Scuola digitale e piano nazionale, un bilancio in chiaroscuro alla fine del primo anno

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L’anno appena trascorso ce lo ricorderemo, probabilmente, come l’anno del “fare”, anche se aleggia una diffusa sensazione che si sia trattato dell’anno del “dover fare”

21 Luglio 2016

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Carlo Giovannella, Università Roma Tor Vergata, Smart Learning Ecosystems and Regional Development

Ormai tutti gli studenti, anche coloro che sono stati impegnati sino a pochi giorni fa negli esami di maturità, sono in vacanza e ciò autorizza- stranamente anche i decisori – a supporre che lo stato di vacanza si possa estendere a tutto il personale della scuola. Forse è lecito farlo per i “soldati semplici”, ma per tutti coloro che hanno assunto responsabilità più o meno grandi nella programmazione e gestione degli ecosistemi educativi scolastici, spiaggia e ombrellone (o petule e laghetti per chi dovesse essere amante della montagna) sembrano ancora dei miraggi.

L’anno appena trascorso ce lo ricorderemo, probabilmente, come l’anno del “fare”, anche se aleggia una diffusa sensazione che si sia trattato dell’anno del “dover fare”.

Tentare di modificare un sistema complesso come quello scolastico italiano, da lungo tempo tenuto in naftalina, non è impresa da poco, pensare di farlo in un numero limitato di mesi è addirittura impresa da far tremare i polsi.

Personalmente ho sempre considerato la riforma come un esempio di azione di sistema che ha prodotto un ragguardevole quadro di riferimento operativo. Ovviamente, come tutti i quadri di riferimento, non è esente da difetti e appare migliorabile, ma almeno la cornice con cui confrontarci ore c’è. In passato, da queste pagine, abbiamo più volte sviluppato tale confronto e continueremo a farlo anche in futuro, con spirito di servizio … quanto poi le nostre osservazioni potranno trovare orecchie pronte ad ascoltarle e farne tesoro è tutto da vedere.

La sensazione del “dover fare” deriva probabilmente più che dalla cornice di riferimento dalle modalità con cui sono state messe in campo alcune delle azioni previste dal PNSD, in modo apparentemente sinergico, con le azioni gestite dalle USR e, infine, con altre attuate dalle singole regioni.

Il quadro è dominato da chiaroscuri. Di certo tra le luci più brillanti il piano per la creazione dei laboratori territoriali che non serve, come qualcuno sembra pensare, a sostenere la realizzazione di 58 (il numero dei progetti finanziati) scuole di eccellenza ma, piuttosto, poli basati su reti che dovrebbero essere in grado di sostenere lo sviluppo territoriale, e fornire occasione per lo svolgimento delle attività di alternanza scuola lavoro. Proprio per questo c’è da augurarsi che le economie ricavate dal bando, stimabili in qualche milione di euro, possano essere utilizzate per dare il via libera allo sviluppo di ulteriori laboratori.

Il rischio principale dell’operazione è da rintracciarsi nella limitata esperienza del personale scolastico nella gestione di progetti di tale portata. Infatti, la scarsa familiarità con la progettazione, riscontrata nella fase di scrittura delle proposte, potrebbe estendersi alla gestione dell’attuazione dei progetti, e condurre al ridimensionamento degli obiettivi.

Un ulteriore rischio potrebbe essere rappresentato dalle modalità di erogazione del finanziamento. Trattandosi di risorse pensate principalmente per l’acquisto di macchinari e la ristrutturazione degli ambienti è evidente che l’efficiente avvio delle attività dei laboratori non potrà che dipendere dall’entità degli anticipi e dalla rapidità di erogazione dei successivi saldi.

Positivo anche l’avvio della formazione nelle scuole (snodi territoriali), molto meno la modalità di attuazione: decine e decine di bandi, pochi i formatori adeguati al compito resisi disponibili o individuati, modalità di selezione quanto meno farraginose, esiti della formazione in termini di impatto non facilmente prevedibili. Il rischio è che persone già non particolarmente motivate nei confronti della formazione, anche a causa dell’età media molto elevata, lo diventino ancora meno e diventino sempre meno organici ai bisogni di trasformazione della scuola.

Ad ogni modo, anche grazie alla formazione dei docenti neoassunti, è stata avviata una riflessione sulle competenze, e nel frattempo è stata emanata la nuova direttiva sugli enti di formazione (sulla quale varrà la pena ragionare in un prossimo futuro) ed è stato preannunciato per il prossimo autunno un nuovo e articolato piano di formazione.

Non resta che aspettare e vedere.

Piuttosto critica è stata la frequenza con cui sono stati pubblicati i numerosi micro e macro bandi (MIUR, USR, Regioni) – per altro in concomitanza con tanti altri obblighi da ottemperare – e che hanno portato al limite di saturazione le risorse disponibili nelle scuole. Risorse molto spesso coinvolte su base volontaristica. Quella della valorizzazione delle risorse umane, ben oltre il bonus da assegnare ai docenti meritevoli (che pure ha creato non pochi problemi), è tema non più eludibile se si vuole evitare che l’entusiasmo iniziale scemi e aumentino le criticità dei contesti.

A tutto questo si è aggiunto il caos che ha contraddistinto i trasferimenti dei docenti e la ri-assegnazione dei nuovi assunti al termine dell’anno di prova. Molto spesso quel poco che era stato costruito con fatica nel corso di questo anno è stato spazzato via con il risultato ultimo che i dirigenti scolastici si trovano a dover selezionare nel mese di agosto, per bando e colloquio, i nuovi docenti, per poi ricostruire … e tutto questo in situazioni ambientali non sempre confortevoli.

Pur tralasciando altri aspetti problematici, se a quanto sopra aggiungiamo un certo numero di tentennamenti e di cambi in corso d’opera, il risultato ultimo non può che essere la diffusione di quella percezione di un “dover fare” non motivato a cui accennavamo in apertura. Una percezione che, purtroppo, rischia di aumentare la distanza tra il personale, che si vede caricato di sempre maggiore responsabilità (dirigenti in prima linea, ma non solo), e i referenti istituzionali.

L’estate, soprattutto, per chi è sempre in prima linea, non è solo il momento del relax ma anche quello dell’approfondimento e della riflessione, attività che difficilmente possono essere poste in essere sotto stress.

L’agire “in-action” tipica del professionista riflessivo descritto da Schon, ormai entrato a far parte anche dell’immaginario collettivo del comparto educativo, e il “learning by doing” non sono sufficienti per una trasformazione consapevole e duratura: è necessario prevedere anche il tempo dell’ “otium” e del “cogitare”.

Non per niente ci si accorge di essere quando si realizza che si è in grado di pensare. Auguro veramente a tutti di poter godere di un gradevole periodo di “otium”.

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