La misura del Benessere in Italia: il rapporto BES 2013
Di cosa parliamo quando ci riferiamo al benessere? Per valutare quella ricchezza che "sfugge" all’analisi del PIL Cnel e l’Istat hanno unito le proprie forze per giungere alla definizione di un insieme condiviso di indicatori utili a definire lo stato e il progresso del nostro Paese misurando il “Benessere Equo e Sostenibile” (Bes). Analizzando i livelli, le tendenze temporali e le distribuzioni delle diverse componenti del Bes, è stato così possibile identificare punti di forza e di debolezza, differenze di genere, e squilibri territoriali o gruppi sociali avvantaggiati/svantaggiati. Il risultato è sintetizzato nel primo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia presentato questa mattina alla Camera.
11 Marzo 2013
Redazione FORUM PA
- 0.1 I dati del Rapposto BES 2013
- 0.2 SALUTE
- 0.3 ISTRUZIONE E FORMAZIONE
- 0.4 LAVORO E CONCILIAZIONE DEI TEMPI DI VITA
- 0.5 BENESSERE ECONOMICO
- 0.6 RELAZIONI SOCIALI
- 0.7 POLITICA E ISTITUZIONI
- 0.8 SICUREZZA
- 0.9 BENESSERE SOGGETTIVO
- 0.10 PAESAGGIO E PATRIMONIO CULTURALE
- 0.11 AMBIENTE
- 0.12 RICERCA E INNOVAZIONE
- 0.13 QUALITÀ DEI SERVIZI
- 0.14 Tutti i dati del BES possono essere navigati sul sito misuredelbenessere.it
Di cosa parliamo quando ci riferiamo al benessere? Il concetto di benessere cambia secondo tempi, luoghi e culture e non può quindi essere stabilito univocamente, ma solo attraverso un processo che coinvolga i diversi attori sociali. La definizione del quadro di riferimento porta con sé, dunque, un processo di legittimazione democratica che rappresenta l’elemento essenziale nella selezione degli aspetti qualificanti il benessere individuale e sociale. Giungere a un accordo sulle dimensioni più importanti (i cosiddetti “domini” del benessere) e sugli indicatori permette anche di individuare possibili priorità per l’azione politica.
Il tema della misurazione del progresso ha due componenti: la prima, prettamente politica, riguarda i contenuti del concetto di benessere; la seconda, di carattere tecnico-statistico, concerne la misura dei concetti ritenuti rilevanti. Infatti, come ormai appare evidente dal dibattito internazionale sull’argomento, poiché non è possibile sostituire il Pil con un indicatore singolo del benessere di una società, è necessario selezionare, con il coinvolgimento di tutti i settori della collettività e degli esperti di misurazione, l’insieme degli indicatori ritenuti più rilevanti e rappresentativi del benessere di ogni specifica collettività.
Di conseguenza, il Cnel, organo di rilievo costituzionale, al quale partecipano rappresentanti di associazioni di categoria, organizzazioni sindacali e del terzo settore, e l’Istat, dove operano esperti della misurazione dei fenomeni economici e sociali, hanno unito le proprie forze per giungere alla definizione di un insieme condiviso di indicatori utili a definire lo stato e il progresso del nostro Paese. Per questo è stato costituito un comitato insieme all’associazionismo femminile, ecologista, dei consumatori e all’associazionismo in senso lato. L’obiettivo è stato quello di misurare il “Benessere Equo e Sostenibile” (Bes) analizzando livelli, tendenze temporali e distribuzioni delle diverse componenti del Bes, così da identificare punti di forza e di debolezza, differenze di genere, nonché particolari squilibri territoriali o gruppi sociali avvantaggiati/svantaggiati, anche in una prospettiva intergenerazionale (sostenibilità). Al comitato si è affiancata una commissione scientifica. La consultazione con i cittadini è stata ampia.
Il risultato è sintetizzato in questo primo rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile in Italia; gli indicatori selezionati per rappresentarlo aspirano a divenire una sorta di “Costituzione statistica”, cioè un riferimento costante e condiviso dalla società italiana in grado di segnare la direzione del progresso che la medesima società vorrebbe realizzare.
I dati del Rapposto BES 2013
SALUTE
Si vive sempre più a lungo ma sono forti le disuguaglianze sociali
La vita media continua ad aumentare, e l’Italia è tra i Paesi più longevi d’Europa. Le donne, a fronte dello storico vantaggio in termini di longevità, che tuttavia si va riducendo, sono più svantaggiate in termini di qualità della sopravvivenza: in media, oltre un terzo della loro vita è vissuto in condizioni di salute non buone. Il Mezzogiorno vive una doppia penalizzazione: una vita media più breve e un numero minore di anni vissuti senza limitazioni. Le donne che risiedono in quest’area, a 65 anni possono contare di vivere in media ancora 7,3 anni senza problemi di limitazione nelle attività quotidiane, mentre per le loro coetanee del Nord gli anni aumentano a 10,4.
La mortalità infantile, quella da incidenti da mezzi di trasporto e quella da tumori, che possono essere incluse nella cosiddetta mortalità evitabile, sono in calo nel lungo periodo, mentre crescono i decessi per demenza senile e malattie del sistema nervoso.
La popolazione, peraltro, continua a essere minacciata da comportamenti a rischio: l’obesità è in crescita (circa il 45% della popolazione maggiorenne è in sovrappeso o obesa); l’abitudine al fumo, a distanza di 10 anni, mostra solo una lieve flessione (nel 2001 i fumatori erano il 23,7% della popolazione di 14 anni e più, nel 2011 sono il 22,7%, una quota stabile dal 2004), ma non diminuisce per i più giovani; tra questi ultimi peraltro si sono diffuse pratiche di abusi nel consumo di bevande alcoliche (bingedrinking).
Uno stile di vita sedentario caratterizza una proporzione non indifferente di adulti (circa il 40% non svolge alcuna attività fisica nel tempo libero); inoltre, in Italia oltre l’80% della popolazione consuma meno frutta e verdura di quanto raccomandato. Elementi questi che rappresentano fattori di rischio per l’oggi, ma a maggior ragione per il futuro se si consolidassero negli stili di vita della popolazione. Mezzogiorno e persone di estrazione sociale più bassa continuano a essere le più penalizzate in tutte le dimensioni considerate.
ISTRUZIONE E FORMAZIONE
In ritardo rispetto all’Europa, con un lento miglioramento
Istruzione e benessere vanno di pari passo, ma l’Italia, nonostante i miglioramenti conseguiti nell’ultimo decennio, non è ancora in grado di offrire a tutti i giovani la possibilità di un’istruzione adeguata.
Il ritardo rispetto alla media europea e il fortissimo divario territoriale si riscontrano in tutti gli indicatori che rispecchiano istruzione, formazione continua e livelli di competenze. Ad esempio la quota di persone di 30-34 anni che hanno conseguito un titolo universitario è del 20,3% in Italia a fronte del 34,6% dell’Unione europea a 27 paesi. Il livello di istruzione e competenze che i giovani riescono a raggiungere dipende in larga misura dall’estrazione sociale, dal contesto socio-economico e dal territorio.
Il divario nelle competenze di italiano e matematica tra gli studenti dei licei e quelli degli istituti professionali è ampio e non semplicemente giustificabile con il diverso indirizzo formativo degli istituti; a questo si aggiunge la qualità del sistema educativo, che è profondamente diversa tra Nord e Sud. La famiglia inoltre influenza fortemente i risultati, tanto che i figli di genitori con al massimo la scuola dell’obbligo hanno un tasso di abbandono scolastico del 27,7%, che si riduce al 2,9% tra i figli di genitori con almeno la laurea.
Il percorso formativo è finalizzato a raggiungere e mantenere conoscenze e competenze adeguate per aumentare l’occupabilità (employability) delle persone, favorire lo sviluppo e realizzare stili di vita adeguati alla società complessa in cui viviamo. In questa prospettiva il percorso formativo non si limita all’istruzione formale, ma è un processo continuo che inizia prima della scuola dell’obbligo, con gli stimoli ricevuti in famiglia fin dalla più tenera età e con la scuola dell’infanzia, e si estende oltre la scuola secondaria o l’università con la formazione continua e, più in generale, con le attività di partecipazione culturale.
Rispetto a questo percorso formativo, tra il 2004 e il 2011 la situazione è migliorata per quasi tutti gli indicatori considerati, ma l’Italia non è riuscita a superare il divario con il resto d’Europa. Restano comunque molte criticità. In primo luogo, a causa della crisi economica che ha colpito più duramente i giovani, è aumentata la quota di Neet, ossia di giovani 15-29enni che non lavorano e non studiano (dal 19,5% del 2009 al 22,7% del 2011).
Inoltre è in netta diminuzione la partecipazione culturale delle persone; dopo un periodo di stagnazione, nel 2012 l’indicatore presenta un decremento molto marcato, passando al 32,8% dal 37,1% del 2011.
Sono ancora ampie le differenze territoriali: nel 2011 la quota di persone di 25-64 anni con almeno il diploma superiore è pari al 59% al Nord e al 48,7% nel Mezzogiorno, mentre i giovani che non lavorano e non studiano (Neet) sono il 31,9% nel Mezzogiorno, ovvero il doppio della quota relativa al Nord (15,4%).
Un miglioramento del livello d’istruzione e del livello di competenze che intervenga a ridurre le disuguaglianze territoriali e sociali e garantisca maggiori opportunità ai giovani provenienti da contesti svantaggiati appare, dunque, una priorità nel nostro Paese.
LAVORO E CONCILIAZIONE DEI TEMPI DI VITA
Un grave spreco di risorse, accentuato dalla crisi
Gli indicatori segnalano un cattivo impiego delle risorse umane del Paese, soprattutto nel campo del lavoro femminile e fra i giovani. Il tasso di occupazione e quello di mancata partecipazione al lavoro, già tra i più critici dell’Unione europea a 27, sono ulteriormente peggiorati negli ultimi anni a causa della crisi economica. Il primo, nella classe 20-64 anni è sceso dal 63% del 2008 al 61,2% del 2011 mentre il tasso di mancata partecipazione è aumentato dal 15,6% al 17,9%.
Quasi tutti gli indicatori di qualità dell’occupazione peggiorano e non solo per l’andamento congiunturale negativo. Se la costante incidenza dei lavoratori a termine di lungo periodo indica la persistenza in una condizione d’instabilità occupazionale, la crisi ha molto ridotto le possibilità di stabilizzazione dei contratti temporanei, soprattutto per i giovani (dal 25,7% del 2008 al 20,9% del 2011). Anche la presenza di lavoratori con bassa remunerazione (10,5%) e di occupati irregolari (10,3%) rimane sostanzialmente stabile negli ultimi anni, mentre cresce la percentuale di lavoratori sovra-istruiti rispetto alle attività svolte (21,1% nel 2010). Ciò nonostante, la percezione che i lavoratori italiani hanno della propria condizione è in complesso positiva (voto medio 7,3), soprattutto nella componente di interesse per il lavoro.
Anche le diseguaglianze nell’accesso al lavoro (territoriali, generazionali e di cittadinanza) si sono ulteriormente accentuate con la crisi. Fa eccezione il divario occupazionale tra uomini e donne, perché la crisi ha colpito maggiormente le occupazioni maschili nell’edilizia e nel manifatturiero: ciò nonostante, il divario di genere resta tra i più elevati d’Europa. Il tasso di occupazione 20-64 anni passa dal 72,6% degli uomini al 49,9% delle donne.
L’Italia è il paese europeo che, dopo la Spagna, presenta la più forte esclusione dal lavoro dei giovani e l’unico ove un’intera macro-regione assicura bassissime opportunità di occupazione regolare. Anche per le varie dimensioni della qualità dell’occupazione, le diseguaglianze rimangono cospicue a svantaggio delle donne, dei giovani e del Mezzogiorno. È interessante, peraltro, notare come siano diversi gli elementi che determinano la soddisfazione per uomini e donne: per i primi il guadagno è l’aspetto che raccoglie più giudizi positivi, mentre le seconde sono più soddisfatte degli aspetti relazionali, dell’orario e della distanza casa-lavoro. Infatti, per le donne la qualità dell’occupazione non può ignorare le difficoltà di conciliare tempi di lavoro e di vita.
Anche se l’asimmetria del lavoro familiare a sfavore delle donneè in lenta riduzione, la percentuale di donne con un sovraccarico di ore dedicate al lavoro (retribuito o meno) non diminuisce (39,2% nel 2008), così come non aumenta il rapporto tra il tasso di occupazione delle donne con figli in età prescolare e quello delle donne senza figli, stabile al 72%. Le condizioni peggiori delle donne meridionali fanno supporre che ad alimentare l’insoddisfazione sia anche la carenza di servizi.
La crisi non ha penalizzato complessivamente la partecipazione al lavoro dei lavoratori stranieri (scesa dal 69,8 al 66,2%), ma ha inciso molto sui tassi maschili. È inoltre decisamente rilevante e crescente, sotto tutti gli aspetti, lo svantaggio nella qualità dell’occupazione rispetto agli italiani: l’incidenza di occupati sovra-istruiti è più che doppia fra gli stranieri rispetto agli italiani (42,3% in confronto al 19,0%).
BENESSERE ECONOMICO
Crescono deprivazione e povertà
Le famiglie italiane hanno tradizionalmente un’elevata propensione al risparmio e la proprietà dell’abitazione, fanno inoltre ricorso all’indebitamento in misura contenuta e mostrano una diseguaglianza della ricchezza che, nel confronto europeo, è meno marcata di quella osservata in termini reddituali.
In presenza di un sistema di welfare che ha sempre riguardato soprattutto la componente previdenziale, la famiglia, anche in senso allargato (ovvero non solo per chi vive sotto lo stesso tetto), ha funzionato da ammortizzatore sociale a difesa dei membri più deboli (minori, giovani e anziani), talora celando le difficoltà di accesso all’indipendenza economica di giovani di ambo i sessi e donne di ogni età, per queste ultime soprattutto in presenza di carichi familiari.
La crisi economica degli ultimi cinque anni sta mostrando i limiti di questo modello, accentuando le disuguaglianze tra classi sociali, le profonde differenze territoriali e riducendo ulteriormente la già scarsa mobilità sociale. In questo arco di tempo alcuni segmenti di popolazione e certe zone del Paese sono stati particolarmente colpiti sia dalla riduzione dei posti di lavoro (la percentuale degli individui in famiglie senza occupati è passata, tra il 2007 e il 2011, dal 5,1% al 7,2%, con una dinamica più accentuata tra gli under 25, per i quali è cresciuta dal 5,4% all’8% e nel Mezzogiorno, dove dal 9,9% si è passati al 13,5%), sia dalla diminuzione del potere d’acquisto, che tra il 2007 e il 2011 si è ridotto del 5%.
Fino al 2009, ciò non si è tradotto in un significativo aumento della povertà e della deprivazione grave (stabili al 18,4% e al 7% rispettivamente), grazie al potenziamento degli interventi di sostegno al reddito dei lavoratori (indennità di disoccupazione e assegni di integrazione salariale) e al funzionamento delle reti di solidarietà familiare. Le famiglie hanno tamponato la progressiva erosione del potere d’acquisto intaccando il patrimonio, risparmiando meno e, in alcuni casi, indebitandosi: la quota di persone in famiglie che hanno ricevuto aiuti in denaro o in natura da parenti non coabitanti, amici, istituzioni o altri è passata dal 15,3% del 2010 al 18,8% del 2011 e, nei primi nove mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate è passata dal 2,3% al 6,5%.
Con il perdurare della crisi, nel 2011 la situazione si è deteriorata, lo conferma l’impennata degli indicatori di deprivazione materiale; la grave deprivazione aumenta di 4,2 punti percentuali, passando dal 6,9% all’11,1%, preceduta da un incremento, nel 2010, del rischio di povertà (calcolato sul reddito 2010) nel Centro (dal 13,6% al 15,1%) e nel Mezzogiorno (dal 31% al 34,5%) e da un aumento della disuguaglianza del reddito (il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% più ricco della popolazione e il 20% più povero dal 5,2 sale al 5,6).
RELAZIONI SOCIALI
Bassa fiducia negli altri, reti familiari sovraccariche,
reti sociali importanti ma non dappertutto
Per tradizione nel nostro Paese risultano forti le solidarietà “corte” e i legami “stretti”, in particolare quelli familiari. La famiglia, nei momenti critici, ma anche nello svolgimento delle normali attività quotidiane, rappresenta una rete di sostegno fondamentale, un punto di riferimento importante che – con tutti i limiti e le difficoltà imposti dalle recenti trasformazioni sociali ed economiche – sembra ancora funzionare e soddisfare in misura rilevante gli italiani.
La soddisfazione dei cittadini per le relazioni familiari è tradizionalmente elevata nel nostro Paese. Nel 2012, sono il 36,8% le persone di 14 anni e più che si dichiarano molto soddisfatte per le relazioni familiari; a questi si aggiunge un 54,2% che si dichiara abbastanza soddisfatto. Tuttavia, il carico del lavoro di cura che ne deriva – soprattutto per le donne – rischia di diventare eccessivo, anche a causa della carenza di alcuni servizi sociali.
Intorno alla famiglia si tesse una rete di relazioni con parenti non conviventi e amici, che svolge un ruolo fondamentale nella dotazione di aiuti sui quali individui e famiglie sono abituati a contare. Nel 2009, quasi il 76% della popolazione ha dichiarato di avere parenti, amici o vicini su cui contare e il 30% ha dato aiuti gratuiti. L’associazionismo e il volontariato rappresentano una ricchezza per il nostro Paese, che non è però distribuita su tutto il territorio ed è meno presente nel Mezzogiorno, cioè dove i bisogni sono più gravi. In particolare, dichiara di svolgere attività di volontariato il 13,1% della popolazione di 14 anni e più residente nel Nord a fronte di una quota che nel Mezzogiorno si colloca al 6% e di una media nazionale del 9,7%.
Al di là di queste reti ci sono “gli altri”, la società più ampia, verso la quale emerge una profonda diffidenza da parte dei cittadini. Nel 2012, solo il 20% delle persone di 14 anni e più ritiene che gran parte della gente sia degna di fiducia, valore in calo rispetto al 2010 (21,7%); tale quota scende al 15,2% nelle regioni del Mezzogiorno. L’Italia è, inoltre, uno dei paesi Ocse con i più bassi livelli di fiducia verso gli altri: le persone quindi non si sentono sicure e tutelate al di fuori delle reti di relazioni familiari e amicali. In particolare, l’Italia mostra una fiducia molto inferiore rispetto a paesi come Danimarca e Finlandia, dove la quota di persone che esprime fiducia negli altri raggiunge il 60%.
Viviamo, dunque, in una società in cui la presenza di reti sociali, familiari e di volontariato non è sufficiente a garantire un tessuto sociale forte a copertura dei bisogni primari della popolazione, specialmente delle fasce sociali più deboli. Nel Sud e nelle Isole, in particolare, tutte le forme di reti sociali appaiono più deboli rispetto al resto del Paese e la fiducia negli altri raggiunge il minimo. Peraltro, un Paese con un problema di scarsa fiducia tra i cittadini può incontrare maggiori difficoltà a creare le condizioni per una vita economica e sociale pienamente soddisfacente.
POLITICA E ISTITUZIONI
Politica sempre più distante dai cittadini
Sfiducia nei partiti, nel Parlamento, nei consigli regionali, provinciali e comunali, nel sistema giudiziario. Una sfiducia trasversale che attraversa tutti i segmenti della popolazione, tutte le zone del Paese, le diverse classi sociali. A marzo 2012, il dato peggiore sul fronte della fiducia dei cittadini verso le istituzioni riguarda i partiti politici: la fiducia media dei cittadini verso i partiti politici, su una scala da 0 a 10, è pari ad appena 2,3; seguono il Parlamento (3,6), le Amministrazioni locali (4) e la Giustizia (4,4). Le sole “istituzioni” verso le quali i cittadini esprimono fiducia sono i Vigili del fuoco e le Forze dell’ordine, che insieme raggiungono 7,1, come media tra i Vigili del fuoco (8,1) e le Forze dell’ordine (6,5).
In una tale situazione non sorprende che la partecipazione politica sia bassa e in diminuzione. Nel 2009, in occasione delle ultime elezioni europee, il tasso di partecipazione al voto è stato pari al 65,1% (era l’85,7% nel 1979). Va però notato come tale partecipazione si esprima a diversi livelli, non necessariamente l’interesse per la cosa pubblica si traduce in attività di sostegno alla politica in senso stretto, ma si esercita anche con l’informarsi e lo scambiare opinioni sui temi della Res Publica. Nel 2012 rimane stabile al 67% la popolazione di 14 anni e più che partecipa alla vita civile e politica, cioè parla o si informa di politica almeno una volta settimana o partecipa on line almeno una volta negli ultimi tre mesi. A questo proposito, pur evidenziandosi un aumento dal 12 al 17,4% dei cyber citizens, cioè di coloro che si informano attraverso Internet soprattutto tra i giovani, ancora una parte ampia della popolazione non partecipa in alcuna forma alla politica e il parlare e l’informarsi di politica è in diminuzione.
Nel complesso i cittadini sembrano essere lontani dalla politica. Le donne soprattutto la vedono come una dimensione estranea ai propri interessi. Il che non sorprende, visto che la presenza delle elette nelle assemblee parlamentari e nei luoghi decisionali più importanti della sfera pubblica e privata continua a permanere molto bassa, come del resto la presenza giovanile in Parlamento. Lo squilibrio di genere in Parlamento e nei Consigli Regionali continua ad essere particolarmente marcato: nelle elezioni del 2008 le donne elette in Parlamento erano appena il 20,3% e anche nei Consigli regionali la quota di donne elette è molto bassa (il 12,9% nel 2012). Ad agosto 2012 è al femminile solo il 10,6% dei componenti dei consigli d’amministrazione delle società quotate in Borsa, una percentuale in aumento (4,5% nel 2004) per effetto dell’approvazione della legge sulle “quote rosa” che obbliga le aziende a un riequilibrio della rappresentanza.
SICUREZZA
I reati sono diminuiti mentre aumenta il senso d’insicurezza
A partire dagli inizi degli anni Novanta la criminalità registra una generale diminuzione sia per i reati contro il patrimonio che per gli omicidi. Per gli omicidi, i furti di auto e gli scippi il trend decrescente è stato continuo (dal 1992 al 2011 i tassi per 100.000 abitanti passano per gli omicidi da 2,6 a 0,9, per gli scippi da 100,2 a 29,1, per i furti di autoveicoli da 572,6 a 327,3). Per i borseggi il calo si è interrotto nel 1998 e negli anni successivi l’andamento è rimasto oscillante. Per i furti in abitazione, il trend è in crescita dal 2006 (con forte variabilità), dopo la decisa flessione registrata fino ai primi anni Duemila (da 341 nel 1992 a 296 nel 2002). Il calo delle rapine si interrompe già nel 1995 (da 55,9 del 1992 a 50,3 nel 1995) quando si evidenzia un’importante ripresa che dura fino al 2007 (86,2) e si interrompe negli anni successivi. Sulla base dei dati recenti, nel 2011 borseggi e furti in appartamento sembrano essere nuovamente in crescita.
Dal 2002 al 2009 il senso d’insicurezza aumenta in tutte le classi di età, in modo più accentuato fra le donne (la quota di persone che si sentono molto o abbastanza sicure passa da 64,6% a 59,6%). Il senso d’insicurezza della popolazione non deriva necessariamente dal livello di diffusione della criminalità, ma anche dal degrado del contesto in cui si vive: era pari al 15,6% nel 2009 la percentuale di cittadini che hanno visto spesso situazioni di degrado nella propria zona. Le donne sono particolarmente impaurite dal rischio di subire una violenza sessuale, paura che accomuna più di metà del loro genere (52,1%), in decisa crescita rispetto al 2002 (45%). D’altro canto la violenza contro le donne, anche se poco denunciata, è un fenomeno ampio e si esprime sotto varie forme: fisica, sessuale, psicologica dentro e fuori la famiglia. Mentre gli omicidi di uomini diminuiscono, ciò non accade per i femminicidi.
BENESSERE SOGGETTIVO
Buona la soddisfazione per la vita, anche se in calo nell’ultimo anno
Gli italiani tracciano un bilancio prevalentemente positivo della propria esistenza, ma le incertezze sulla situazione economica e sociale influenzano negativamente non solo i comportamenti, ma anche le percezioni. Fino al 2011, infatti, quasi la metà della popolazione di 14 anni e più dichiarava elevati livelli di soddisfazione per la propria vita nel complesso, indicando punteggi compresi tra 8 e 10 (su una scala da 0 a 10). Nel 2012, però, i segnali di disagio, crisi e insicurezza, già registrati dagli indicatori economici classici, hanno inciso significativamente anche sulla misura della soddisfazione complessiva. La quota di popolazione che indica alti livelli di soddisfazione per la vita nel complesso scende, infatti, dal 45,8% del 2011 al 35,2% del 2012.
Aumentano anche i divari territoriali e sociali nella diffusione del benessere soggettivo e se ne creano di nuovi. La soddisfazione per la propria vita decresce in misura maggiore nel Sud, attestandosi al 29,5% (contro il 40,6% del Nord), e tra le persone con titolo di studio più basso e peggiori condizioni occupazionali.
Nonostante il contesto non facile, nel 2012 una prospettiva di miglioramento per il futuro viene indicata da un quarto della popolazione di 14 anni e più. Una dimensione fondamentale della qualità della vita, quella del tempo libero, pur essendo ritenuta molto soddisfacente da una quota di popolazione non elevatissima (15,6%), non sembra essere coinvolta nella flessione della soddisfazione per la vita nel complesso registrata nel 2012. Anzi, rispetto all’anno precedente la quota di coloro che si dichiarano molto soddisfatti per il proprio tempo libero cresce su tutto il territorio nazionale, con una dinamica più favorevole nel Nord e nel Mezzogiorno. L’andamento positivo rilevato a livello nazionale riguarda anche altri ambiti della vita quotidiana che coinvolgono le relazioni amicali e familiari.
La soddisfazione riguardante la propria situazione economica registra invece un netto peggioramento: a fronte di una stabilità al 2,5% della quota di chi si dichiara molto soddisfatto, aumenta non solo quella di chi è poco soddisfatto (dal 36,1% al 38,9%), ma anche la quota di chi non è affatto soddisfatto della propria situazione economica (dal 13,4% al 16,8%), a scapito di quella di chi è abbastanza soddisfatto (dal 45,9% al 40,3%).
PAESAGGIO E PATRIMONIO CULTURALE
Una grande ricchezza non sufficientemente tutelata
Il patrimonio culturale del nostro Paese, frutto congiunto di una straordinaria stratificazione di civiltà e della ricchezza e diversità dei suoi quadri ambientali, rappresenta un valore inestimabile per la collettività. La lunga e complessa continuità storica dell’insediamento umano su un territorio relativamente piccolo e fortemente eterogeneo dal punto di vista climatico e geomorfologico ha prodotto, infatti, un’accumulazione di beni culturali e un mosaico di paesaggi umani unici al mondo per consistenza e rilevanza, con 47 siti nazionali iscritti come “patrimonio dell’umanità” nella World Heritage List dell’Unesco e una densità di beni culturali – monumenti, musei, siti archeologici, ecc.– che supera i 33 beni censiti per 100 chilometri quadrati. Tuttavia, il patrimonio storico e artistico soffre, oltreché delle contenute risorse economiche destinate al settore (la spesa pubblica che l’Italia destina alle attività culturali è pari allo 0,4% del Pil), di un insufficiente rispetto delle norme (oltre 15 abitazioni abusive ogni cento costruite legalmente) e di una non puntuale azione di controllo da parte delle Amministrazioni: il paesaggio è minacciato da una continua e spesso incontrollata espansione edilizia tanto che le regioni agrarie affette da urban sprawl rappresentano, in superficie, il 20% del territorio nazionale. A questo si aggiungono le conseguenze negative determinate dalle radicali trasformazioni dell’agricoltura, con l’erosione delle aree agricole attive a causa della dismissione delle colture e lo spopolamento, che incidono sul 28,3% del territorio.
Il disagio che ne deriva è avvertito da una quota non marginale della popolazione italiana, in termini di insoddisfazione per il paesaggio nel luogo di vita (il 18,3% dei cittadini) e, più generale, di preoccupazione per il depauperamento delle risorse paesaggistiche (20,4% nel 2012, contro il 15,8% del 1998): un segnale allarmante per quello che per secoli è stato identificato come “il giardino d’Europa”.
AMBIENTE
Qualche segnale positivo anche se persistono le criticità
Il benessere delle persone è strettamente collegato allo stato dell’ambiente in cui vivono, alla stabilità e alla consistenza delle risorse naturali disponibili. Di conseguenza, per garantire e incrementare il benessere attuale e futuro delle persone è essenziale ricercare la soddisfazione dei bisogni umani promuovendo attività di sviluppo che non compromettano le condizioni e gli equilibri degli ecosistemi naturali.
In Italia emergono segnali contraddittori rispetto alla qualità del suolo e del territorio: in particolare, aumenta la disponibilità di verde urbano (rispetto al 2000, nei capoluoghi di provincia sono fruibili 3,1 metri quadrati in più per ogni abitante) e delle aree protette, ma il dissesto idrogeologico rappresenta ancora un grave rischio naturale distribuito su tutto il territorio nazionale. A questo va aggiunto il rischio per la salute e per l’ambiente naturale dovuto all’inquinamento presente in diverse aree del nostro Paese, le quali devono essere sottoposte ad azioni di messa in sicurezza e risanamento. A riguardo sono stati definiti 57 siti di interesse nazionale da bonificare, per un totale di 545 mila ettari, ossia l’1,8% del territorio nazionale.
Anche l’acqua e la qualità dell’aria sono aspetti fondamentali che riguardano direttamente il benessere e la salute umana. I consumi di acqua potabile, 253 litri per abitante al giorno nel 2008, sono in linea con quelli europei e si mantengono in media pressoché costanti dal 1999, ma permane una dispersione del 32% dovuta a inefficienze delle reti di distribuzione.
Nel 2011, il numero di giorni di superamento del livello di PM10, cioè di micro particelle inquinanti nell’atmosfera delle maggiori città italiane, si è attestato a 54,4 giorni, in aumento rispetto ai 44,6 del 2010, con conseguenze negative per la protezione della salute umana.
Aumentano i consumi di energia da fonti rinnovabili, dal 15,5% del 2004 al 23,8% del 2011, un livello superiore alla media Ue27 (19,9%). In diminuzione risulta il consumo di risorse materiali interne, anche se è troppo presto per parlare di una tendenza alla “dematerializzazione” dell’economia italiana. L’andamento delle emissioni antropiche di gas climalteranti, derivanti dalle attività produttive e dai consumi finali delle famiglie, è in diminuzione: da 10 tonnellate di CO2-equivalente per abitante del 2003-2004 si è scesi a poco più di otto del 2009, anno nel quale anche la crisi economica ha influito sulla riduzione del fenomeno.
RICERCA E INNOVAZIONE
Nella ricerca imprese ancora distanti dalla media europea
L’Italia si distanzia notevolmente dai Paesi europei più avanzati in termini di ricerca e brevetti, ma si posiziona meglio in termini di propensione all’innovazione delle imprese. Il rapporto tra spesa per ricerca e sviluppo (R&S) e Pil è fermo a 1,3% a fronte di una media europea del 2% e un obiettivo del 3%. Più della metà della spesa è sostenuta dalle imprese, ma l’obiettivo europeo che prevede un significativo impegno dei privati nella ricerca è ancora distante. Anche il numero di brevetti è solo di 73,3 per milione di abitanti contro una media europea di 108,6.
In Italia, i settori ad alta tecnologia coinvolgono il 3,3% degli occupati (il 3,8 in Europa) e i lavoratori della conoscenza rappresentano solo il 13,3% degli occupati (contro il 18,8). I settori con una più spiccata propensione verso innovazione e ricerca costituiscono un importante fattore di crescita economica e di aumento della produttività del sistema, e possono offrire un contributo diretto al miglioramento della qualità della vita dei cittadini.
Nel triennio 2008-2010 le imprese italiane hanno, tuttavia, introdotto innovazioni di prodotto, di processo, organizzative o di marketing nel 54% dei casi, collocandosi al di sopra della media europea (49%).
Per quanto riguarda la diffusione della conoscenza tecnologica, l’utilizzo di Internet è aumentato negli ultimi anni fino a coinvolgere il 54% della popolazione, ma rimane 16 punti sotto la media europea. Inoltre, il divario tecnologico che vede sfavorito il Mezzogiorno, gli anziani, le donne e le persone con bassi titoli di studio è ancora forte e non mostra segnali significativi di miglioramento.
QUALITÀ DEI SERVIZI
Ancora ritardi, con significativi progressi
In fatto di servizi garantiti agli abitanti, la realtà italiana offre un quadro di luci e ombre. La qualità dei servizi sociali non è sempre adeguata, anche se ha visto significativi miglioramenti nel tempo. La lunghezza delle liste d’attesa resta un ostacolo importante all’accessibilità del Servizio sanitario nazionale. D’altra parte, negli ultimi anni la quota di anziani trattati in Assistenza domiciliare integrata è raddoppiata e molti più bambini sono stati accolti in strutture pubbliche per la prima infanzia, anche se la quota di bambini che usufruisce di questi servizi è ancora esigua (il 14%). Il Mezzogiorno permane in una situazione peggiore del resto del Paese.
Migliora l’erogazione dei servizi di pubblica utilità, quali gas ed elettricità, così come quella dell’acqua. La quota di famiglie che lamenta irregolarità nella distribuzione dell’acqua scende dal 17% del 2004 all’8,9% nel 2012, anche se rimane critica la situazione di Calabria e Sicilia dove ancora più di un quarto della popolazione denuncia interruzioni del servizio.
Si sono fatti grandi passi avanti nella differenziazione dei rifiuti, arrivata al 35,3%, ma il Paese è ancora lontano dagli standard dei migliori paesi europei: di conseguenza, una quantità di rifiuti troppo elevata (quasi la metà) è destinata alle discariche. Anche il trasporto pubblico ha visto un lieve incremento della propria dotazione infrastrutturale, che però non ha ridotto di molto il tempo (76 minuti) che le persone devono dedicare quotidianamente agli spostamenti.
Infine, va evidenziata la situazione che si vive nelle carceri italiane, dove il sovraffollamento è elevato (139,7 detenuti ogni 100 posti letto) e non permette un’adeguata condizione di vita per i detenuti.