Crisi di Internet o crisi delle politiche d’innovazione?
Come sapete io comincio in generale dai fatti. E questa volta non sono belli, ma ahimè non sono neanche discutibili perché sono numeri ufficiali. Ce li propone l’Eurostat, l’ufficio statistica dell’Unione Europea, e riguardano l’uso di Internet nei vari Paesi dell’Unione e la relativa penetrazione della banda larga.
10 Dicembre 2008
Carlo Mochi Sismondi
Come sapete io comincio in generale dai fatti. E questa volta non sono belli, ma ahimè non sono neanche discutibili perché sono numeri ufficiali. Ce li propone l’Eurostat, l’ufficio statistica dell’Unione Europea, e riguardano l’uso di Internet nei vari Paesi dell’Unione e la relativa penetrazione della banda larga.
Sono quattro paginette schematiche e senza commenti, ma se la politica non pensasse a “benaltro” (questa volta i benaltristi sono loro!) credo che dovrebbero farla molto riflettere. Nel 2008 cala la diffusione di internet in Italia. Avete capito bene: cala. Si tratta di un caso unico nella Ue. Non c’è bisogno che spieghi perché il problema è serio: ho raccolto da varie fonti un po’ di classifiche sulla posizione, non certo invidiabile, del Paese in tema di innovazione e, come diceva Troisi, “non ci resta che piangere”.
Quanto questo stato di depressione sia correlato poi all’ancora arretrato uso di Internet e all’accesso ancora non pervasivo alla rete in banda larga è chiarito da tutta la letteratura economica in materia. Vi segnalo come particolarmente interessante il lavoro che, sotto la presidenza di Mario Valducci, che pare un politico attento, la IX commissione della Camera ha svolto sotto forma di indagine conoscitiva. Se avrete la pazienza di leggere le 39 pagine del rapporto conclusivo, vedrete che ne valeva la pena.
Ma torniamo alla nostra ricerca Eurostat pubblicata il 2 dicembre e quindi fresca, fresca.
Prima di andare nel dettaglio guardiamo i dati d’insieme.
Abbiamo detto che l’uso di Internet cala in Italia mentre tutti gli altri 27 Paesi sono in aumento nella diffusione tra le famiglie. Le famiglie italiane che accedono alla rete sono, infatti, il 42% rispetto al 43% del 2007. La media Ue è del 60%, in pratica un divario del 18%.
L’inchiesta è stata condotta su persone tra i 16 e i 74 anni. L’Italia si colloca al terz’ultimo posto, peggio del Bel Paese solo la Bulgaria (25%) e la Romania (30%), ma entrambe in veloce crescita rispetto al 2007. Al top l’Olanda (86%), poi Svezia e Norvegia (84%), Danimarca (82%), Lussemburgo (80%) e Germania (75%), Regno Unito (71%).
Segnano il passo anche gli accessi delle famiglie alla banda larga, solo il 31%, contro una media Ue del 48%, peggio solo Romania (13%), Bulgaria (21%), Grecia (22%). Siderale la distanza dell’Italia dalla Germania (55%) e dalla Francia (57%), ma anche dalla piccola Estonia (54%). Al top degli accessi alla banda larga ci sono l’Olanda (74%) e la Repubblica Ceca (74%).
Ma il peggio, a mio parere, viene quando andiamo ad approfondire: vediamo i principali usi. Cominciamo con il meno peggio: nell’uso di Internet per prenotare viaggi o alberghi non stiamo malissimo, si fa per dire perché siamo al 18° posto su 26 (il Belgio non ha partecipato alla rilevazione) con un 20 % della popolazione coinvolta, ma sotto abbiamo la Bulgaria, la Romania, il Portogallo, la Polonia, la Lituania, la Croazia, la Grecia e Cipro e i Paesi nostri concorrenti sono su ben altre posizioni con un 35% della Spagna, un 38% della Francia, un 48% del Regno Unito sino allo stratosferico 61% della Norvegia.
Peggio, molto peggio va se guardiamo, per esempio, ad un tema di grande interesse per l’economia: l’uso dell’internet banking. Qui la situazione è drammatica: siamo al 22° posto su 26 . Dietro a noi, che contiamo appena sul 13% della popolazione, abbiamo solo Cipro, la Grecia, la Romania e la Bulgaria, da lontano ci guardano i nostri partner fondatori dell’Unione: 40% la Francia, 48% il Lussemburgo, 69% l’Olanda e così via.
Ma veniamo al tema che è più vicino ai lettori di questa newsletter: il rapporto con la PA. Bene, dopo anni che parliamo di e-government, che ci diciamo, compiaciuti, che in fondo per tante cose siamo stati precursori, dopo tanti convegni, eccoci qui. Al 21° posto su 26 con un misero 15% della popolazione che ha interagito negli ultimi tre mesi con qualche istituzione pubblica. Guardandoci indietro c’è poco da ridere: abbiamo solo Bulgaria, Romania e Grecia abbastanza distanziate e poi Croazia e Repubblica ceca molto vicine. La media europea (dei 26 membri partecipanti all’indagine) è del 28% (quasi il doppio che da noi), ma i Paesi a maggiore popolazione come Francia (43%), UK (32%), Germania (33%) sono ben distanti, e non possiamo neanche confrontarci con i Paesi in cui l’e-government è una realtà e non il titolo di qualche proclama: 62% della Norvegia, 54% dell’Olanda, 53% della Finlandia, ecc.
Potrei fare lo stesso giochetto per tutti gli items: la peggior performance (24° posto avanti solo a Romania e Bulgaria – ma fino a quando?-) è nel leggere i giornali e informarci, ma si sa (e ahimè si vede) che l’informazione oggettiva non è una passione nazionale. Siamo un po’ meglio (15° posto) solo nel leggere i blog e nel crearli (14° posto), mentre va malissimo anche per le informazioni sulla nostra salute (21° posto) o per cercare un lavoro (21° posto) o per l’uso di Internet nelle video-chiamate (19° posto).
Che dire? Un inguaribile ottimista direbbe che abbiamo ampi margini di miglioramento, uno un po’ più realista, come me, dice che è un vero disastro di cui la principale colpevole è l’assenza da parte di tutti i Governi, almeno dal 2000, di una seria politica di innovazione che duri nel tempo con coerenza, che punti sui nuovi consumi anche intellettuali, che veda nella rete non una tecnologia come le altre, ma la grande occasione per la crescita del capitale sociale del Paese.
Per chi vuole avere una vaga idea di come si fanno le politiche in questo campo guardi i nostri vicini o anche, proprio in queste ore, le dichiarazioni di Barack Obama (tanto ammirato, ma certo non copiato da noi, come vi abbiamo segnalato la settimana scorsa!) che lancia un grande New Deal per lo sviluppo di Internet e dell’America in Internet.
Invece da noi non solo le politiche non si fanno, ma quel che è peggio non si sa neanche chi le dovrebbe fare: volete ridere di un riso amaro? Andatevi a guardare l’aggiornamento su Internet della maggioranza delle pagine che il CNIPA dedica alle sua attività. Se va bene sono vecchie di un anno! Io sono certo che lì lavorino belle professionalità e che ci siano anche grandi potenzialità, ma come si fa a farle rendere sotto la spada di Damocle di una ristrutturazione su cui il Governo ha avuto una delega senza neanche dire che ha in mente? Se incontrate qualcuno dei dirigenti di questa struttura – che ha la missione di “contribuire alla creazione di valore per cittadini e imprese da parte della Pubblica Amministrazione, fornendo a questa supporto nell’uso innovativo dell’informatica e più in generale dell’ICT “- chiedetegli come va. Vi risponderà scuotendo la testa che “è tutto fermo!”. Ma ce lo possiamo permettere?
Ne volete un’altra? Il sito del Ministero di Brunetta è spumeggiante di cose e di iniziative. Solo un titoletto lì sulla destra è fermo dal precedente governo e non si sposta: riguarda però non una cosa da poco, ma le regole tecniche per la dematerializzazione e il flusso documentale. Insomma il cuore della PA digitale. Una commissione mai più riunita, una proposta di regole tecniche che giace lì da un anno, l’insieme degli Enti (soprattutto le regioni) che giustamente vanno avanti da sole. Ma ce lo possiamo permettere?
Non crediate che parli d’altro, quando le politiche non si fanno o si stoppano come succede in questi casi (…e vi prometto tra breve una chicca: un dossier sul caso dei casi, quello della Carta di Identità elettronica!), allora viene meno la fiducia nell’innovazione sia da parte dei cittadini che degli operatori della PA: da qui e non da un destino crudele arrivano i numeri che ahimè abbiamo visto.
E così in ordine sparso, a volte litigando come i polli di Renzo, si va avanti senza un’idea federatrice di come dovrebbe essere questo Paese da qui a dieci anni, senza un progetto paese che polarizzi l’impegno delle forze migliori che pure ci sono nella politica, nella PA, nella ricerca, nelle Università, nelle imprese, nel privato-sociale.
Quando Giuseppe De Rita, nelle considerazioni generali del suo 42° rapporto Censis, parla di una “seconda metamorfosi” possibile per gli italiani che, spinti dalla crisi e dai cambiamenti sociodemografici, possono mettere di nuovo a frutto la loro capacità di cambiamento, io penso a questa idea Paese che deve farsi strada e un po’ di speranza la ritrovo (sul nostro sito c’è anche il video relativo).
Mi piace chiudere con le parole finali di De Rita:
Diamo spazio alla metamorfosi, garantendole più soggetti, più tempo, più dinamica di mercato: non un potere accentrato e solo, ma un potere accompagnato dalla ricchezza delle relazioni; non una decisionalità rattrappita al presente, ma una decisionalità accompagnata dalla ricchezza dell’immaginazione.
Speriamo che non sia voce che grida nel deserto.