convivere sono stupore, insofferenza, incredulità, voglia di denuncia e giustizia. Ma anche, non neghiamocelo, tanto sollievo per averla scampata in prima persona. Tutte sensazioni che immagino si ripeteranno per voi ora leggendo queste righe, con l’aggiunta sperabile di un po’ di vostro sorriso, visto che la cosa è capitata a me, e per sdrammatizzare vedo di strapparvelo e strapparmelo. Che è meglio, molto meglio.

24 Gennaio 2012

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Tiziano Marelli

Articolo FPA

Quando si legge di un caso di malasanità i sentimenti si mescolano e a convivere sono stupore, insofferenza, incredulità, voglia di denuncia e giustizia. Ma anche, non neghiamocelo, tanto sollievo per averla scampata in prima persona. Tutte sensazioni che immagino si ripeteranno per voi ora leggendo queste righe, con l’aggiunta sperabile di un po’ di vostro sorriso, visto che la cosa è capitata a me, e per sdrammatizzare vedo di strapparvelo e strapparmelo. Che è meglio, molto meglio.

La settimana scorsa, dopo una lista d’attesa invero insolitamente veloce (non si dovrebbe nemmeno dire, ma la regola numero uno da queste parti è: meglio conoscere qualcuno all’interno della struttura che aiuta, molto) sono stato chiamato per sostenere un piccolo intervento chirurgico in un ospedale romano. Il preavviso – lo sanno tutti quello che hanno vissuto un’esperienza del genere – vale perché ci si presenti il giorno dopo a digiuno e “preparati” secondo le indicazioni di volta in volta necessarie (ma sui particolari relativi a quest’ultimo aspetto preferisco non dilungarmi).

Appuntamento alle 8 di mattina e operazione prevista per il primo pomeriggio. Da buon milanese anche se in trasferta mi presento puntuale e vengo allocato in una camera a due letti, uno dei quali già occupato da altro paziente in attesa della stessa tipologia chirurgica. Da quel momento passano le ore e non si vede nessuno, per nessun tipo di visita o comunicazione. Sia io che il mio vicino abbiamo però un’esigenza: di avere un altro cuscino (io) e di capire come funziona la televisione (lui) visto che il telecomando, nonostante ripetuti tentativi (suoi sbatacchiamenti poco indicati per una corretta funzionalità contro muro e comodino) non dà nessun segno di vita. Timidamente, esco dalla stanza ed espongo il problema nella sala infermieri lì accanto, riconoscibile anche per linsolita vivacità che ne fuoriesce, visto il luogo: i cinque allegri buontemponi che trovo all’interno se la spassano gridando e ridendo a crepapelle, e si interrompono solo per ascoltarmi, molto stupiti per il mio ardire; esposti i problemi, uno di loro mi risponde: “Con tutto quello che abbiamo da fà, ce manca solo de preoccupasse de ‘ste cazzate”, poi si volta e continua a parlare con gli altri (l’argomento, in verità, era irresistibile: il record di Totti, la settimana scorsa ormai a portata di rete, visto da sponde avverse; davvero, un piccolo cult che ringrazio il destino per non essermelo perso, anche continuando ad orecchiare poi dall’esterno). Visto il prologo non l’avrei detto, ma dopo un’oretta circa si compiono entrambi i miracoli, anche se quello della televisione si rivela un gran disastro, almeno per me: il vicino è un ex comandante di marina, e ogni volta che cambiando canale si parla (sempre) del naufragio del Costa Concordia, parte con una serie di insulti verso il comandante Schettino e la sua famiglia tali da far impallidire un camallo genovese, con la conseguenza di rendermelo un pochino più simpatico (Schettino, intendo).

La televisione viene spenta solo quando il comandante allettato a fianco riceve la sua truppa familiare, verso le 16: in verità avrebbe già dovuto essere operato (lui era il primo della lista, io l’ultimo di quattro), quindi intorno all’infermo arrivano tutti – dalla moglie alle nipoti, più tutte le fasi intermedie del parentado – con la convinzione di dover già accudire l’infermo, ma non è così. Il totale è di ben undici persone che, per distrarre l’ancora preoccupatissimo parente, si impegnano in un allegrissimo e altrettanto rumoroso gioco della parti teso alla sdrammatizzazione dell’evento, per nulla preoccupati dell’altro occupante la stanza (sempre io). Dicevo che il tutto avviene intorno alle 16, quando da due ore almeno la sala operatoria avrebbe dovuto funzionare a pieno regime. Facendo un calcolo su quanto può comunque durare un piccolo intervento comincio a preoccuparmi, e lo faccio a ragione perché passa un’altra ora senza che accada niente (ma proprio niente di niente: nemmeno nessuno che venga a dirci cosa sta succedendo). Alla buon’ora sentiamo finalmente sferragliare di barella a fianco, quindi capiamo che parte il primo intervento: sono le 17 e 30. Il portantino ha la bontà i riferirci che i turni – chissà perché – sono stati stravolti: io resto ultimo ma il mio vicino passa in terza posizione, così fra l’altro il cicaleccio intorno ai nostri letti può continuare per un bel po’. Meno di un’ora dopo tocca al secondo, poi sarà il momento del comandante, che lascia la stanza scivolando via fra saluti accorati dei parenti che invece restano con in piedi per terra (sì, proprio come se lui si trovasse sulla tolda di una nave in partenza: dev’essere l’abitudine, mi dico). Attenzione: sono circa le 19, e non so com’è ma “sento” chiaramente quello che succederà di lì a poco. Come, appunto, succede puntualmente. Alle 19 e 45, infatti, arriva il “mio” chirurgo con il capo cosparso di cenere (non si vede, la cenere, ma io so che c’è) e mi dice che per una serie di ritardi il programma è saltato, e che la sala operatoria chiude alle 20 (ma com’è che me lo sentivo? Mah…). In effetti, aggiunge, se gli ausiliari che ci lavorano decidessero di continuare il loro turno si potrebbe proseguire, ma non è questo il caso: tutti hanno dichiarato di voler smontare, e disponibile è rimasto solo lui. Siamo senz’altro d’accordo entrambi che noi due da soli, per portare a termine l’impresa anche con tutta la buona volontà che ci possiamo mettere, non possiamo bastare. Quello che mi dice poi, invece di stimolare la mia comprensione riesce se possibile ad inquietarmi di più: cose del genere non succedono quasi mai, a sua memoria; magari mi voleva consolare, ma l’effetto è del tutto opposto. A questo punto, dice ancora, mi restano due scelte: restare per il giorno dopo con la possibilità di essere operato a seguire dopo un intervento importante che comincia alle 11, ma l’opzione è inficiata dal fatto che lui (il chirurgo) alle 15 comunque se ne deve andare in clinica privata (quindi non mi assicura nulla) e me ne dovrei andare dopo un altro inutile giorno d’attesa; oppure tornare la settimana prossima con la certezza che sarò operato per primo, e me lo garantisce giurin giuretta. Naturalmente scelgo la busta numero 2. A questo punto ci salutiamo velocemente, anche perché capisce che nonostante la complicità che ci rende in fondo comprensivi, sto perdendo quella pazienza che deve contraddistinguere ogni buon – appunto, ed ecco perché si chiama così! – paziente, e io lo sono stato senz’altro fin troppo. Purtroppo, l’aplomb che mi sforzo di mantenere salta però del tutto quando il chirurgo dimesso (anche se a voler essere pignoli ad essere letteralmente dimesso, e controvoglia, sono io), già sulla porta, chiosa così: “E comunque deve sapere che l’ospedale a questo punto ci perde, perché con i rimborsi garantiti dalla convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale fin qui rientravamo nelle spese. Farla invece tornare la settimana prossima per noi lei diventa un costo”. E se ne va. Le sue ultime parole riescono addirittura per qualche secondo a farmi sentire in colpa, giusto il tempo perché il primo pacchetto di crackers prudentemente portati con me e ingollati compulsivamente riesca ad attenuare i morsi della fame prolungata e a far di nuovo funzionare un po’ meglio il cervello, fin lì appannato da una giornata vissuta all’insegna della surrealità. Ma quando avrei la risposta pronta e adatta, lui – ahimé – è già sparito e non più raggiungibile.

Lo rivedrò fra poche ore – ho già ricominciato a “prepararmi” e anche il digiuno sta di nuovo per iniziare – appena prima che l’anestesia faccia effetto, e se tutto andrà per il meglio non dovrò raccontare qui una seconda, nefasta puntata. Uno di fronte all’altro, comunque, mi morderò la lingua e glisserò su quello che avrei da dirgli: il bisturi dalla parte del manico, anche stavolta, ad avercelo non sarò io.

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