Contributo “C’era l’acca” di P. Colli Franzone
L’antefatto è rappresentato dal paper “Fare rete!” di Carlo Mochi e dalla sua premessa: ragionamento chiaro e lineare, forse non troppo breve.
2 Novembre 2010
Paolo Colli Franzone
L’antefatto è rappresentato dal paper “Fare rete!” di Carlo Mochi e dalla sua premessa: ragionamento chiaro e lineare, forse non troppo breve.
Il fatto che non sia breve non è un problema, anzi: abbiamo chiaro in mente credo tutti quanti che su temi quali la crisi, la ripresa, la competitività, valga la pena di consumare una quantità di bit almeno pari a quella che – su altri fronti e in altri luoghi di discussione – viene spesa per aggiornare la nazione su tutti i dettagli relativi alla squallida “Twin Peaks” in salsa di Avetrana.
Il fatto vero è che qui, nel nostro piccolo mondo dell’innovazione, “manca il cadavere”. Manca il plastico della casa dei misfatti da esibire a “Porta a Porta”.
La parte brutta della notizia è che, se si va avanti così, il cadavere e il plastico ce li troveremo davanti agli occhi nel giro di pochi anni. Mesi, forse.
Eccolo, il plastico: un’industria ICT a pezzi, nervosa come non mai (vedasi i recenti fatti in zona Assinform) e alla ricerca di una “controparte” che non c’è; poco più in là, sull’uscio, centinaia di migliaia di nativi digitali (che nel frattempo sono diventati “adulti, elettori e contribuenti”) che non riescono a capire come mai per rinnovare una carta di identità elettronica sia necessario un vero e proprio “pizzino” dattiloscritto dall’Ufficiale di Anagrafe.
Nel giardino, davanti alla casa dell’orrore, si muovono increduli alcuni top manager stranieri, uomini d’azienda che fanno fatica a capire perché, nonostante tutto, sia ancora così complicato e terribilmente lungo e incerto il percorso del dialogo quotidiano con la PA.
In camera da letto (non è un caso: il “cattivo” sulla scena del delitto o è in camera da letto o è in garage) ci stanno gli ancora troppi burontosauri, quelli del “ai sensi del comma 4, lettera d)” o del “abbiamo trasmesso la sua istanza all’ufficio competente dinnanzi al quale ella potrà inoltrare – al bisogno – istanza in autotutela”.
Intanto, nelle classifiche internazionali, ci sorpassano Paesi dai nomi esotici e a volte sconosciuti a tutti coloro i quali non frequentano la geografia politica dai tempi del Muro di Berlino.
Intanto, provinciali come nemmeno Alberto Sordi avrebbe mai potuto essere, andiamo in giro per il mondo illudendosi di esportare buone pratiche e ottime soluzioni innovative, salvo sentirsi dire dal Ministro del Paese in via di sviluppo: “Guardi che noi questa cosa qui ce l’abbiamo da sette anni!”.
Vogliamo continuare col descrivere il plastico e i suoi personaggi?
Che dire, ad esempio, del vigile urbano che rifiuta di utilizzare un palmare in sostituzione del mitico blocchetto delle contravvenzioni in carta autocopiativa? Spiegazione del vigile: il palmare pesa, e per essere usato richiede competenze specifiche che oggi non si possiedono (leggasi: “dammi un aumento di stipendio e ne riparliamo!”).
E i medici di base? Quelli che, messi di fronte al fascicolo sanitario elettronico, ti dicono “Già, bravo, ma lo sai che poi la nonnina vuole la copia cartacea del referto delle sue ultime analisi del sangue perché vuole far vedere alla vicina di casa che le è calato il colesterolo, e a me chi mi ripaga il toner che consumo per stamparlo?”.
Eccolo, il lato oscuro della forza. La scena del crimine.
Portiamola in TV. Mandiamo Carlo Mochi al “Grande Fratello”.
Oppure, chiediamo ai lavoratori delle ottantamila imprese ICT italiane di andare tutti quanti sui tetti delle rispettive aziende in attesa che arrivino Ruotolo e Santoro.
Smettiamola tutti quanti di scandalizzarci: l’innovazione tecnologica non fa audience.
Perché, molto semplicemente, essa è già “dentro ognuno di noi”. E’ scontata: talmente scontata che non la vediamo neppure più. Figurarsi se vale la pena di parlarne.
Il vigile urbano, quello del palmare, è su “Facebook” da un anno.
Il medico, quello del toner, compra musica operistica su “iTunes” e libri di storia della scienza su “Amazon”.
Il burontosauro del “comma 4” ha messo proprio ieri in vendita su “eBay” il comò impero ereditato da nonna Adelaide. Il suo vicino di scrivania ha imparato a collegarsi in streaming su un sito cinese per guardarsi la Champions alla faccia di Sky.
Mia zia (68 anni) non va più in banca da due anni: tutto via Web. Costa meno, non si fa coda.
Evidentemente c’è qualcosa che non quadra. E che non riesco a capire.
Quindi ho chiesto aiuto a mio figlio (13 anni): “Ma scusa, papà: se quello che ha un problema è lo Stato, allora perché non dici al Ministro di fare una legge che obbliga tutti quanti a usare il PC?”.
Dopo questa salutare immersione nell’ingenuità preadolescenziale, sono partito per il Canada.
Incontro col Ministero della Sanità del Québec.
Mia domanda: “Come avete fatto a sviluppare in 2-3 anni il piano di Sanità Digitale ottenendo risultati così importanti e nessun problema da medici e farmacisti?”
Risposta: “Semplice! Abbiamo approvato una legge sulla Sanità Elettronica!”
Una legge che, sintetizzando, dice la seguente cosa: “Da oggi in Canada la Sanità è digitale. Chi ci sta ci sta. Chi non ci sta, può andare senza problemi a produrre sciroppo, tanto di aceri ne abbiamo a tonnellate”.
Dodici miliardi di dollari di investimento, con un risparmio di 6-8 miliardi di dollari all’anno per il sistema sanitario. Roba che qualsiasi banca sarebbe ben felice di finanziare, tanto per dire qualcosa al Ministro Tremonti e al suo “ragazzi, non c’è trippa per gatti!”.
La trippa c’è. I gatti pure. Anzi: in assenza dei gatti, il rischio è che i topi ricomincino a ballare e a far danni.
E veniamo agli assiomi di Mochi. In fondo ho iniziato a scrivere proprio per riprendere alcuni dei suoi ottimi e abbondanti pensieri.
Primo assioma: sante parole, in attesa di un nuovo indicatore che metta insieme PIL e benessere e di capi d’azienda capaci di capire che la fitness aziendale non è la palestra messa vicino alla mensa.
Mi piace invece soffermarmi sugli altri tre assunti, partendo dal punto in cui Carlo chiede “regole chiare e trasparenti”: in prima battuta, sarebbe utile anche solo “averle”, le regole.
Perché oggi non ci sono. O, laddove ci sono (vedi CAD), non è sempre chiaro “cosa succede a chi non le rispetta”.
Gli investimenti: non ci sono, perché non ci sono i soldi.
O meglio: in assenza di una cultura del risultato, si fa fatica a capire che se un investimento di 100 Euro mi fa conseguire un risparmio di 100 Euro, allora l’investimento si chiama “partita di giro” e quindi i soldi è come se ci fossero.
E si fa altrettanta fatica ad aprire le porte alle ormai numerose offerte di project financing specifico per l’innovazione (vedi Telemedicina, ma non solo).
Gli “incentivi adeguati”: ci vogliono. Ma cerchiamo di essere chiari sul significato del termine “incentivo”. Pronti, magari, a introdurre anche il concetto speculare di “disincentivo”.
Perché sentirsi dire, nel 2010, che “lo Stato deve incentivare l’utilizzo delle ICT” è un po’ come dire “incentiviamo chi non usa la diligenza e sceglie il treno”.
Piuttosto: disincentiviamo l’analogico!
Me lo ricordo come fosse ieri: Rimini, estate 2006. Una delle tante indimenticate serate a far tardi con Paolo Zocchi.
A un certo punto (Sangiovese, piadine, ciambellone ripieno) creammo la “tassa sull’analogico”.
Si partiva, anche qui, da un assioma: non usare le tecnologie dell’informazione, oggi, è un lusso che nessuno può più permettersi.
Chiunque ha il diritto di socializzare e perdere tempo in coda allo sportello del Municipio; chiunque può continuare a scrivere domande e istanze con la penna stilografica. A fronte di una sovrattassa.
Il medico è liberissimo di prescrivere farmaci tracciando linee incomprensibili su moduli bianchi e rossi che poi saranno oggetto di data entry in farmacia, e dopo ancora in ASL, e dopo ancora chissà dove. Salvo che al medico medesimo la retribuzione mensile verrà inviata a mezzo piccione viaggiatore, e chisseneimporta se arriverà sei mesi dopo.
Terzo assioma: l’ambiente favorevole. Anche qui: cosa succede se invertiamo i fattori del ragionamento e consideriamo l’ipotesi di rendere “sfavorevole” l’ambiente “vecchio”?
Cosa succederebbe se all’Ufficio Anagrafe di un Comune (è già così a Bergamo, tanto per fare un esempio) il cittadino può scegliere tra fare la coda allo sportello “tradizionale” oppure disporre di una corsia preferenziale riservata ai soggetti in possesso di un certificato digitale “Comune Amico”?
Che è, in buona sostanza, l’equivalente del Telepass: se ce l’hai, non fai coda. Altrimenti, buon divertimento!
Infine, il quarto assioma: la PA che lavora in Rete “insieme” alle aziende, ai cittadini, alle varie reti sociali. “Governing by Network”, direbbe William Eggers. Tutta teoria, dicono i pessimisti. Ma poi si va a Pittsburgh, o a Indianapolis, e si tocca con mano cosa tutto questo significa.
Intorno a questo assioma “gira tutta la ciccia” del ragionamento di Mochi: perché sino a quando la PA non riuscirà a capire cosa davvero significa “essere in Rete”, capirne le logiche e le regole non scritte, le possibilità di vincere la partita del recupero di competitività sono davvero pochine. Meglio tentare col Superenalotto, lì siamo solamente “uno a seicentomilioni”.
Ora: io non so se “far squadra” significa ad esempio lottare ogni giorno con quel mostro che sono i processi attraverso i quali la PA si approvvigiona di beni e servizi. Compresi quelli “innovativi”.
E’ mai possibile che la PA compri tecnologia evoluta, sistemi informativi “mission critical”, con le stesse procedure con le quali acquista i sacchi di sale per gli spartineve o le penne biro?
Ha senso parlare di progetti di digitalizzazione il cui ciclo di vita dura tra i quattro e i cinque anni (quando va bene!), quando ormai tutto diventa terribilmente vecchio ogni anno?
Per quale motivo, ancora oggi si fatica ad adottare strumenti quali il “dialogo competitivo” e il “concorso di idee”, continuando a ricadere nell’errore del massimo ribasso o dell’appalto concorso comunque sbilanciato sul fronte del prezzo offerto?
Ecco, caro Carlo, dove ci siamo arenati.
Perché se oggi l’insegnante di italiano di mio figlio, nel corso di un dettato, pronunciasse la parola “ceralacca”, sono assolutamente sicuro che tutta la classe scriverebbe “c’era l’acca”.
Siamo fermi a parlare di cose che non esistono più.
Al netto dell’attrito, i bit si muovono alla velocità della luce.
La busta sigillata con la ceralacca ballonzola tristemente al ritmo del trotto dei cavalli che tirano il postale tra una stazione di posta e l’agguato del prossimo brigante.
Carlo: a maggio ci sarò anch’io, a “fare rete” a FORUM PA.
Speriamo che a tutti quanti ci tocchi la parte dei pescatori, e non quella delle acciughe.