Etica (pubblica) per un figlio*
Se il mio figlio piccolo (sedici anni tra pochi giorni) mi desse retta, questa sera, spinto dalle notizie di stampa e dalla visita al sito dei Comuni italiani, gli parlerei di etica pubblica. Comincerei a parlargli delle tasse e gli direi quanto è strano sentire dire oggi, come cosa nuovissima, verità ovvie: ad esempio che chi non paga le tasse deruba il contribuente onesto. Gli direi anche che se in queste settimane è bastato fare qualche controllo “bandiera”, magari un po’ in forma di spettacolo, nei luoghi dei ricchi per dare a tutto il Paese l’impressione che l’aria che tira è cambiata e non c’è più trippa per i gatti furbi, allora probabilmente abbiamo sprecato tanto tempo e forse potevamo evitare di avere un debito pubblico al 120% del PIL che fa di lui, senza che lo sappia e senza il suo permesso, uno dei cittadini europei più appesantito. Poi commenterei con lui la notizia di oggi: che i sindaci hanno deciso che l’evasione fiscale è una cosa che tocca per prima cosa le autonomie locali e che se la lotta non parte da loro allora è destinata all’insuccesso.
29 Febbraio 2012
Carlo Mochi Sismondi
Se il mio figlio piccolo (sedici anni tra pochi giorni) mi desse retta, questa sera, spinto dalle notizie di stampa e dalla visita al sito dei Comuni italiani (www.anci.it), gli parlerei di etica pubblica.
Comincerei a parlargli delle tasse e gli direi quanto è strano sentire dire oggi, come cosa nuovissima, verità ovvie: ad esempio che chi non paga le tasse deruba il contribuente onesto.
Gli direi anche che se in queste settimane è bastato fare qualche controllo “bandiera”, magari un po’ in forma di spettacolo, nei luoghi dei ricchi per dare a tutto il Paese l’impressione che l’aria che tira è cambiata e non c’è più trippa per i gatti furbi, allora probabilmente abbiamo sprecato tanto tempo e forse potevamo evitare di avere un debito pubblico al 120% del PIL che fa di lui, senza che lo sappia e senza il suo permesso, uno dei cittadini europei più appesantito.
Poi commenterei con lui la notizia di oggi: che i sindaci hanno deciso che l’evasione fiscale è una cosa che tocca per prima cosa le autonomie locali e che se la lotta non parte da loro allora è destinata all’insuccesso.
A questo punto certo mi riuscirebbe difficile spiegargli perché un comune virtuoso, uno che magari è riuscito a combattere l’evasione fiscale, ad avere un’amministrazione attenta, persino a risparmiare qualcosa in vista di nuovi investimenti, non possa decidere se investire o meno, non possa decidere se e come assumere dipendenti, non possa decidere se pagare o meno i fornitori e in più debba dare tutti i propri risparmi, togliendoli alle banche del territorio, ad una tesoreria unica dello Stato.
Mi riuscirebbe difficile spiegarglielo perché sto cercando proprio in questi giorni di convincerlo (noi parliamo soprattutto di risultati scolastici e di orari di rientro a casa: i genitori mi capiranno) che autonomia e responsabilità vanno di pari passo. Uno Stato che affida enormi responsabilità agli enti locali, limitando al contempo continuamente la loro autonomia, quali che siano le performance, sarebbe per lui un pessimo esempio.
Poi gli racconterei del ruolo che hanno, per la qualità della nostra vita, le comunità locali e i beni comuni: gli farei l’esempio dei luoghi del suo quartiere, del degrado o della cura con cui sono gestiti, dello sporco endemico dell’ambulatorio pubblico che ha conosciuto e invece della cura con cui, sebbene con troppo pochi fondi, è tenuta pulita la sua scuola, specie da quando la nuova dirigente tutte le mattine controlla.
Gli parlerei della ricchezza di un buon capitale sociale, fatto di un ricco bagaglio di “beni relazionali” e di quanto questa coesione conta per il nostro benessere e gli additerei il ruolo decisivo che ha chi garantisce i diritti di tutti, piuttosto che tollerare la prepotenza di pochi.
Qui magari, per non farla troppo difficile, gli farei vedere dalla finestra le macchine in doppia fila nella nostra strada, i parcheggi per i motocicli occupati dai SUV, i marciapiedi costellati di cacche di cane. Allora mi chiederebbe di chi è il merito o la colpa e mi darebbe così modo di parlargli del federalismo, quello buono, quello fatto di responsabilità condivise, di controllo pubblico, di trasparenza, di partecipazione non fittizia alle scelte.
Se avesse ancora voglia di ascoltarmi mi lancerei infine in una specie di profezia: solo se ripartiremo dai luoghi del vivere comune, dalle comunità locali, da città intelligenti e attente a tutti e a ciascuno, solo se lì riusciremo a sperimentare un progetto Paese fatto di un nuovo welfare responsabile, della lotta ai furbi e agli evasori, di innovazioni tecnologiche che non sono un gadget, ma che accrescono la nostra qualità della vita, di un’amministrazione pubblica semplice e vicina, di integrazione solidale, solo in questo caso la crescita (che così poco mi appassiona se è solo in termini di PIL) diventerà sviluppo sociale e nuove opportunità. Qui metterei giù la carta del suo posto nel mondo: delle cose che toccherà a lui di fare, di scegliere, di denunciare, di promuovere….
…così gli parlerei, se solo mi desse retta!
(* come non ripensare al bellissimo libro del filosofo spagnolo Fernando Savatèr “Etica per un figlio”; Bari, Laterza, 1992)