Scuola digitale, il problema della troppa fretta: che cosa resterà di questi mille giorni

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Le dimissioni del governo ci portano, inevitabilmente, a chiederci cosa resterà di questo periodo per la scuola italiana. Il problema non risiede tanto nelle azioni immaginate o, più semplicemente, aggiornate e messe a sistema. Tutte più o meno sensate e funzionali al design complessivo, quantunque in più di un caso, a causa della loro formulazione, portatrici di criticità. Il problema principale è stata la fretta, che notoriamente è cattiva consigliera, con cui si è cercato di attuarle

9 Dicembre 2016

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Carlo Giovannella, Università Roma Tor Vergata, Smart Learning Ecosystems and Regional Development

Le dimissioni del governo ci portano, inevitabilmente – parafrasando Raf – a chiederci cosa resterà di questo periodo a dir poco pirotecnico per la scuola italiana.
L’interrogativo è tanto più lecito se si considera che la Buona scuola – non sarà sfuggito ai più attenti – non è stata inserita tra le leggi di cui Renzi ha rivendicato la paternità in occasione del discorso notturno post-referendario in cui ha annunciato l’intenzione di dimettersi.
La Buona scuola, per altro, non è stata neppure oggetto di particolare attenzione da parte di chi si è impegnato in una campagna elettorale in cui si è discusso di tutto e di più, ben oltre il contenuto specifico del referendum.
Il rischio che si intravvede è quello di una riforma che potrebbe ben presto restare senza padrini e di una scuola che potrebbe, di conseguenza, cadere in un limbo operativo in attesa che la compagine del nuovo titolare del dicastero proceda con un’inevitabile rimescolamento delle carte per marcare il territorio elasciare il segno.
Nonostante le tante problematiche la Buona scuola e quanto ne è seguito – es. PNSD – hanno dei meriti che non possono essere disconosciuti e che, anzi, vanno difesi. Il più grande merito è quello di aver sviluppato un approccio sistemico in cui per la prima volta, a mia memoria, si è cercato di sviluppare una cornice di riferimento all’interno della quale inquadrare e collegare tutte le azioni che, poi, si sarebbero intraprese in futuro. La propensione al design sistemico non è molto diffusa in un paese come il nostro, in cui si è abituati a procedere per pezze e toppe, ed è la base della reale innovazione. Da sola, però, non basta.

Assieme all’approccio sistemico vanno altresì difesi almeno due aspetti strategici: puntare sul “digitale” per agganciare il processo di modernizzazione della scuola ai processi che, volenti o nolenti, stanno trasformando la nostra società; puntare su un più stretto collegamento tra scuola e mondo del lavoro rivitalizzando le ragioni del pragmatismo all’interno di un impianto scolastico che è ancora oggi fortemente idealista e ancorato al primato della teoria.
Come già messo in evidenza in passato, all’approccio strategico complessivo è mancata, forse, la capacità di accompagnare le azioni finalizzate a sostenere lo sviluppo territoriale con azioni altrettanto forti e decise dedicate allo sviluppo del capitale sociale e, dunque, al sostegno di una più intensa e significativa interazione tra le agenzie formative (scuola, famiglia, territorio).
Tuttavia anche un ragguardevole approccio strategico, fosse anche stato perfetto, non può bastare a determinare il successo di una riforma.

Vision e approccio strategico, infatti, vanno trasformate in operatività ed è su questo aspetto che emergono le note più dolenti.
Il problema non risiede tanto nelle azioni immaginate o, più semplicemente, aggiornate e messe a sistema. Tutte più o meno sensate e funzionali al design complessivo, quantunque in più di un caso, a causa della loro formulazione, portatrici di criticità.

Il problema principale è stata la fretta, che notoriamente è cattiva consigliera, con cui si è cercato di attuarle.
L’adozione di un approccio “agile” alla progettazione, ovvero quello dell’innovazione e dei cantieri aperti, purtroppo, nel caso di un sistema così complesso e disomogeneo come quello della scuola italiana, non è stato sufficiente per porre rimedio a uno degli errori più banali che un gruppo di progetto possa compiere nella fase di problem setting: il non approfondire a sufficienza la conoscenza del contesto oggetto della futura azione di design, anche al fine di individuare priorità e tempistiche adeguate alla successiva fase di attuazione.

E’ vero che si è proceduto dando vita a una consultazione pubblica e a successivi tavoli di co-progettazione, è vero che sono state effettuate tante visite presso realtà scolastiche più o meno avanzate ma, probabilmente, non ci si è resi conto che si era stabilito un contatto e una collaborazione proficua solo con le cosiddette avanguardie dell’innovazione, e probabilmente solo con la parte più avanzata di esse. Un po’ abbagliati dallo sbrilluccicare di questo contatto, un po’ spinti dalla comprensibile pulsione giovanile del fare e un po’ dalla necessità di conseguire risultati in tempi brevi si è pensato che si potesse procedere avelocità sostenuta, inondando la scuola di richieste e proposte di attività.
Inutile riproporre qui le tante osservazioni e analisi critiche che con spirito costruttivo sono state elaborate dai molti che con passione hanno pubblicato in questo think tank virtuale per sostenere l’azione deiprofessionisti riflessivi che tutti immaginavamo operassero all’interno del MIUR. Per riassumere in maniera paradigmatica gli effetti di un problem setting deficitario e di una velocità eccessiva è sufficiente fare riferimento all’ultimo intervento di Silvia Mazzoni che, conoscendo molto bene la scuola dal suo interno, punta il dito sull’aumento del divario delle opportunità.

Purtroppo i limiti posti dalla diffusa impreparazione del personale scolastico ad affrontare le azioni messe in campo dalla riforma, oberato per altro dall’urgenza della quotidianità, emergono in tutta la loro evidenza.
I processi di innovazione hanno bisogno di early adopters e di evangelizzatori ma hanno anche bisogno di un’adeguata preparazione culturale affinché possano essere accettati socialmente, cosicché l’innovazione da in fieri possa divenire reale.
Chi conosce la scuola in tutte le sue sfaccettature sa bene quanto il cambiamento culturale sia lento e vada sostenuto e alimentato giorno dopo giorno. Innovatori digitali e team dell’innovazione, sulla cui preparazione si potrebbe aprire un dibattito, non hanno la bacchetta magica e non sono in grado di generare l’auspicato cambiamento in pochi mesi.

Fondamentale è la gestione del cambiamento, fondamentale è la figura dei DS e la loro capacità di coinvolgimento, fondamentale – in mancanza di adeguati compensi – è la motivazione e l’impegno sociale di tutte le parti, fondamentale è un’adeguata formazione … ma più che al digitale, al progetto e al governo del processo di cambiamento, a cui il digitale dovrà fornire infrastrutture, semplificazione e potenziamento.
Al momento, purtroppo, per come è stata impostata la formazione del personale scolastico il risultato percepito – tolte le avanguardie di cui sopra – è quello di aver fatto apprendere a chi ha seguito i corsi, e in modo disomogeneo, un gergo, una sorta di latinorum tecnologico e a volte metodologico, troppo spesso scollegato da un’adeguata progettualità e dalla capacità di mettere in campo opportune strategie didattiche e gestionali.

L’effetto della fretta emerge in tutta la sua evidenza anche per quel che riguarda alternanza scuola lavoro. I risultati di un processo di autovalutazione – svolto nel corso dell’ultimo trimestre/quadrimestre dell’a.s. 2015-16 in una decina di scuole romane e che ha coinvolto circa 4500 studenti – mettono in chiara evidenza lo stato di impreparazione del sistema, senza nulla togliere alla buona volontà e all’impegno quotidiano dei singoli che si sacrificano per il bene dei loro studenti. L’indicatore di gradimento relativo alle pratiche di alternanza scuola lavoro è quello che assume il valore più basso in tutte le scuole, oscillando tra 4,3 e 6,0 su 10. L’analisi di dettaglio mette in chiara evidenza un problema di governance: una difficoltà a garantire a tutti i propri studenti significative esperienze di alternanza scuola-lavoro, vuoi per la mancanza di relazioni consolidate con il tessuto produttivo territoriale, vuoi per l’impreparazione ad affrontare un processo di elevata complessità organizzativa. Un processo che, come dimostrano di aver compreso gli studenti, richiederebbe la costituzione di gruppi di lavoro in grado di validare strutture, tutor e attività ai fini dell’acquisizione di abilità e competenze. Un processo per affrontare il quale gli studenti dovrebbero ricevere per tempo un’adeguata preparazione.
I dati che emergono da questo processo di autovalutazione ci indicano che andare oltre la comunicazione trionfalistica per sviluppare un’analisi oggettiva dei contesti operativi è il modo migliore per mettere in moto il circolo virtuoso co-progettazione/piani di miglioramento e, quindi, per far trionfare la cultura del buon progetto.

Per chiudere: una delle immagini più emblematiche dell’eccessiva fretta di questi ultimi tre anni resterà l’esultanza della Ministra Giannini per il touch-down su Marte della sonda Schiaparelli … salvo poi rendersi conto che i segnali di ritorno aspettati non arrivavano … e sappiamo tutti perché.

Evitiamo che anche la Buona scuola si schianti. Sarebbe davvero un imperdonabile errore.

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