Innovazione sociale e smart city

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"Non ha più alcun senso ragionare di istituzioni pubbliche senza aver presente le necessarie intersezioni con i diversi soggetti presenti in ciascuna comunità. Siano essi attori principali di processi in atto o in fieri, siano essi partner o fruitori di servizi erogati dalle amministrazioni pubbliche". Partendo dall’evento su innovazione sociale e smart city del 31 ottobre scorso Stefano Sepe e Ersilia Crobe propongono una interessante riflessione sui percorsi partecipativi e collaborativi verso cui guidare il governo della cosa pubblica.

4 Dicembre 2012

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Stefano Sepe e Ersilia Crobe

"Non ha più alcun senso ragionare di istituzioni pubbliche senza aver presente le necessarie intersezioni con i diversi soggetti presenti in ciascuna comunità. Siano essi attori principali di processi in atto o in fieri, siano essi partner o fruitori di servizi erogati dalle amministrazioni pubbliche". Partendo dall’evento su innovazione sociale e smart city del 31 ottobre scorso Stefano Sepe e Ersilia Crobe propongono una interessante riflessione sui percorsi partecipativi e collaborativi verso cui guidare il governo della cosa pubblica.

L’incontro sul tema "Innovazione sociale e smart city" che si è tenuto il 31 ottobre scorso nell’ambito di Smart City Exhinition 2012, è stata l’occasione per non ridurre il dibattito sulla smart city a mera dimensione tecnologica e per ragionare su come l’innovazione nelle città – e delle città, secondo quanto auspicato da Piero Bassetti – possa contribuire allo sviluppo di nuovi metodi di risoluzione di problemi socialmente rilevanti e, più in generale, al progresso delle società contemporanee.

Il confronto tra attori istituzionali ed esperienze di natura funzionale ha sollecitato la riflessione su un punto “vitale” per il futuro delle istituzioni: come gestire il cambiamento e l’innovazione sociale coralmente. In che modo il settore pubblico e quello privato, inteso non solo come mondo d’impresa ma anche come insieme di interessi settoriali e funzionali, possono concorrere ad una nuova formulazione dei confini d’interesse delle due sfere? Oppure si tratta di ricomporre quelle frontiere? È il momento del definitivo superamento della “grande dicotomia” – secondo la definizione di Bobbio – che ha dominato l’organizzazione statuale dell’ultimo secolo?

Le esperienze illustrate arrivano da modelli emergenti dal basso, laboratori territoriali ed esperienze di amministrazioni locali. Da esse emerge, innanzitutto, l’ennesimo segnale della molteplicità e vivacità delle innovazioni possibili. Nel nostro Paese – antropologicamente portato alle municipalità, alla tradizione civica e agli individualismi – le enormi potenzialità dei territori diventano capacità di fare innovazione, le città incubatori di sperimentazioni.

Nel frattempo, risalta come l’elemento in grado di favorire o bloccare tale vivacità sia la pubblica amministrazione. Dalle testimonianze emerge che la legittimazione degli stati contemporanei trova il suo fondamento nelle indifferibili sfide che le amministrazioni post moderne si trovano di fronte. Poiché non si può prescindere dalle istituzioni e dal loro buon funzionamento, la riflessione rimanda ad una inchiesta sul “più” o “meno” bisogno di istituzioni. Prevale, sintetizzando le istanze proposte, la necessità di uno stato “leggero” – sulla scorta delle riflessioni di Miachel Crozier nel 1987 – ma non evanescente, la consapevolezza che un’amministrazione pubblica efficiente rappresenta uno dei pilastri su cui costruire un Paese competitivo. Emerge incalzante la necessità di reinventare funzioni, compiti e scopi. Si tratta, di creare nuove forme di governance, nuove leadership collettive.

Quale nuovo ruolo per le istituzioni? Coordinamento, promozione, valorizzazione delle esperienze di innovazione che arrivano dalle diverse realtà, a partire da quelle territoriali e che, tuttavia, inserendosi in un processo di innovazione e progresso più generale, contribuiscono al bene comune.

Il superamento di un modello rigido-formale e l’affermazione di un paradigma nuovo, la public governance, può produrre le condizioni favorevoli per costruire lo spazio di sintesi necessario, attraverso strumenti nuovi da mettere in campo: governo della rete, amministrazione relazionale, sussidiarietà orizzontale e verticale. I percorsi praticabili sono quelli della collaborazione e della partecipazione. Alle istituzioni si chiede di sostenere le micro realtà (i cosiddetti new players) attraverso una definizione precisa della propria vocazione – legata anche al contesto socio-economico – e politiche maggiormente coerenti con gli obiettivi. Risulta rafforzata la funzione “originaria” di mediazione dei conflitti: la ricomposizione di interessi particolaristici è, in tale contesto di riferimento, ancor più urgente.

“I pubblici poteri son fatti per agire”, scrivevano lapidariamente Meny e Thoenig nell’incipit al volume “Politiques publiques”, del 1989. Questa evidenza rimanda alla definizione di democrazia con la quale Robert Alan Dahl nel 1971 sosteneva che “il regime politico democratico è caratterizzato dalla continua capacità di risposta del governo alle preferenze dei suoi cittadini”. La sfida è aperta, innovare si può, si deve.

Il tema da affrontare rimanda sapientemente alle città intelligenti – intese come comunità delle quali le istituzioni sono una parte – e non (soltanto) ai comuni intelligenti, quali amministrazioni depositarie di gran parte delle funzioni di servizio alla collettività. Un’ottica, di per sé, innovativa perché presuppone che non si possa parlare delle une senza tener conto degli altri, e viceversa.

Non ha più alcun senso ragionare, a qualsiasi livello, di istituzioni pubbliche senza aver presente le necessarie intersezioni con i diversi soggetti presenti in ciascuna comunità. Siano essi attori principali di processi in atto o in fieri, siano essi partner o fruitori di servizi erogati dalle amministrazioni pubbliche.

Per provare a riflettere sul raccordo tra innovazione sociale e città intelligenti, si possono, schematicamente, individuare alcune piste di lavoro sulle quali saranno offerti rapidi spunti. Come elementi per la discussioni, piuttosto che come (inappropriate) conclusioni.

  1. IMPARARE DAI FALLIMENTI nel pubblico e nel privato. Fallimenti che riguardano tanto le politiche messe in atto dai governi, quanto le “visioni del mondo” ad esse sottese. I modelli di “Stato sociale”, risalenti agli anni ’30 dello scorso secolo, che hanno imposto un peso enorme sulle spalle delle generazioni future; le politiche liberiste, in gran voga a partire dagli anni ’80, con la perniciosa illusione di un mercato capace di generare automaticamente benessere; l’abnorme crescita di peso dell’economia finanziaria a discapito di quella legata alla produzione; il “new public management” che intendeva risolvere in puri termini di efficientismo i problemi di funzionalità del settore pubblico.
    È palese che – di fronte agli scenari del cambiamento sociale e per fronteggiare la più grave crisi economica dal dopoguerra ad oggi – serve un nuovo punto di sintesi, che inneschi una nuova dimensione dell’agire dei sistemi pubblici e dei comportamenti dei componenti le comunità.
  2. S/CONNESSIONI. Le società cambiano in fretta, le istituzioni meno. Sotto tale profilo le politiche pubbliche urbane (con al centro il governo del territorio) sono la migliore cartina di tornasole per saggiare il tasso di cambiamento, per sperimentare soluzioni innovative, per attivare la partecipazione.
    In proposito il punto di svolta è costituito dal passaggio (obbligato) dal predominio delle politiche regolative – fondate sull’asse regole/limiti/divieti – all’espansione delle politiche “co-partecipate” mediante le quali si individua e si cerca di risolvere questioni di interesse collettivo. Tali politiche, come si è detto in premessa, non nascono necessariamente per impulso delle istituzioni locali, ma devono trovare in esse un sostegno e/o una partecipazione diretta.
  3. DOVE NASCE L’INNOVAZIONE. È utile ricordare che i tentativi di innovazione – così come le sperimentazioni più riuscite ed efficaci – nel sistema amministrativo italiano sono partiti (quasi sempre) dal basso. Oggi occorre valorizzarne le potenzialità e capirne le applicabilità effettive nei diversi contesti. È necessario, in tali condizioni, capire quali possano essere condizioni per “reggere”, quali i fattori che permettano di evitare che, ancora una volta, i processi innovativi vengano strangolati nella culla. Il “filo rosso” dell’innovazione, da sempre presente nel nostro sistema pubblico, è stato quasi sempre spezzato dalle resistenze interne ed esterne alle istituzioni. È fin troppo ovvio sottolineare come la spinta che proviene dalla società, i livelli di partecipazione indotti da questa spinta siano fattori decisivi per l’esito dei processi di cambiamento in atto.
    La straordinaria messe di proposte, progetti, realizzazioni, sviluppatasi in questi ultimi anni in molte città italiane – anche sulla scorta di esperienze di altri Paesi – trova nello sviluppo delle “reti” un elemento chiave, che va governato e gestito, nella maniera più flessibile possibile, con un occhio perennemente rivolto agli obiettivi delle politiche e alla definizione della “vocazione” di ciascun territorio.
  4. EPPUR SI MUOVE. Il presente e il futuro dell’innovazione digitale. L’articolo 20 del decreto “crescita 2.0” fissa alcuni punti di partenza e definisce – almeno sulla carta – obiettivi e strumenti. Al riguardo una domanda è ineludibile: riuscirà l’Agenzia a essere strumento di regolazione e luogo di coordinamento nazionale mediante la piattaforma? È evidente che, soltanto se la struttura/Agenzia riuscirà a non proporsi come usuale strumento di registrazione burocratica delle esperienza ma saprà porsi come volano dei processi in atto nelle comunità locali, il salto di qualità nell’innovazione delle città potrà ottenere risultati non effimeri.
    Il coordinamento nazionale delle politiche locali è utile se non ingabbierà l’innovazione nelle maglie del sistema istituzionale come è ancor oggi concepito nel nostro paese. A buona ragione, Piero Bassetti sostiene che occorra parlare di smartness “delle” città, piuttosto che “nelle” città. Per arrivare a questo non si può non ripensare dal profondo la stratificazione dei soggetti istituzionali. L’idea di “nuova statualità”, si basa su una visione che sgancia le singole realtà dalla tradizionale suddivisione territoriale, proponendo la loro riaggregazione su un piano funzionale.
  5. IL CONSIGLIERE INASCOLTATO. Sulla “banda ultralarga” sono rimaste del tutto senza riscontro le proposte – formulate già nell’aprile del 2010 dal Cnel – per una “architettura di sistema” che permetta al nostro Paese di superare il digital divide con quelli più avanzati.
  6. QUALE PARTECIPAZIONE, “porte aperte” o “dialogo aperto”? Le molteplici esperienze di cittadinanza attiva, unite a politiche di coinvolgimento concreto dei cittadini possono generare forme di “patto civile” in grado di smuovere anche le realtà inizialmente più arretrate a livello istituzionale. Occorre verificare in quale misura politiche innovative promosse dalle amministrazioni territoriali riescano a modificare i livelli di partecipazione civile e a scalfire i crescenti fenomeni di disaffezione verso le istituzioni.
  7. LE GAMBE DELL’INNOVAZIONE. Per rendere stabili le politiche di innovazione non si può fare a meno di lavorare per costruire le competenze adeguate. Ciò va fatto, partendo dalle strutture educative (università, scuole di formazione per il settore pubblico, ma anche istituti scolastici per una “educazione alla cittadinanza” che cominci dalla scuola primaria) e valorizzando – in ogni settore del tessuto sociale – saperi in grado di innestare e promuovere innovazione.

Soltanto su una base siffatta sarà plausibilmente praticabile l’obiettivo di selezionare e/o scegliere le persone più adatte nella promozione e gestione dei processi di innovazione.

 

 

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