“Innovazione sociale”. Di cosa parliamo quando lo diciamo

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Andrea Bassi, Direttore della ESSE – European Summer School on Social Economy e Ricercatore presso l’Università di Bologna – riconoscendo all’innovazione sociale una natura “multidisciplinare”, sottolinea come essa sia oggetto di una molteplicità di definizioni, non tutte tra loro complementari. “Dal mio punto di vista –  sintetizza – l’innovazione sociale può essere articolata in tre definizioni che rispecchiano i tre principali approcci con cui possiamo analizzarla: sistematico, pragmatico, manageriale”. Proprio con Bassi iniziamo ad esplorare questo concetto affascinante e al tempo stesso, per la sua multiforme natura, estremamente duttile fino a diventare un po’scivoloso.

22 Febbraio 2011

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Chiara Buongiovanni

Andrea Bassi, Direttore della ESSE – European Summer School on Social Economy e Ricercatore presso l’Università di Bologna – riconoscendo all’innovazione sociale una natura “multidisciplinare”, sottolinea come essa sia oggetto di una molteplicità di definizioni, non tutte tra loro complementari. “Dal mio punto di vista –  sintetizza – l’innovazione sociale può essere articolata in tre definizioni che rispecchiano i tre principali approcci con cui possiamo analizzarla: sistematico, pragmatico, manageriale”. Proprio con Bassi iniziamo ad esplorare questo concetto affascinante e al tempo stesso, per la sua multiforme natura, estremamente duttile fino a diventare un po’scivoloso.

Innovazione sociale: cosa significa?
Il concetto di "innovazione sociale" include due termini: innovazione e sociale. Quello che qualifica è l’aggettivo, sociale. Evidentemente è un po’ una  parola-ombrello, dentro cui possono stare tantissime cose. L’idea da cui partire è questa: ogni innovazione (in campo tecnologico, economico come nei sistemi produttivi) può produrre degli effetti sociali, cioè dei cambiamenti duraturi nelle relazioni sociali e nel comportamento delle persone. L’innovazione sociale in questo senso segue le “tipiche” fasi di ogni innovazione: dal prototipo alla sperimentazione all’adozione da parte di qualcuno. Quando una serie di soggetti inizia ad adottare una soluzione nuova, entriamo nella fase critica in cui si determina se l’innovazione rimarrà appannaggio di una elite o diventerà lo "standard”, cioè il modo normale di agire e di usare determinati strumenti. Nel sociale sembra più difficile individuare le diverse fasi dell’innovazione, perché tutto è più fluido, però ci sono esempi evidenti sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco all’uso sociale di innovazioni tecnologiche, dal telefonino  ai network in internet.  L’utilizzo specifico “commerciale” di queste innovazioni tecnologiche è assolutamente minoritario rispetto all’utilizzo sociale che ormai se ne fa. Questa, in sintesi, è l’innovazione sociale: l’utilizzo sociale di una qualunque innovazione tecnologica, economica, produttiva che cambia il modo di  interagire e di comportarsi. Questo comporta una serie di implicazioni di ordine sociale, su diversi livelli e non tutte necessariamente di segno positivo.

Dunque, quale è la cartina tornasole per capire se possiamo considerare una innovazione "sociale"?
E’ l’impatto che ha sulle relazioni e sui comportamenti collettivi, tenendo presente che, nell’innovazione sociale, bisogna qualificare il referente empirico, cioè calare l’innovazione in un ambiente che può essere un quartiere, una comunità territoriale, un Comune.  Possiamo fare un esempio banale, partendo ancora una volta da una innovazione sociale nata da una tecnologica. Pensiamo al nuovo modello di "interazione non in presenza" che le nuove tecnologie hanno reso possibile e che si è ampiamente diffuso. La diffusione su larga scala di questo modello di interazione ha delle conseguenze non solo sulle relazioni  ma anche sui comportamenti individuali e collettivi. Questo vuol dire che si generano una serie di conseguenze sociali, solo apparentemente banali, che –  considerate nel loro insieme – ci pemettono di misurare l’impatto di questa innovazione. Nell’esempio specifico, a grandi linee, ci possiamo riferire a conseguenze del tipo: minor utilizzo dei mezzi di trasporto, minor contributo all’ inquinamento, minor traffico oltre a minori occasioni di interazione diretta, minor numero di attività svolte all’aperto.

La difficoltà sull’innovazione sociale sembra quella di “incasellare” il concetto in una tipizzazione che permetta di usarlo come griglia di analisi e lavoro…
L’innovazione sociale è un  fenomeno per sua natura “multidisciplinare”, dunque è naturale che sia soggetto a una molteplicità di letture che portano a una sua diversa concettualizzazione. Io proporrei una categorizzazione dell’innovazione sociale in tre definizioni che rispecchiano sostanzialmente i tre principali approcci all’innovazione sociale, ovvero sistematico, pragmatico, manageriale. Ciascuno di questi approcci è originato da uno specifico punto di vista e rispettivamente: sociologico, economico, manageriale.

(A seguire,  le definizioni riprese dal prof. Bassi e gli “schemi” elaborati e proposti nel suo Paper "Social Innovation", in preparazione della sessione 2011 della European Summer School on Social Economy).  (ndr)

Approccio sistematico[1]
Secondo l’approccio sistematico l’innovazione sociale è un processo complesso di introduzione di nuovi prodotti, processi e programmi che cambiano profondamente le abitudini, le risorse disponibili e i flussi di autorità o le convinzioni del sistema sociale in cui l’innovazione si produce. Le innovazioni sociali, quando hanno successo, sono caratterizzate da durata e ampio impatto.

In breve

  •  Cosa è: un processo complesso
  • Oggetto di innovazione: prodotti, processi, programmi
  •  Effetti/motivazione: cambiamento profondo
  • Oggetto del cambiamento: routine di base, risorse e flussi di autorità, convinzioni
  • Contesto di riferimento del cambiamento: sistema sociale
  • Attributi: Impatto ampio e durevole nel tempo

Approccio pragmatico[2]
Secondo l’approccio pragmatico, l’innovazione sociale fa riferimento alle attività e ai servizi innovativi che si producono con l’obiettivo di rispondere a un bisogno sociale e che sono in larga misura diffusi attraverso organizzazioni a scopo prevalentemente sociale.

In breve

  • Cosa è: un’attività o servizio
  • Oggetto di innovazione  —
  • Effetti/motivazioni: risposta ad un bisogno sociale
  • Oggetto del cambiamento —-
  • Contesto di riferimento del cambiamento: organizzazioni che lavorano nel sociale
  • Attributi —–

Approccio manageriale[3]
Secondo l’approccio manageriale (un ibrido rispetto ai due precedenti)  l’innovazione sociale può essere considerata una nuova soluzione ad un problema sociale che si distingue dalle soluzioni esistenti perché più efficace, più sostenibile o più equa e grazie alla quale il valore creato ricade sulla società nel suo complesso più che sui singoli individui.

In breve

  • Cosa è: una soluzione innovativa
  • Oggetto di innovazione —
  • Effetti/motivazioni: creazione di valore
  • Oggetto del cambiamento un problema sociale
  • Contesto di riferimento del cambiamento: società
  • Attributi efficiente, efficace, sostenibile, equa

In questo frame, dove si colloca l’innovazione sociale che sta ricevendo grande attenzione a livello politico – amministrativo, da Obama a Cameron fino alle più piccole esperienze sui territori italiani?
E’ evidente che dobbiamo distinguere molto chiaramente il concetto di innovazione sociale dal punto di vista scientifico–sociologico rispetto all’uso politico che viene fatto di questo concetto in misura crescente negli Stati Uniti come in Europa. Attualmente se ne parla tanto perché Obama e Cameron in primis lo stanno incorporando nei programmi sociali, nei progetti sociali e – direi di più – nelle politiche pubbliche. Di fatto stanno mettendo questo label sulle loro politiche pubbliche per indicare metodi che esistevano già precedentemente, mentre la vera novità sta nel fatto che la politica ne stia facendo sempre piu un elemento strategico. E’ chiaro che, calata nel contesto delle politiche pubbliche, a prescindere dal fatto che facciano capo al Governo centrale piuttosto che alla Regione, alla Provincia o la Comune, l’innovazione sociale può avere moltissimi ambiti di applicazione. In questo senso, nel termine di innovazione sociale rientrerebbero nuovi modelli e pratiche di realizzazione di politiche pubbliche che vedono la compartecipazione delle persone che sono poi i soggetti – oggetto delle politiche medesime. Il risultato principale di questa "applicazione" è la creazione di network che rimangono dopo (e a prescindere dal fatto) che i risultati di progetto siano stati del tutto o in parte raggiunti. Parlo quindi di reti durature e stabili sui territori.  

Insieme all’innovazione sociale, sale la popolarità degli innovatori sociali. Ma chi sono?
Come sociologo non credo molto in questa personalizzazione, che riprende un po’ una visione “eroica”  così come è già stato qualche anno fa per la figura dell’imprenditore sociale. E’ evidente che ci siano delle persone simbolo (in Italia penso a Muccioli piuttosto che a don Ciotti), che hanno fatto cose straordinarie, ma sono convinto che queste figure possono emergere in contesti che sono fecondi.
Ci sono poi quelli che io chiamo i “partecipazionisti convinti", però non sono loro che fanno massa critica. Quello che fa la differenza è la ricchezza e il tessuto sociale di un territorio. In questo rientrano le organizzazioni della società civile così come le imprese che possono essere soggetti collettivi di innovazione sociale e, ovviamente, rientra la stessa pubblica amministrazione.

Quale può essere il ruolo della PA?
In linea di massima è la società civile che preme, attraverso i forum locali del terzo settore, le consulte del volontariato, i comitati dei cittadini che generalmente hanno un’idea e spingono sulla politica affinché si realizzi, ma non è detto che non possa avvenire il contrario. E di più, anche se la spinta nasce dal basso, la PA non è esonerata dal potenziare l’azione della società civile e i suoi effetti. Diciamo pure che spesso sarebbe già tanto se gli amministratori favorissero anche solo l’approccio pragmatico, allargando la governance delle politiche pubbliche al maggior numero di soggetti coinvolti.

Possiamo ipotizzare una modellizzazione, seppur a grandi linee, dell’innovazione sociale in Italia?  
Nella realtà italiana, ancora più che altrove, l’innovazione sociale è territorializzata. Poi, si dice che “i soldi vanno da chi li ha già”…in questo contesto vuol dire che i territori che hanno più risorse di qualunque tipo – economiche, culturali, sociali – sono i territori che più sono in grado di utilizzarle e di accumularle. Voglio dire che è più facile interconnettere la decima all’undicesima rete piuttosto che creare la prima da zero. La formula di base è che dove c’è più capitale sociale è più facile attivare innovazione sociale. Per questo in Italia indicherei come territori "modello" il Nord –Est  come anche  le Regioni del centro, cioè quei territori dove è tradizionalmente più forte l’attenzione dell’ammnistrazione pubblica al sociale, al movimento cooperativo, all’associazionismo. Ma è un dato estremamente positivo il fatto che ci siano moltissimi scambi, attraverso canali istituzionali e non, tra tutti i territori italiani. Questo è fondamentale: costruire luoghi di scambio delle buone pratiche, perché niente è più potente di un esempio ben riuscito.

 


[1] Westley Frances and Antadze Nino (2010), “Making a Difference: Strategies for Scaling Social Innovation for Greater Impact”, The Innovation Journal: The Public Sector Innovation Journal, Vol. 15 (2).
[2] Geoff Mulgan, The Process of Social Innovation, in “Innovations. Technology, Governance, Globalizations”, Spring 2006, MITpress, Boston, p.146.
[3] Phillis James A. Jr., Deiglmeier Kriss, Miller Dale T., Rediscovering Social Innovation, in
“Stanford Social Innovation Review”, Fall 2008, 6, 4, Stanford, p. 36

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