Informatica pubblica: il vero “collo di bottiglia” si chiama ontologia
Fare ontologia di buona qualità è tutt’altro che banale, specie in un contesto come quello delle Amministrazioni dello Stato. Ma la qualità e l’interoperabilità dei modelli concettuali è drammaticamente importante, è il livello più alto della “catena del valore” dei sistemi informativi. È su questo che si deve investire, anche attraverso una governance consapevole della complessità del tema
24 Aprile 2019
Guido Vetere
Professore Straordinario di Intelligenza Artificiale, Università degli Studi Guglielmo Marconi
Il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione 2019 – 2021 si caratterizza, rispetto alle edizioni precedenti, per un maggior dettaglio tecnico, come testimonia anche la sua ragguardevole dimensione. Questo è probabilmente il riflesso di un atteggiamento operativo che ha preso corpo, negli ultimi anni, specialmente nel Team Digitale di Piacentini, ora passato in eredità ad Attias. L’ardimento imprenditivo dell’Amministrazione centrale davanti alle complesse sfide dell’Information Technology è da lodare. Tuttavia, a meno di non voler bollire l’oceano dell’informatica pubblica in un laboratorio di ricerca e sviluppo, foss’anche questo presidiato da trecento (e non trenta) eroici nerd ai comandi di un Leonida dell’informatica, bisogna pensare a cosa abbia senso fare con le risorse e con i processi che una Agenzia governativa può verosimilmente mobilitare e gestire.
Se si passa il documento del Piano al setaccio di un algoritmo di linguistica statistica, balza agli occhi una parola insolita, non molto comune neanche tra gli specialisti, di cui si conta in media un’occorrenza ogni venti pagine: si tratta del sostantivo ontologia. Non è che in AgID si stiano ponendo il problema dell’esistenza di Dio (che comunque sarebbe più semplice di quelli con cui hanno realmente a che fare). Semplicemente, ontologia, in informatica, significa più o meno “modello concettuale condiviso”. Il fatto è che si è capito che l’antico sogno di far “parlare” i sistemi della PA in modo che, ad esempio, il cittadino non sia costretto a fornire ad un’amministrazione dati già in possesso di un’altra amministrazione, ha molto a che fare con l’esistenza di questi modelli, e relativamente poco a che fare con l’esistenza di server o di cavi in fibra ottica. Insomma, anche grazie all’influenza della comunità internazionale, inclusa l’Unione Europea (European Interoperability Framework), si è fatta avanti la consapevolezza che interoperabilità e integrazione dei sistemi informativi pubblici non siano tanto un problema tecnico, ma un problema semantico.
In realtà, già dal 2005 era possibile caratterizzare la semantica dei servizi del Sistema Pubblico di Connettività e Cooperazione Applicativa, e guarda caso usando uno standard del W3C (Consorzio di standardizzazione del Web) chiamato Ontology Web Language (OWL). Tuttavia, lasciate all’iniziativa delle singole amministrazioni, le ontologie dei servizi pubblici non vennero alla luce. L’idea che esse si sarebbero generate spontaneamente in virtù di un formalismo di rappresentazione, come mosche dai panni sporchi (secondo certi biologi prima di Pasteur), era semplicemente sbagliata. Per fare ontologie ci vuole il seme dell’intelligenza, il concime dell’organizzazione e tanto, tanto lavoro. E non è neanche detto che basti: ci vuole infatti, prima ancora di mettersi a definire un solo concetto, una chiara visione tecnopolitica del problema.
Anzitutto: è giusto parlare di ontologie al plurale, come si fa nel Piano Triennale? Secondo alcuni filosofi, detti relativisti, certamente sì. Ma attenzione: i relativisti non hanno mai spiegato bene come mai possiamo essere (relativamente) sicuri che il linguaggio funzioni sotto il profilo semantico. Insomma, se accettiamo che ciascuno abbia il proprio imperscrutabile concetto delle cose, dobbiamo anche accettare che intendere una frase sia un’operazione di traduzione radicale che ciascun interlocutore è tenuto a fare per sé. Ora, per condurre una conversazione qualsiasi questo può anche andar bene. Ma se entriamo in un ambito tecnico-specialistico, come quello medico, giuridico, o burocratico, nasce impellente il bisogno di assicurarsi che il significato inteso dei termini sia lo stesso per tutti. E se l’ontologia deve aiutarci a stabilire questo significato, è chiaro che dobbiamo parlare di una singola ontologia.
L’approccio che in tempi recenti il Team Digitale ha dedicato all’opera di concettualizzazione dei dati della Pubblica Amministrazione è sostanzialmente bottom-up: quello che si cerca di fare è più o meno integrare a posteriori gli schemi concettuali delle basi di dati che le amministrazioni producono indipendentemente le une dalle altre. Sarà possibile in questo modo addivenire ad una chiara e cogente ontologia che consenta a ciascuna amministrazione di parlare la stessa lingua? O si rischia di trasferire la babele attuale degli schemi concettuali nella babele di una “Ontologia Frankenstein”?
Fare ontologia di buona qualità è tutt’altro che banale, specie in un contesto come quello delle Amministrazioni dello Stato. Ma la qualità e l’interoperabilità dei modelli concettuali è drammaticamente importante, e in un tempo in cui l’infrastruttura è una commodity (un servizio sempre più accessibile) la concettualizzazione si profila come il vero “collo di bottiglia” dell’informatica pubblica. Si dice a ragione che l’intervento diretto, non solo regolatorio ma implementativo, dell’Amministrazione centrale deve essere potenziato. Ma se le risorse non sono infinite (e non lo sono), allora si farebbe bene ad investire sul livello più alto della “catena del valore” dei sistemi informativi: quello concettuale. Si parla anche dei vantaggi delle architetture e delle soluzioni centralizzate. Ma non sarà un cloud a risolvere i problemi: parlare lingue diverse nella stessa stanza non aiuta granché. La centralizzazione che serve davvero si chiama semantica, e non si compra dai fornitori di hardware, bensì si costruisce con una governance consapevole della complessità del tema.
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