Appalti, come Francia e UK hanno accolto (prima di noi) le direttive Eu
La tempestività del legiferare, in un settore chiave come quello dell’innovazione, rappresenta un fattore cruciale per la buona riuscita delle politiche. In questo modo, infatti, il progresso tecnologico gode di maggiori chances di radicarsi e produrre un circolo virtuoso a beneficio dell’economia, per esempio perché riesce ad attirare maggiori investimenti in ragione della primazia nel realizzare un nuovo prodotto
5 Settembre 2016
Francesco Lazzaro, dirigente del Centro interservizi amministrativi di Bruxelles – Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (*)
L’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti, d.lgs. 18/4/2016, n. 50, è stata accompagnata da forti critiche per l’assenza di un periodo transitorio di messa a regime. Il corposo decreto, infatti, è entrato in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, senza che agli operatori del settore fosse stato concesso un tempo adeguato per “metabolizzare” il complesso articolato.
La ragione di questa scelta risiede nella necessità di rispettare il termine assegnato dal legislatore comunitario: le direttive 2014/24/UE et 2014/25/UE, con le quali sono state ridisegnate le caratteristiche degli appalti pubblici in Europa, prevedevano infatti la trasposizione negli ordinamenti nazionali entro il 18/4/2016. Per rispettare la scadenza, dunque, il Governo si è visto costretto a una convulsa attività finale di limatura del decreto, cui si è coniugata l’eliminazione del tradizionale periodo di vacatio legis. Questa circostanza induce a una curiosità meritevole di essere soddisfatta: come si sono determinati gli altri Stati membri, chiamati a un analogo sforzo di recepimento?
Sono stati presi in esame alcuni casi, con l’obiettivo di focalizzare l’analisi rispetto al più circoscritto tema dell’innovazione nel sistema di procurement.
Un primo esempio degno d’interesse è rappresentato dal caso britannico, peraltro oggetto di aspro dibattito per la recente volontà popolare di abbandonare l’Unione. Ebbene, il disaffezionamento da Bruxelles non ha avuto riflesso sul percorso di adeguamento del diritto interno: le direttive appalti sono state recepite attraverso il “ The Public Contracts Regulations 2015 ”, entrato in vigore il 26 febbraio 2015, oltre un anno prima del nostro d.lgs. n. 50/2016.
Ancora più paradigmatico il caso francese: il partenariato per l’innovazione è stato introdotto nell’ordinamento transalpino già nel settembre 2014, con il decreto n. 2014-1097, recante “ Misure di semplificazione applicabili agli appalti pubblici ”, al fine di dare attuazione alle direttive comunitarie “in maniera accelerata”, e comunque anticipata rispetto all’adozione del nuovo codice degli appalti, che è stato approvato con il decreto n. 2016-360 del 25/3/2016. Rispetto all’Italia, in Francia il partenariato per l’innovazione è quindi diventato realtà un anno e mezzo prima.
La tempestività del legiferare, in un settore chiave come quello dell’innovazione, rappresenta un fattore cruciale per la buona riuscita delle politiche. In questo modo, infatti, il progresso tecnologico gode di maggiori chances di radicarsi e produrre un circolo virtuoso a beneficio dell’economia, per esempio perché riesce ad attirare maggiori investimenti in ragione della primazia nel realizzare un nuovo prodotto, o servizio. Sarà forse un caso, ma il censimento delle esperienze di procurement innovativo in Europa conferma un parallelismo proprio in questo senso. La Gran Bretagna conta almeno sei case studies, l’Italia è purtroppo presente sulla mappa solo grazie al lavoro di CONSIP.
Una seconda prospettiva di comparazione dei diversi modelli di adattamento delle direttive sugli appalti investe le modalità con le quali sono stati redatti gli atti normativi interni. Nel nostro Paese, come noto, la tendenza degli ultimi anni è nel senso del consolidamento codicistico, attraverso la confluenza delle varie disposizioni all’interno di un corpus unico. Una scelta senza dubbio appropriata, che semplifica quanto meno il lavoro di reperimento delle fonti. In Francia, invece, il legislatore ha preferito distribuire la trasposizione delle direttive in una pluralità di provvedimenti, ben quattordici. In alcuni casi ciò si è coniugato alla volontà di anticipare la messa a regime di determinati istituti, come per il partenariato in discorso, mentre in altre circostanze ha favorito la semplicità di lettura delle norme, ma ciò non toglie che il quadro d’insieme resti frammentato e, forse, eccessivamente disperso.
Può forse imputarsi al legislatore italiano una certa permeabilità all’inflazione normativa, che si materializza attraverso testi dilatati nella foliazione e nel contenuto. Con il d.lgs. n. 50/2016, infatti, sono state recepite tutte e tre le direttive che regolamentano il settore (la direttiva 2014/23/UE, strutturata in 55 articoli, per le concessioni; la direttiva 2014/24/UE, che consta di 94 articoli, per i settori ordinari; la direttiva 2014/25/UE, di 110 articoli, per i settori speciali). Il risultato è un testo integrato, ma comunque distribuito in 220 articoli, che ne limitano fortemente la “maneggevolezza” da parte degli operatori.
Volgendo lo sguardo oltreconfine, può allora essere utile segnalare il pragmatico approccio britannico, che poggia su una trasposizione molto fedele dell’originale comunitario, al punto che i due documenti sembrano quasi uguali, differenziandosi per minime modifiche al testo, più che all’impianto.
(*) Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale