Assunzioni nella PA e turn over al 100 per cento: reclutiamo il nuovo personale pensando al futuro
Si parla di 450mila assunzioni nella PA nei prossimi tre anni. Ma le amministrazioni come si stanno preparando ad accogliere i nuovi arrivi? E, a monte, si sta lavorando per reclutare il personale con una modalità che guardi ai bisogni futuri delle amministrazioni? Ne abbiamo parlato con Davide D’Amico, Dirigente presso il MIUR (Direzione Generale per il personale scolastico). È nata un’approfondita intervista in cui si parla di competenze, regole e modalità di svolgimento dei concorsi, gestione e valorizzazione del personale. E della necessità di direttive a livello nazionale per governare tutto il processo
14 Novembre 2019
Michela Stentella
Content Manager FPA
In questi giorni si parla di nuove e massicce assunzioni nella PA, addirittura di 450.000 assunzioni nei prossimi tre anni (150.000 nuovi assunti per ogni anno), con lo sblocco al 100 per cento del turnover per pensionamenti (oltre alle assunzioni straordinarie) a partire dal 15 di novembre per ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici. Numeri importanti, ma davvero si tratta di una svolta epocale per la Pubblica amministrazione italiana? I nuovi ingressi serviranno a dare una spinta reale al cambiamento e all’innovazione della PA?
Abbiamo chiesto un commento a Davide D’Amico, Dirigente presso il MIUR (Direzione Generale per il personale scolastico), che da anni si occupa di cambiamento e innovazione nella PA, partendo dall’importanza di coniugare tecnologie, organizzazione, formazione e competenze dei dipendenti pubblici.
Ne è venuta fuori una lunga intervista, che partendo dal commento alle nuove assunzioni tocca molti temi delicati e attuali per la PA e per il nostro paese in generale: dalla continua e veloce trasformazione della società al rapporto tra Stato e settore privato, dalle competenze necessarie per affrontare le nuove sfide al ruolo del digitale, dai processi di reclutamento alla gestione del personale. Vediamo cosa è emerso.
In questi giorni si parla di nuove e massicce assunzioni nel settore pubblico. Un intervento che risponde a una domanda ben precisa…
Certamente in questi ultimi anni, la pubblica amministrazione ha visto un decremento importante dei dipendenti pubblici, imputabile prevalentemente al “blocco del turn over” assunzionale, inserito da oltre 10 anni nel nostro ordinamento con diversi interventi normativi a partire dal 2008.
Ciò ha comportato, da un lato la diminuzione del numero dei dipendenti pubblici, in quanto i pensionamenti erano di molto superiori alle nuove assunzioni, dall’altro l’elevato l’incremento dell’età media del personale. Infatti, analizzando i numeri dell’ultimo rapporto ARAN, si può notare che l’età media dei dipendenti pubblici, in 16 anni (dal 2001 al 2017) è salita di 10 anni: da 45 anni è passata a 55 anni. Considerata poi l’eterogeneità e il numero delle pubbliche amministrazioni, in termine di diverse funzioni e tipologie, l’impatto sui cittadini, già solo di questi due fattori sopra citati, può essere molto diverso, ma comunque tendenzialmente negativo.
In che senso?
Facciamo qualche esempio: la sanità. Qui l’attività del personale medico e paramedico influisce direttamente sulle prestazioni erogate al cittadino, un’accentuata diminuzione di personale può causare problemi per quanto attiene l’organizzazione e la qualità del servizio erogato. Potenzialmente differente è invece l’impatto di una diminuzione del personale in altri settori, dove l’attività umana può essere sostituita, ridotta o ottimizzata, a seguito di una reingegnerizzazione dei processi e di una trasformazione digitale.
In quest’ultimo caso comunque, il secondo fattore citato, vale a dire l’età media elevata, può costituire comunque un problema di resistenza al cambiamento che deve essere gestita con adeguati interventi sul personale, soprattutto in termini di formazione ed accompagnamento. In questo scenario, già nello scorso governo con il Ministro Bongiorno ed ora con il Ministro Dadone, si è avviata una stagione di nuove e importanti assunzioni nel settore del pubblico impiego.
O meglio parliamo di “autorizzazioni a bandire e ad assumere”, in quanto l’assunzione vera e propria è la fase finale di un processo di selezione che ha tempi spesso molto lunghi e non predeterminati e qui si apre anche un altro problema che può ben immaginare.
Torniamo quindi ai numeri: si parla di circa 450mila assunzioni in tre anni. Sembra un numero elevato non trova?
Sì, già questi sono numeri elevati. Ma non basta, perché nelle Regioni è prevista la possibilità di cambiare la logica assunzionale, correlandola a indicatori di bilancio e di densità demografica, e dunque a parametri differenti da quelli utilizzati per i pensionamenti. Quindi laddove ci saranno risorse finanziarie si potrà effettuare una programmazione sulle assunzioni di personale anche oltre i pensionamenti.
Nei prossimi mesi analoghi meccanismi pare verranno previsti anche per i Comuni. Quindi vi è una grande enfasi sulle politiche d’ingresso di nuovo personale nelle pubbliche amministrazioni e questo è un segnale importante. Soprattutto va sottolineato che, in questo momento storico, la necessità di iniettare nuove risorse professionali nella PA sembri non avere un colore politico e che vi sia una consapevolezza trasversale dell’importanza di questo tema. Ma bisogna allargare gli orizzonti e fare necessariamente altre considerazioni di contesto più generale, di cui non si può non tenere conto quando parliamo di assunzione di personale.
Approfondiamo questo punto. A cosa fa riferimento?
Non pensi che la voglio prendere alla larga, ma è necessario inevitabilmente analizzare in modo approfondito l’attuale contesto internazionale e i relativi cambiamenti sociali e culturali in corso.
Attualmente, l’idea di presente e di futuro della nostra società è delineata sempre più da pochi attori (principalmente aziende cinesi ed americane) che a livello globale, forti di uno sviluppo tecnologico senza precedenti, sempre più orientato all’intelligenza artificiale, alla sensoristica, alla robotica, ed all’uso di “dati”, dettano il passo e condizionano la vita di ognuno di noi durante tutti i momenti della giornata.
È di due giorni fa la notizia di Elon Musk che ha mandato in orbita altri 60 satelliti della costellazione Starlink, per fornire internet a larga banda in tutto il mondo, anche nei luoghi sperduti del deserto o delle montagne. Immaginiamoci già da ora le implicazioni future sicuramente positive per i Paesi sottosviluppati, ma che nascondono criticità legate al controllo, alla sicurezza e alla gestione delle informazioni, anche a carattere strategico che potranno percorrere queste reti nel prossimo futuro. Quindi il tema prioritario e più importante, da non sottovalutare affatto, è chiedersi come il nostro Paese intende affrontare la continua e veloce trasformazione della società, in tutti i suoi diversi aspetti, considerando che spesso, i fattori da cui dipende sono esterni e non direttamente controllabili.
Da dove dovremmo partire?
Da alcune domande. In particolare, quale deve essere il ruolo dello Stato? Quale quello del settore privato? Quale la correlazione tra i due ambiti? Una volta chiarito questo, e non è certo cosa semplice, occorre necessariamente pensare a ridisegnare le funzioni pubbliche e, di conseguenza, le stesse pubbliche amministrazioni.
Solo da questo momento in poi entra in gioco il fabbisogno di personale, per il quale dobbiamo essere consapevoli della necessità da un lato di gestire quello che attualmente è in servizio, e che molto probabilmente dovrà dedicarsi ad altre attività nel prossimo futuro, dall’altro di pensare al nuovo capitale professionale che dovrà entrare nelle PA.
Il tema vero è quali servizi le PA dovranno erogare nel medio lungo periodo e quali le relative competenze che saranno necessarie per coloro che ci lavorano oggi e per coloro che verranno assunti da domani. Detto questo, che le potrebbe sembrare un po’ utopico perché siamo sempre abituati a lavorare in emergenza, nella situazione attuale l’iniezione massiccia di 450.000 persone nella PA deve necessariamente essere governata per avere successo.
Cosa significa governata?
Assumere 450.000 persone nella pubblica amministrazione in un triennio vuole dire l’ingresso, in media, di 150.000 persone l’anno. Questo significa che le pubbliche amministrazioni devono organizzarsi velocemente per: effettuare la rilevazione dei fabbisogni, bandire i concorsi, predisporre e svolgere le prove selettive e le valutazioni, stilare la graduatoria e procedere all’assunzione.
Tutte queste fasi devono essere orchestrate dalle direzioni generali del personale delle pubbliche amministrazioni. In pratica ciascuna amministrazione deve avere il massimo controllo in ogni singola fase e, a mio avviso, il Dipartimento della funzione pubblica dovrebbe avere un quadro d’insieme di quello che sta accadendo, in tempo reale su tutto il territorio nazionale, in modo da intraprendere velocemente eventuali misure correttive, nel caso si presentassero problemi. Per questo penso sia necessario fornire direttive a livello nazionale, tenendo comunque conto dell’autonomia organizzativa di ciascuna pubblica amministrazione in questo ambito.
Queste direttive cosa dovrebbero definire?
Le direttive dovrebbero sciogliere alcuni nodi, evitando che si recluti pensando al passato, tra cui: definire nuovi profili professionali (adeguati ai bisogni futuri delle PA) e le relative competenze di riferimento; indicare nuove modalità concorsuali in modo da testare anche competenze trasversali (le cosiddette soft skill, ad esempio prendendo a riferimento il syllabus per le competenze digitali del Dipartimento della funzione pubblica), immaginando sin d’ora anche ulteriori ambiti di competenza per il lungo termine e, perché no, anche pensando di introdurre test psico-attitudinali per alcuni settori; definire regole, metodologie e strumenti operativi per facilitare la condivisione di graduatorie di concorsi tra più amministrazioni e per velocizzare lo svolgimento di concorsi nazionali (garantire tempi certi è fondamentale).
Nel settore istruzione, ad esempio, sono stati sperimentati modelli di reclutamento digitali, che hanno consentito una riduzione dei tempi delle procedure concorsuali per un numero molto elevato di docenti, garantendo anche imparzialità e trasparenza. Inoltre, da sempre, un’ottima pratica è stata quella adottata nei concorsi RIPAM dal Formez e quella della SNA per il reclutamento dei dirigenti (esperienze che non dovremmo disperdere).
Al fine di garantire comunque il governo di questa imponente misura di reclutamento è necessario e imprescindibile affiancare strumenti digitali ai processi organizzativi, in modo che, sia il Dipartimento della funzione pubblica, attore protagonista, sia ciascuna PA coinvolta, abbiano il controllo dello stato di avanzamento per ogni singola fase del processo di reclutamento in tempo reale, altrimenti rischiamo di avere contezza di problemi o errori diversi anni dopo, e questo non possiamo permettercelo. È un’occasione da non sprecare.
Oltre a quello che ha già detto, ci sono aspetti delicati di carattere organizzativo nei concorsi?
Certamente, un altro tema su cui ritengo ci debba essere forte attenzione è quello delle commissioni di concorso. Occorre garantire che lavorino con professionalità e in pieno “comfort”. In questo senso è necessario stabilire compensi più elevati e garantire “un’agilità amministrativa” per i rimborsi spese, che oggi non c’è. Questi ultimi due aspetti, seppure sembrino operativi e di dettaglio, rappresentano, se messi in pratica, un cambio di passo di tipo strategico, a tutto vantaggio di una selezione di qualità.
Qualità che certamente migliora anche nominando due commissioni diverse e solamente il giorno prima delle prove: una per gli scritti e una per gli orali. Occorre poi che le PA riconoscano pienamente l’attività di servizio ai membri delle commissioni consentendo, se necessario, anche di utilizzare le sedi degli uffici di uno dei componenti almeno per le riunioni di correzione e valutazione delle prove.
Infatti, gran parte delle lungaggini dei concorsi è dovuta anche alla difficoltà per le commissioni di definire un’agenda di lavori condivisa, vuoi perché il presidente non riesce a spostarsi dalla sua sede di servizio, vuoi perché essendo la remunerazione molto bassa, il concorso è un’attività che si lascia in secondo piano rispetto ai principali impegni.
Bene, abbiamo definito il piano dei fabbisogni, abbiamo svolto i concorsi in maniera impeccabile e il personale è stato assunto. Che succede dopo?
Fa bene a porsi questa domanda, perché in realtà adesso arriva la vera complessità per la pubblica amministrazione: la gestione del personale neoassunto. Su questo punto è importante una premessa.
Se il capitale professionale rappresenta oggi il vero asset strategico della media delle imprese nel mondo e, come tale, c’è una forte attenzione da parte delle funzioni HR a realizzare meccanismi di sviluppo professionale continuo, di valorizzazione del merito e di welfare, non possiamo dire la stessa cosa per le pubbliche amministrazioni. Uno dei motivi fondamentali di questa differenza, su cui però è possibile incidere, risiede nel fatto che le pubbliche amministrazioni sono, in generale ancora oggi, sistemi chiusi per il lavoro.
Vale a dire che chi entra nella PA, anche se è bravo, non ha possibilità di spostarsi e quindi l’amministrazione è consapevole che avrà comunque sempre a disposizione quella risorsa. Ciò spesso si traduce in scarsa attenzione al personale sin da quando è assunto.
Se invece aprissimo ad una effettiva mobilità verso altre amministrazioni eliminando l’attuale vincolo del nulla osta dell’amministrazione di provenienza, prevedendo comunque delle regole per evitare che alcune amministrazioni si svuotino, da un lato si darebbe modo al dipendente di soddisfare le sue aspirazioni lavorative, dall’altro si stimolerebbero le PA ad una “salutare competizione” nella gestione del personale e nella sua carriera. In pratica le direzioni HR in primis, ma anche quelle di business, sarebbero sollecitate a uscire dalla loro “comfort zone” ed a costruire un contesto di lavoro più “appetibile” per il dipendente per evitare di perderlo.
La gestione del personale, un punto centrale quindi e spesso sottovalutato.
Quando parliamo di gestione del personale, dobbiamo pensare ad un processo composto da diverse fasi. Le più importanti devono essere necessariamente: l’assegnazione all’ufficio o al servizio sulla base delle effettive competenze, lo sviluppo professionale continuo e la definizione di percorsi di carriera con una valorizzazione “vera” del merito.
Qui sicuramente bisogna dialogare con i sindacati; nel tempo ho avuto modo di vedere delle significative aperture da parte loro su questi temi. Insomma, il datore di lavoro, in questo caso la PA, deve fare in modo che l’entusiasmo e la voglia di servire lo Stato con la massima dedizione siano sempre una costante durante tutto l’arco della carriera del dipendente pubblico. E qui entra in gioco anche il senso di appartenenza, per il quale occorre definire e realizzare azioni che lo possano continuamente rafforzare. Non scordiamoci che questo può rappresentare anche un deterrente contro la corruzione.
È necessario pensare ad un vero e proprio welfare per il dipendente pubblico, forse esagero ma dobbiamo cominciare a vedere le cose integrate. Ad esempio, anche modalità di lavoro alternative come lo smart working devono poter essere percorse senza particolari resistenze da parte del management delle PA, anche per i nuovi assunti. Quindi, tornando all’assunzione dei 450.000, non possiamo non constatare che si dovranno tenere sotto controllo molteplici processi, ciascuno ad elevata complessità, e per avere garanzie di successo è fondamentale assicurare una effettiva orchestrazione di tutta l’operazione.
Quindi ci sarà un grande lavoro per le direzioni generali HR delle PA?
È evidente che l’attuale assetto organizzativo delle funzioni HR delle PA sarà molto sollecitato da questa sfida e avrà bisogno di misure di accompagnamento adeguate. In questo senso è necessario che a livello di governo vengano definiti anche nuovi modelli HR basati sulla “cultura del risultato” o che vengano adottati consolidati modelli di eccellenza, riconosciuti anche a livello internazionale. È sicuramente imprescindibile l’utilizzo di sistemi digitali di gestione delle risorse umane, non più centrati solamente sul fascicolo del dipendente, ma evoluti, nel senso che devono assicurare un sostegno permanente allo sviluppo culturale e professionale del personale delle PA.
Per concludere questa lunga intervista, cosa pensa dovrebbe fare l’amministrazione durante i primi mesi di ingresso di queste nuove risorse professionali?
Oltre ad un periodo iniziale di formazione, magari su competenze trasversali, sarebbe necessario mettere in campo anche azioni culturali, contaminazioni tra neoassunti e senior, magari attraverso un “tutoring” iniziale, sulla falsa riga di quello che è stato sperimentato, con successo, negli ultimi quattro anni al MIUR su oltre 180.000 docenti neoimmessi nel settore dell’istruzione, e che è diventato un processo annuale strutturato di formazione, ormai ben consolidato.
Sarebbe inoltre importante attivare dei percorsi di “visiting”, mostrando ai neoassunti settori d’eccellenza delle pubbliche amministrazioni ma anche delle imprese (attraverso opportune partnership pubblico-privato), con particolare riferimento alla digitalizzazione dei processi e all’innovazione nei vari settori verticali dei servizi.
Per concludere è necessario rendere appetibile e attraente il settore pubblico, portare dentro entusiasmo e trasmetterlo fuori. Occorre far capire che si viene a lavorare nella PA per migliorare il Paese e non per avere solamente un posto fisso e uno stipendio a fine mese. E questa dei 450.000 nuovi ingressi è un’occasione che non deve essere sprecata. Anche se dubito che tra tre anni saranno assunti tutti e 450.000!