Chi ha bloccato il piano città?
Il Piano nazionale per le città è un importante intervento con caratteristiche area-based ed è un primo approccio al tema più complessivo della rigenerazione urbana, che è la chiave per rinnovare anche dal punto di vista sociale e culturale, oltre che energetico ed edilizio, le nostre città. Finora sono stati finanziati progetti che si riferiscono a 28 comuni i quali potranno attivare investimenti per 4,4 miliardi di euro.
In vista del convegno “ Le politiche di rigenerazione urbana area-based e il piano città” previsto per il 17 mattina, abbiamo chiesto a Tommaso Dal Bosco, responsabile del Dipartimento patrimonio, urbanistica, infrastrutture e politiche per la casa di ANCI, di raccontarci a che punto è il processo governato dal Piano città oggi.
7 Ottobre 2013
Francesca Battistoni
Il Piano nazionale per le città è un importante intervento con caratteristiche area-based ed è un primo approccio al tema più complessivo della rigenerazione urbana, che è la chiave per rinnovare anche dal punto di vista sociale e culturale, oltre che energetico ed edilizio, le nostre città. Finora sono stati finanziati progetti che si riferiscono a 28 comuni i quali potranno attivare investimenti per 4,4 miliardi di euro.
In vista del convegno “ Le politiche di rigenerazione urbana area-based e il piano città” previsto per il 17 mattina, abbiamo chiesto a Tommaso Dal Bosco, responsabile del Dipartimento patrimonio, urbanistica, infrastrutture e politiche per la casa di ANCI, di raccontarci a che punto è il processo governato dal Piano città oggi.
Che cosa è il Piano Città?
Il Piano Città nasce da un’iniziativa del Ministero delle Infrastrutture, nel periodo in cui era retto dal vice ministro Mario Ciaccia, dalla necessità di prendere in mano le politiche urbane che ormai non avevano da oltre dieci anni attenzione, né finanziamenti e programmi.
Il Piano Città nasce dall’idea che le città sono il luogo dell’innovazione, della crescita, sono fulcro del capitale cognitivo e mezzo tramite il quale il Paese può ricominciare a muoversi.
Il Piano nasce su considerazioni di politica economica ossia l’idea era quella di incentivare forme di partenariato pubblico-privato e di utilizzare risorse pubbliche come leva per mettere in moto più risorse economiche per la città.
Quali sono state le risorse a esso destinate?
I dubbi iniziali erano legati proprio alla consistenza di questo programma: 224 milioni spalmati su 6 anni in maniera progressiva, una somma bassa per un paese che si fonda sulle città. L’ elemento positivo però sta nell’idea di far rinascere le città e di allocare queste risorse assumendosi una responsabilità di scelte discrezionali ma esercitate con la massima responsabilità e trasparenza.
La Cabina di Regia, organo che gestisce il Piano Città, comprendeva tutti i soggetti coinvolti nelle politiche urbane, dal Ministero delle Infrastrutture, all’ Anci, le Regioni, il Ministero Beni Culturali, il Ministero della Coesione Territoriale, Cassa Depositi e Prestiti, Demanio ecc.
L’idea era quella che all’interno della Cabina di Regia non si dovesse fare solo selezione dei Comuni ma, soprattutto, valutare la possibilità di ulteriori apporti aggiuntivi che i partecipanti alla cabina di regia avrebbero potuto mettere sul tavolo.
In questo momento diversi soldi dei Fondi Strutturali non si sa come spenderli e sarebbe opportuno destinarli a intervenire nei progetti presentati per il piano città.
A che punto è oggi il processo governato dal Piano Città?
Il 16 gennaio dello scorso anno la Cabina di Regia ha licenziato ordini di priorità in cui 28 progetti sono stati considerati di alta priorità e quindi a questi è stato concesso un contributo finanziario.
Il decreto che regolava la selezione imponeva di non fare una classifica ma di raggruppare i progetti in 3 grandi ordini di priorità , gruppi di progetti di alta, media o bassa priorità. La scelta della priorità è avvenuta secondo criteri fissati dalla legge quali l’attitudine a ridurre le tensioni abitative, migliorare la dotazione infrastrutturale del paese e delle città, la performance economica del progetto. Poi è cominciata la fase attuativa distinta di 2 momenti:
- sigla di un contratto di valorizzazione: un atto previsto dalla legge – anche se con un profilo giuridico discutibile – e che però era sembrato opportuno per mettere nero su bianco tutte le potenzialità di ciascuna proposta;
- il contratto vero e proprio con l’impegno di spesa che è stato normato da una convenzione.
Questa seconda fase, turbata anche dai cambi politici, è stata notevolmente rallentata.
Che tipo di problemi sono sorti?
Sono cominciati a emergere diversi problemi. Per esempio, noi avevamo segnalato l’assoluta necessità di istituire una funzione istituzionale dentro la Cabina Regia che dava quindi la possibilità di verificare quali altri erano gli apporti finanziari possibili. I 457 progetti presentati valgono complessivamente circa 20 miliardi di euro di investimenti di cui 8/9 provenienti dai bilanci comunali, contributi regionali o interventi di privati e 11 da reperire. Anche se alcuni progetti sono stati considerati non prioritari, era fondamentale secondo me, smuovere l’ingente mole di risorse dei Fondi Strutturali. La cosa non è stata assecondata e nonostante i progetti fossero di qualità, non potevamo guidare questi progetti verso linee di finanziamento dormienti dei fondi strutturali.
I 318 milioni messi sul tavolo dal Ministero potevano generare investimenti per 4,4 miliardi di Euro. Ecco, questo era ciò che avremmo voluto ma le rigidità burocratiche mostrate nella fase attuativa di fatto lo impediranno.
Ora siamo in una fase in cui i Comuni cominciano a firmare le convenzioni. I tempi però sono stati troppo lenti, è già trascorso un anno dalla selezione e non è partito nemmeno un cantiere.
Secondo lei c’è stato quindi un depotenziamento dello strumento Piano Città?
Il periodo iniziale è stato di grande afflato e il progetto è sembrato un modo innovativo di realizzare programmi di rigenerazione urbana. Passata la fase di animazione del territorio, di raccolta dei progetti e di valutazione molto interessante, il Ministero ha cominciato a esercitare le sue funzioni burocratiche e il confronto sulle modalità attuative è via via venuto meno ciò ha di fatto depotenziato i progetti.
Le convenzioni sono atti burocratici che faticano ad andare incontro alle necessità dei comuni, sia dal punto di vista finanziario (patto di stabilità, limiti all’indebitamento, ecc.) e non hanno quella flessibilità necessaria ad innescare processi virtuosi di partenariato pubblico privato che permettano l’approccio innovativo che oggi è richiesto. Così alla fine ci rendiamo conto che, nonostante le premesse e le volontà di partenza, ci troviamo di fronte a finanziamenti ordinari di opere pubbliche così come si sono sempre fatti e per i quali, in realtà, non era necessario mettere in piedi la macchina del Piano Città.
Questo ha messo in luce i limiti strutturali dei rapporti amministrativi tra i livelli di Governo perché vuol dire che il confronto virtuoso tra tutti i soggetti sembra impossibile da perseguire con le regole amministrative che abbiamo.
Come definirebbe l’approccio del Piano Città alla rigenerazione urbana?
In realtà non ci sono elementi di innovazione cosi importanti dal punto di vista della concezione della rigenerazione urbana, ci sono priorità che guardano ad aspetti emergenziali come efficienza energetica, tensioni abitative o il requisito di miglioramento complessivo della qualità sociale e ambientale delle città. I limiti del piano vanno cercati altrove: andava mantenuto uno spirito cooperativo inter-istituzionale che era alla base dell’innovatività del piano ma che, per le cause che ho citato, è venuto meno nel tempo.