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Daniela Selloni: “La politica deve andare a scuola di design per ritornare ad avere una visione di futuro”

Daniela Selloni: "la politica deve andare a scuola di design per ritornare ad avere una visione"
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Daniela Selloni, membro di POLIMI DESIS Lab, intervistata da Gianni Dominici, ci racconta la sua esperienza sul campo nell’ambito del design per l’innovazione sociale insieme al design di servizi co-progettati con cittadini

23 Settembre 2020

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Redazione FPA

Daniela Selloni: "la politica deve andare a scuola di design per ritornare ad avere una visione"

L’innovazione sociale, intesa come forma di soluzione collettiva e innovativa dei problemi quotidiani, in risposta alla crisi economica, sanitaria, sociale e all’inadeguatezza dello Stato nell’intecettare i bisogni sui territori, è un fenomeno ampiamente studiato. Già nel 2007 era stato indagato e riproposto nel libro “Creative communities” da Anna Meroni, già membro del gruppo DESIS-Design for Social Innovation and Sustainability, la rete internazionale dell’università del Politecnico di Milano, di cui fa parte Daniela Selloni, oggi intervistata da Gianni Dominici nel percorso di avvicinamento all’evento di novembre “FORUM PA 2020 Restart Italia”.

Daniela Selloni ci racconta la sua esperienza sul campo nell’ambito del design per l’innovazione sociale insieme al design dei servizi e a metodi e strumenti di co-progettazione.
Il designer coordina processi che partono dal basso, progetta servizi insieme a gruppi di individui, ovvero a “comunità creative” così come definite dalla comunità scientifica. Processi che portano a soluzioni innovative con un impatto sulla società.

L’intervista

Il designer dei servizi disegna soluzioni, fornisce un servizio fatto da un sistema di artefatti che possono essere digitali, fisici, umani e progetta l’accesso a tutto questo. È un pensiero per funzioni, che Selloni chiarisce con un esempio “non progettiamo un’automobile, ma progettiamo il car sharing, una modalità di accesso alla mobilità”.

Da questa intervista emergono due temi fondamentali: l’importanza dei contesti territoriali, luoghi dove si condensano i problemi ma spesso laboratorio di soluzioni, e la necessità di promuove e favorire la partecipazione.

“Negli ultimi dieci anni – continua Selloni – è accaduto che molte risposte ai problemi della città arrivassero dal basso, nel senso che le persone piuttosto che aspettare un cambiamento dall’alto – dallo Stato o in alcuni casi dal mercato – hanno trovato delle soluzioni”. Si pensi
a quei fenomeni di baby sitter condivisa, badante condivisa o a forme di cohousing.

Il problema è che spesso questa progettualità sociale dal basso non trova ascolto, solo alcune di queste sono state riconosciute dall’alto e in alcuni casi istituzionalizzate. Eppure la sussidiarietà orizzontale è riconosciuta dalla nostra costituzione (art. 118, comma 4), ma il rischio molto spesso è che queste proposte avanzano dove lo Stato arretra.

La collaborazione multi-stakeholder tra cittadino, pubblico, privato o terzo settore, sarebbe opportuna, ma spesso non esiste. Selloni pensa alla sua ricerca applicata di dottorato che l’ha portata alla sperimentazione nel 2013 di “Cittadini Creativi”, altro non era era che l’accompagnamento di una comunità di attivisti, che non riusciva a progettare i servizi di cui aveva bisogno in un quartiere di Milano; pensa anche alla definizione data da Ezio Manzini, fondatore della scuola di pensiero alla quale afferisce, “il design per l’innovazione sociale non è una nuova disciplina, è in realtà tutto quello che il design può fare per supportare l’innovazione sociale, per poterla promuovere, per renderla più visibile, efficace, efficiente, piacevole”.

Nella prima fase dell’Innovazione sociale, ora siamo in un’altra fase, il ruolo del designer era supportare gli innovatori senza mandato amministrativo. “È stata una formula di design activism – specifica Selloni – , l’abbiamo rinominata così nella letteratura scientifica, a supportato delle comunità, a volte migliorando semplicemente l’aspetto visivo, il design della comunicazione, a volte intervenendo nell’idea, avvolte nella parte strategica”.

Spesse volte il lavoro del designer consiste nel trasformare le proteste in proposte. Per decenni nel nostro paese l’unico modo di partecipare era protestare, a differenza dei paesi di origine anglosassone che vantano una lunghissima tradizione di coinvolgimento e ascolto dei cittadini. “È una mancanza di abitudine culturale, infatti – sottolinea Selloni – quando la partecipazione viene sollecitata bisogna fare un lavoro maieutico di immersione delle proposte”.

Il più delle volte manca il primo livello di partecipazione che è l’informazione (secondo la mappa dei 5 livelli di coinvolgimento, dall’informazione all’empowerment) ed è difficile avviare un processo di partecipazione dal basso se non si offrono ai cittadini informazioni bilanciate e oggettive.

Qualcosa oggi sta cambiando nei processi di trasformazione dei territori. Selloni cita la “Scuola dei Quartieri”, un progetto a cura dell’assessorato di Cristina Tajani, per migliorare la vita dei quartieri nelle periferie di Milano. Per questo progetto è stato attuato lo scouting digitale ed ecco che le piattaforme digitali diventano non solo luoghi di relazione, ma anche ambiti di co-progettazione.

Oggi sempre di più le amministrazioni comprendono l’importanza della cultura del progetto, della necessità di attingere a tutta una serie di tecniche di pensiero laterale, di scenari, per prevedere il futuro o immaginarselo e gestire le reti territoriali.

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