Community organizer superstar. Alle origini dell’auto-organizzazione di comunità
Il community organizing è legato alla Chicago industriale degli anni ’30 e al nome del sociologo Saul Alinsky che ne ha fatto un vero e proprio metodo di lotta per le comunità spossessate del diritto al selfrule, quintessenza della democrazia americana. Da allora il community organizing ne ha fatta di strada, arruolando negli anni ‘80 un giovane Barack Obama e arrivando, con le modifiche del caso, nell’Europa odierna della Big Society. Ne parliamo con Mattia Diletti, Ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche, Università La Sapienza di Roma.
29 Novembre 2011
Chiara Buongiovanni
Il community organizing è legato alla Chicago industriale degli anni ’30 e al nome del sociologo Saul Alinsky che ne ha fatto un vero e proprio metodo di lotta per le comunità spossessate del diritto al selfrule, quintessenza della democrazia americana. Da allora il community organizing ne ha fatta di strada, arruolando negli anni ‘80 un giovane Barack Obama e arrivando, con le modifiche del caso, nell’Europa odierna della Big Society. Ne parliamo con Mattia Diletti, Ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche, Università La Sapienza di Roma.
Mattia Diletti, Ricercatore della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma e studioso del modello originario di community organizing ci conferma il grosso interesse nato in Europa sul tema. “Questo ritrovato interesse ai metodi del community organizing in Europa – afferma – non a caso nasce in un momento di crisi della fiscalità pubblica, in cui guardiamo con interesse a tutte quelle iniziative che, pur nascendo in situazioni sociali e politiche cosi diverse dalla nostra, possano suggerire qualcosa su come la comunità si può auto-organizzare per produrre benessere in condizioni di difficoltà di intervento pubblico”. E aggiunge: “Va sottolineato che il community organizing è tornato sotto i riflettori anche grazie a Barack Obama che negli anni ’80 ha lavorato come community organizer a Chicago, in una zona svantaggiata a netta maggioranza nera. Il dato apre un interesse particolare verso il community organizing, dal momento che quel tipo di training, di fatto, ha favorito e sostenuto l’educazione politica di un presidente".
Alle origini, Chicago anni ’30
Per capire lo spirito e la natura di questa figura, a quanto pare, è importantissimo contestualizzarne la nascita. "Innanzitutto – comincia Mattia Diletti – il community organizer è una figura tipica della tradizione sociale americana. La comunità infatti è l’unità più importante della democrazia americana, perché è qui che i cittadini possono deliberare e decidere insieme sulle questioni importanti per i propri figli e per il proprio quartiere". "A mettere a punto il metodo del community organizing – continua – fu negli anni ’30 Saul Alinsky, sociologo e attivista, per difendere e rafforzare le comunità operaie del quartiere Meat Packaging di Chicago, capitale dell’industria agro-alimentare americana, allora basata sullo sfruttamento di una forza lavoro malpagata e sprovvista di servizi pubblici. Si trattava inizialmente di comunità divise in tante etnie diverse che, anche grazie a istituzioni forti come la Chiesa Cattolica, Alinsky riuscì a mettere insieme attorno a obiettivi condivisi. Attraverso l’azione da lui coordinata furono raggiunti due obiettivi: più servizi nel quartiere e, con il supporto del sindacato, un aumento dei salari nelle fabbriche. Il metodo di azione messo a punto e sperimentato direttamente da Alinsky si rivelò vincente, cosi che egli stesso decise di esportarlo nel resto degli Stati Uniti, creando la fondazione IFA, un network che trasferisce il know how a comunità svantaggiate".
Ma concretamente cosa fa un community organizer?
Diletti spiega che il community organizer è la persona che, in un certo senso, è capace di addestrare le comunità aiutandole a raggiungere i propri obiettivi. "In particolare – sottolinea – agisce in quartieri poveri, nei quartieri urbani più degradati e nelle comunità più difficili. In questo senso il community organizing è innanzitutto un processo di acquisizione di potere". E precisa che il community organizer mette in pratica un metodo. In sintesi, "ricerca e individua un minimo comun denominatore per tutti i soggetti presenti in un’area. Individua cioè quale è un punto, tra le varie istanze, che interessa tutti. Intorno a questo costruisce delle tecniche di mobilitazione attraverso cui interagire e, se necessario, dare fastidio al potere politico, affinché si riesca ad avere più potere, si venga ascoltati e si possano proporre delle soluzioni". "Il community organizer – ci tiene a rimarcare – è soprattutto qualcuno che insegna a raggiungere obiettivi praticabili. Un community organizer non chiede il riconoscimento formale di un diritto, ma individua come nello specifico si può vincere una battaglia. Ad esempio, se si vuole affermare il diritto delle madri single ad un sostegno, piuttosto che fare una battaglia di principio si individua come costruire un asilo nido. Questo è un po’ il metodo. Poca teoria, ma molta pratica". Entrando nel merito continua, "il community organizer procede su tre step: ascoltare, definire l’aspirazione minima, creare le giuste misurate aspettative. Nel far questo considera le comunità esistenti, individua i poteri riconosciuti all’interno di ciascuna di esse, lavora per convincere la comunità ad avanzare richieste al potere politico". "Il community organizing (come modellizzato da Alinsky) per essere efficace e sostenibile – spiega – deve garantire continuità organizzativa, capacità di fundraising, ritorno visibile, mutualismo, formazione permanente e empowerment della leadership locale. Questo ultimo punto è molto importante, deve tirare fuori dalla comunità stessa i dirigenti".
"L’obiettivo – conclude – è sempre l’empowerment di comunità apparentemente svantaggiate, mettendole nella possibilità di praticare una democrazia effettiva, portandole a saper scegliere, a saper individuare quali sono i loro desideri e bisogni e a saper chiedere alle forze politiche, alle istituzioni, alle grandi imprese. Insomma a saper fare vertenza, come se si trattasse di un sindacato di territorio. Un sindacato solidale".
Verso un modello britannico
E’ vero – concordiamo – che il community organizing è quanto mai attuale, se si pensa che la comunità è stata letteralmente catapultata al centro dei tanti discorsi politici europei. Ma la formalizzazione strategica del ruolo della comunità in un piano strutturato di riforma è da attribuire principalmente al programma, ormai celeberrimo, lanciato nel 2010 da Cameron nel Regno Unito, che – neanche a dirlo – ha previsto un Community Organizers Programme.
L’Office for Civil Society (OCS) presso l’Ufficio di Gabinetto del primo ministro britannico ha creato e messo a budget un programma di formazione per community organizer su scala nazionale. L’obiettivo, tra l’aprile 2011 e il marzo 2015, è formare e supportare 5000 community organizer di cui 500 “full time senior", 4500 volontari con impegno part time. La formazione dei community organizer è affidata a Locality, il network no profit ramificato sul territorio, che con un budget di 15 milioni di sterline e in partnership con 11 organizzazioni guiderà e implementerà il Community Organizers programme.
Il modello britannico si rifa espressamente all’esperienza di Alinsky , ma l’evoluzione e la duttilità dell’approccio è ben espressa da Steve Wyler, chief executive di Locality, quando afferma: “Quella che viviamo è una entusiasmante opportunità per creare una versione inglese, moderna e indigena del community organizing, capace di riflettere e nutrire quella che è la vera Big society sul territorio”.
In Italia?
Diletti risponde: "C’è una grande differenza tra la nostra realtà e quella dove prende piede il community organizing del metodo Alinsky: gli Stati Uniti sono un paese veramente federale, in cui l’elemento localistico conta molto. Intendo dire che negli USA l’idea che la comunità deve fare da sé ha un valore politico antico, mentre da noi il rapporto con lo Stato è diverso e probabilmente rimarrà diverso. Direi che noi abbiamo le nostre forme di autorganizzazione sociale che possiamo sicuramente migliorare guardando all’America ma tenendo ben presente le differenze di contesto".