Co-Cities Report. Il linguaggio comune per misurare l’applicazione dell’Agenda Urbana
A seguito di 5 anni di
lavoro sul campo, LabGov saluta il nuovo anno con
la
pubblicazione della I parte del Co Cities Open Book
(in arrivo la versione integrale), con una proposta di indice comune per
indagare il livello di implementazione degli obiettivi fissati dalla New Urban
Agenda e dagli SDGs nelle città. Abbiamo dato uno sguardo al documento e
all’analisi sulle città italiane coinvolte.
15 Gennaio 2019
Marina Bassi
Il processo per la creazione delle Co-Cities è molto più che un desiderio o una promessa politica. È un lavoro che prevede l’impegno e la dedizione di soggetti coinvolti a più livelli, oltre che una forte cabina di regia e di governance riconosciuta. Questo è quanto emerge dal Co-Cities Report (II parte del Co-Cities Open Book, di prossima pubblicazione), documento redatto a cura di LabGov – LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni [1] , in collaborazione con l’Università LUISS Guido Carli e Georgetown University, e pubblicato a fine dicembre 2018, che descrive cinque anni di ricerca e analisi che hanno avuto l’obiettivo di indagare le principali caratteristiche di quelle che oggi cominciamo a percepire come città collaborative, e ha cercato di capire se esista un linguaggio decodificato per individuarle. Il report si compone di un database di oltre 400 casi studio presenti in 130 città a livello mondiale [2] (il report è diviso in sei aree geografiche: Europa, America del Nord, America Centrale e Latina, Africa, Asia, Oceania). Il lavoro sul campo ha permesso di ipotizzare un primo indice in grado di misurare le politiche urbane in termini di governance condivisa. L’indice vuol quindi essere uno strumento per l’interrogazione alle città sul grado di implementazione degli obiettivi fissati dalla New Urban Agenda e dagli SDGs.
Le città esaminate sono state selezionate sulla base delle attività di disseminazione in grado di far conoscere il processo di transizione delle città verso la città collaborativa, avendo individuato l’area geografica di riferimento e il livello di responsiveness della città ai cinque principi del cosiddetto protocollo della Co-City:
1. Governance urbana di comunità
2. Stato abilitante
3. Economia condivisa
4. Sperimentazione
5. Tecnologia
L’approccio utilizzato poi per aggregare le aree è stato quello dei progetti valutati più simili, al fine di ridurre il numero di variabili inquiete, tenendo fermo l’elemento trasversale d’analisi – i beni comuni – inteso nelle sue tre componenti risorsa; comunità; governance.
Volendo dare uno sguardo più approfondito proviamo a vedere, con le lenti del Co-Cities Report, cosa succede in alcune delle città esaminate, che conosciamo e di cui abbiamo avuto modo di approfondire le policy. Tra le italiane:
- Milano – in prima posizione nell’ ICity Rate 2018 – si distingue nell’analisi per l’esperienza di Milano Sharing City , che a sua volta fa parte del progetto di Milano Smart City, e il progetto Macao [3] . I progetti messi in campo concorrono all’innovazione sociale in città, al miglioramento delle competenze dei cittadini, alla produzione di posti di lavoro inclusivi. Il processo è saldamente ancorato al Comune di Milano, che attraverso un registro pubblico riconosce soggetti meritevoli di fiducia, progetti virtuosi e buone pratiche. Tutto questo in un contesto di cambio di paradigma più lungo verso la partecipazione, la condivisione, la resilienza, la sostenibilità e l’inclusione;
- Bologna, che è stata storicamente tra le prime città ad abbracciare l’approccio collaborativo, paradigma che ha accompagnato nella transizione sin dalla sperimentazione nei quartieri del 2011, lavoro confluito poi, a febbraio 2014, con l’adozione da parte del Comune del Regolamento tra cittadini e Pubblica Amministrazione per la cura e la salvaguardia dei beni comuni urbani . Dall’approvazione del regolamento, più di 280 patti di collaborazione sono stati firmati;
- Torino, che si è recentemente affermata nel contesto europeo (vincendo il primo bano UIA) con il progetto Co-City Torino , promuovendo la gestione collaborativa dei beni comuni urbani, al fine di contrastare la povertà e la ghettizzazione. Il progetto rimanda al quadro del Regolamento sui beni comuni, e adotta il patto di collaborazione come strumento di promozione della collaborazione tra cittadini e amministrazione. Il progetto ha l’obiettivo di trasformare edifici abbandonati in hub di partecipazione civica, centri di lotta alla povertà e alla disoccupazione.
Nel documento il riferimento è anche a Reggio Emilia con il suo #CollaboratorioRE, e a Roma, con il progetto di adozione civile del Parco archeologico di Centocelle . Noi aggiungeremmo anche Firenze, in virtù dei processi innescati recentemente in chiave di governance e sostenibilità , che hanno reso possibile la prima posizione della città nel Rapporto ICity Rate 2018.
Ci affacciamo quindi al nuovo anno con alcune considerazioni che avevamo già avuto modo di maturare nel corso del 2018, e che adesso ritrovano supporto anche nel Co-Cities Report. La prima considerazione è che le città in cui una visione di transizione ai beni comuni urbani attecchisce facilmente sono quelle dove è presente uno stato abilitante forte. In città come Bologna o Torino, dove la collaborazione civica è sempre stata una caratteristica storica della città, il processo si è innescato quasi automaticamente. La seconda considerazione è che anche nelle città in cui non è presente una tradizione della collaborazione, ma dove la componente di residenti-resilienti è forte, la trasformazione è possibile se supportata da amministrazioni inclini all’ascolto del territorio.
[1] Recentemente soggetto a rebranding in LabGov.City, LABoratorio per la GOVernance della città come un bene comune.
[2] I casi e le città coinvolti sono confluiti in una mappatura disponibile su http://commoning.city/commons-map/
[3] Proprio lì, nei pressi di Viale Molise, ricordiamo anche l’esperienza dell’affidamento temporaneo della Palazzina 7 a temporiuso.org, che dal 2013 gestisce la rigenerazione dello stabile.