Appunti per la città intelligente

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“Trovo più intelligente quel servizio che ha gli orari sulle paline scritti in un cartoncino plastificato, ma che garantisce l’arrivo del bus entro 10 minuti piuttosto che il servizio della mia città attrezzato in alcune zone con pannelli elettronici che mi avvisano immancabilmente che il bus arriverà dopo 30 o 40 minuti. Il fatto che ‘informa in tempo reale’ è secondario e in qualche caso irritante”. Questo semplice ed emblematico esempio riassume bene l’intervento di Mario Spada che propone una serie di riflessioni su alcuni concetti portanti della città intelligente, dalla tecnologia all’architettura.

10 Settembre 2012

M

Mario Spada

“Trovo più intelligente quel servizio che ha gli orari sulle paline scritti in un cartoncino plastificato, ma che garantisce l’arrivo del bus entro 10 minuti piuttosto che il servizio della mia città attrezzato in alcune zone con pannelli elettronici che mi avvisano immancabilmente che il bus arriverà dopo 30 o 40 minuti. Il fatto che ‘informa in tempo reale’ è secondario e in qualche caso irritante”. Questo semplice ed emblematico esempio riassume bene l’intervento di Mario Spada che propone una serie di riflessioni su alcuni concetti portanti della città intelligente, dalla tecnologia all’architettura.

Anzitutto una questione lessicale: è auspicabile un uso più frequente della parola “intelligente” sia per rendere più comprensibili gli obiettivi che si propongono i progetti di smart city e sia per sfilarsi da quello che appare un pensiero unico che sta “smartificando” troppe cose, dalle automobili ai telefoni, dalle lavanderie automatiche alle merendine.

La tecnologia

Venti anni fa mi trovavo in Mozambico per svolgere un incarico del Ministero degli Esteri che riguardava la rimodulazione di programmi di sviluppo rurale finanziati dalla Cooperazione internazionale. In una regione del nord era stato installato un sistema di irrigazione con una tecnologia obsoleta per i paesi industrializzati ma avanzata per il Mozambico che presto si guastò. Mancavano alcuni pezzi di ricambio e l’unico operaio specializzato che era stato formato per la manutenzione non fu in grado di provvedere. Per evitare che le culture a mais andassero in malora furono adottati in ritardo i metodi tradizionali di irrigazione che i contadini tramandavano da secoli. Un agronomo mi disse che con i soldi spesi per quell’impianto che non funzionava si sarebbero irrigati non 300 ma 3000 ettari con i sistemi tradizionali che naturalmente richiedevano un uso intenso di manodopera. Nelle condizioni in cui il paese stava i metodi tradizionali avrebbero realizzato un bilancio costi/benefici assai più favorevole.

Analoga considerazione ho fatto come utente del trasporto pubblico. Trovo più intelligente quel servizio che ha gli orari sulle paline scritti in un cartoncino plastificato, ma che garantisce l’arrivo del bus entro 10 minuti piuttosto che il servizio della mia città attrezzato in alcune zone con pannelli elettronici che mi avvisano immancabilmente che il bus arriverà dopo 30 o 40 minuti. Il fatto che “informa in tempo reale” è secondario e in qualche caso irritante. Viceversa l’esperienza di possessore di auto che chiede via internet il permesso di sosta è stata positiva: dopo due giorni ho ricevuto il bollino tramite raccomandata. È assodato che le innovazioni vengono introdotte per parti, ma mentre le tabelle elettroniche sono del tutto ininfluenti nell’organizzazione complessa del trasporto pubblico, la procedura informatizzata per il permesso di sosta ha una sua relativa autonomia, si apre e si chiude in poco tempo e realizza l’obiettivo.

Lo sviluppo tecnico è la più grande testimonianza dell’intelligenza umana e un fattore determinante dello sviluppo delle civiltà. Nel recente passato un passaggio epocale nella vita delle città fu l’avvento della luce elettrica. Sarebbe bello se si potesse affidare l’intelligenza delle città contemporanee ad un’unica grande innovazione tecnica, ma sappiamo che non è così. Sicuramente la diffusione capillare della banda larga ed il cloud possono contribuire in modo significativo. Ma mi associo senza riserve a chi sostiene che Smart City è un processo complesso che non può essere ricondotto unicamente ad alcune innovazioni tecniche.

La città

Le esperienze di Smart City, prevalentemente nordeuropee, indicano innovazioni che rendono più fruibili le città, più sostenibile il consumo energetico, più rapidi ed ecologici gli spostamenti e così via. Ma documentano anche i problemi. Quello principale è la soglia territoriale entro cui si possono realizzare azioni intelligenti. Sicuramente è più facile in una città di piccole o medie dimensioni che in una città metropolitana, sia dal punto di vista pratico che da quello amministrativo. E’ un grande problema da risolvere quello di estendere a tutto il territorio urbanizzato le buone pratiche realizzate in realtà territoriali più limitate. Servizi come il trasporto pubblico sono sistemi complessi che operano dentro città che sono a loro volta sistemi complessi, inseriti in vasti agglomerati urbani, abitati da decine di milioni di persone, che sono a loro volta sistemi complessi in continua trasformazione. Oltre il 50% degli abitanti della terra vive in aree urbanizzate e nel 2050 sarà l’80%. Città metropolitana, città diffusa, sprawl urbano è chiamato il fenomeno nel linguaggio urbanistico corrente. Nella comunicazione si usano termini più ricchi di immagini: Megalopoli, Notown, Hyperville, Patchwork . Sterminati agglomerati caratterizzati dalla dispersione di residenze, industrie e servizi, dalla accentuazione delle disparità sociali, da montagne di rifiuti sempre più difficili da smaltire, da nuvole grigie di sostanze inquinanti che incombono immobili nel cielo, da ingorghi di auto paralizzanti.

La città è un sistema complesso e come tale funziona in base ad azioni e retroazioni prodotte dal rapporto con l’ambiente esterno. Un sistema complesso per eccellenza è il cervello, costituito da 30 miliardi di neuroni connessi dalle sinapsi che cooperano tra loro orizzontalmente e creano gerarchie che variano di volta in volta in base agli stimoli che provengono dall’ambiente esterno. Il cervello si adatta alle situazioni e modifica costantemente se stesso, fa tesoro di ogni esperienza e impara dagli errori. Una smart city dovrebbe funzionare come il cervello, come un sistema complesso aperto, fondato su relazioni orizzontali tra i diversi soggetti che animano la città, in grado di realizzare interazioni continue con l’ambiente naturale e antropico e di modificarsi costantemente in funzione dei feedback che riceve. Non potranno essere tecnologie introdotte dall’alto a formare una città intelligente senza il contributo di soggetti sociali, istituzionali, imprenditoriali che agiscono in modo collaborativo e orizzontale, attori principali di un sistema flessibile tendenzialmente autorganizzato.

Piano urbanistico e progetto architettonico

Dagli anni cinquanta in poi si è verificata una quasi totale separazione tra piano urbanistico e progetto architettonico. Da un lato il piano bidimensionale degli urbanisti preoccupati di regolare ed indirizzare le pulsioni della rendita fondiaria e immobiliare che hanno trascurato la qualità sostanziale dello spazio fisico. Dall’altro il progetto di architetti impegnati a costruire oggetti edilizi che il più delle volte sono chiusi in se stessi, autoreferenziali, estranei al contesto, incapaci di irradiare il tessuto urbano.

La cultura urbanistica del secolo scorso dovette adeguarsi al processo di industrializzazione, far fronte alle migrazioni dalle campagna alle città e prevedere continue espansioni del tessuto urbano. Il movimento moderno contribuì alla formulazione dei principi dell’espansione indicando con lo zoning la necessità di una netta separazione di funzioni. La conseguenza è stata che si sono moltiplicati i non luoghi, per usare la felice espressione di Marc Augè, e le aree urbane a vocazione unica: i quartieri residenziali delle periferie, le zone industriali, le cittadelle direzionali e cosi via. Vaste aree urbane ad una dimensione, riservate di fatto ad alcune categorie sociali di giorno e desertificate di notte, con enormi problemi di sicurezza affrontati con la proliferazione di agenti armati. Particolare impressione suscitano, in questa fase acuta di crisi economica, le zone industriali abbandonate a causa del declino industriale. Quando si sente parlare di delocalizzazione sembra di vederle quelle intere aree, già separate dal contesto urbano, che volano ed atterrano in un altro territorio.

Nel nostro paese si vive l’infelice condizione di quelli che stanno a metà del guado, tra una fase di declino del sistema industriale e una fase postindustriale non ancora delineata (Torino è la città che con più urgenza ed efficacia si è posta il problema).

La cultura urbanistica da anni sta cercando strumenti per intervenire nei processi di trasformazione urbana, per fermare il devastante consumo di suolo, per rigenerare quartieri degradati e trasformare aree industriali creando mix funzionali di residenza, servizi e industria avanzata, basata quest’ultima più sui bit che sui watt. L’architettura si è disinteressata ai destini della città, la stagione ventennale degli archistar ha divaricato ancor più la distanza tra edificio e contesto urbano, favorito la costruzione di oggetti edilizi griffati che ostentatamente trascurano o negano la struttura del tessuto urbano, la storia e l’identità dei luoghi. Una risposta parziale a questa dicotomia è il ricorso ai “progetti urbani”, che rappresentano un tentativo di ricostruire nessi tra tessuti urbani e oggetti edilizi, di ricreare le condizioni di una riappropriazione della città da parte dei cittadini, di sviluppare servizi ad alto contenuto ecologico ed innovativo. Ma sono una goccia nel mare del disagio urbano. Il passaggio alla fase postindustriale richiede una grande visione comune che riunisca architettura e urbanistica, istituzioni, cittadini ed imprese. È  necessaria un’operazione di riorganizzazione territoriale integrata, impostata sulla cooperazione tra industria, scuola, università, cultura, investimenti innovativi con l’obiettivo di produrre un elevato valore sociale. Sarà questa la sfida competitiva tra città nel prossimo futuro. Il programma “un piano per le città” lanciato dall’ANCE è una timida proposta che va in questa direzione ma ancora troppo influenzata dal progetto edilizio e scarsamente attenta alla riorganizzazione complessiva dei tessuti urbani per un progetto di città nuova ed intelligente . Solo una visione di grande respiro può riunificare urbanistica ed architettura, conciliare entrambe con cittadini diffidenti, creare relazioni virtuose tra edifici intelligenti e tessuto urbano. Gli edifici intelligenti, dotati di tutte le installazioni per il risparmio energetico, attrezzati con la domotica, il wi-fi o la fibra ottica, non emanano un’ intelligenza che si propaghi al di fuori di essi.

Qualunque progetto di smart city non può sottrarsi all’esigenza di riconciliare urbanistica ed architettura, impresa e cultura, cittadini ed istituzioni, spazio pubblico e spazio privato.

Gli spazi pubblici rappresentano la struttura portante di un città che voglia chiamarsi tale e il terreno privilegiato dell’incontro tra discipline urbane. Essi sono le sinapsi del sistema neuronale della città. Le piazze, tradizionalmente deputate allo scambio di beni materiali possono diventare luoghi di scambio di beni immateriali e di nuovi servizi virtuali. Ma sopratutto saranno le reti di spazi pubblici, aperti e coperti, la qualità e le relazioni virtuose che si possono determinare tra parchi, piazze, strade, scuole, biblioteche,centri civici, università, a decretare il successo di una politica che intende riprogettare il territorio per adeguarlo alle sfide della competizione globale.

Governo e governance

Nella definizione di progetti di smart city non possiamo dimenticare la storia delle Agende 21 locali , dei contratti di quartiere, dei piani strategici. Di solito sono stati appannaggio di singoli Assessorati, raramente, se non per alcuni piani strategici, sono stati programma del Sindaco. È scontato che il programma smart city sia affidato all’Assessore all’innovazione (digitale). Ma deve diventare patrimonio comune di tutta l’amministrazione, rappresentare un obiettivo prioritario dell’azione di coordinamento del Sindaco affinché penetri in ogni struttura e si formino quadri tecnici e amministrativi in grado di tradurre in ordinaria pratica amministrativa quelle procedure straordinarie che sono applicate nella gestione di programmi innovativi.

Il passaggio da un governo top down che elargisce servizi ad una governance inclusiva, bottom up, che inserisce i cittadini nei processi decisionali e prefigura una sorta di autogoverno partecipato , è la scommessa politica dalla quale dipende il successo o meno delle iniziative per la città intelligente. Da più di un decennio la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica della città è considerata un’azione politicamente corretta e molte amministrazioni hanno deliberato regolamenti specifici che non sempre danno la misura della cultura partecipativa acquisita. Quando si mette in cantiere un progetto smart è il caso di capire quanta partecipazione è già patrimonio dell’amministrazione e dei cittadini, quanto è consolidato nella memoria collettiva. Un sistema complesso è regolato dalla memoria che archivia informazioni, sostituisce quelle superate, modifica le relazioni tra i dati acquisiti in base a nuovi stimoli. Un programma di medio/lungo periodo deve guardare in avanti lontano, ma non meno lungo dev’essere lo sguardo quando si volta indietro verso il passato per fare tesoro della memoria, delle buone pratiche realizzate e degli errori commessi.


 

Mario Spada, un breve profilo

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