La rivoluzione delle città metropolitane passa per i distretti dell’innovazione
In che modo i contesti urbani possono contribuire allo sviluppo economico di un territorio e di un intero sistema Paese? Secondo i tre studiosi Bruce Katz, Jennifer Bradley e Julie Wagner nella misura in cui sono in grado di costruire reti ravvicinate di relazioni tra soggetti produttivi, mondo della ricerca, istituzioni e “facilitatori dell’innovazione “ all’interno di un contesto vivibile, e ben infratrutturato. Il loro libro The Metro Revolution: How Cities and Metros are Fixing our Broken Politics and Economy prova infatti a mettere in relazione i recenti cambiamenti economici con il nuovo ruolo assunto dalle città. Un processo che tocca nel profondo anche il nostro Paese e che le nostre metropoli devono dimostrare di essere in grado di innescare o assecondare.
20 Gennaio 2014
Francesca Battistoni
In che modo i contesti urbani possono contribuire allo sviluppo economico di un territorio e di un intero sistema Paese? Secondo i tre studiosi Bruce Katz, Jennifer Bradley e Julie Wagner nella misura in cui sono in grado di costruire reti ravvicinate di relazioni tra soggetti produttivi, mondo della ricerca, istituzioni e “facilitatori dell’innovazione “ all’interno di un contesto vivibile, e ben infratrutturato. Il loro libro The Metro Revolution: How Cities and Metros are Fixing our Broken Politics and Economy prova infatti a mettere in relazione i recenti cambiamenti economici con il nuovo ruolo assunto dalle città. Un processo che tocca nel profondo anche il nostro Paese e che le nostre metropoli devono dimostrare di essere in grado di innescare o assecondare.
Una confluenza di cambiamenti economici, demografici e culturali sta modificando la geografia spaziale dell’innovazione. Molti poli d’innovazione su scala regionale legati quasi esclusivamente ai parchi industriali manifestano una evidente sofferenza, mentre la città e lo sviluppo tecnologico urban-oriented sta crescendo. Molti casi a livello mondiale rilevano che i modelli distrettuali centrati sulla città metropolitana sono il cuore dello sviluppo.
Stiamo assistendo all’ascesa di un nuovo modello che Bruce Katz, Jennifer Bradley e Julie Wagner, nella loro ultima pubblicazione, chiamano il Distretto dell’Innovazione e che è caratterizzato dall’avere istituzioni chiave e all’avanguardia, imprese innovative con spin-off e start up che permettono la crescita di talenti, la promozione della collaborazione aperta, e offrono un ambiente accogliente e ricco di servizi peri residenti e i lavoratori.
I distretti dell’innovazione sono più piccoli dei loro predecessori, sia di quelli come la Silicon Valley che dei nostri distretti industriali, più compatti e rappresentano quello che Saskia Sassen chiama "cityness": l’insieme di usi della città che la rendono complessa, densa, un mix di ambiente fisico e sociale completamente integrato.
Con l’ascesa del paradigma dell’open innovation e la generazione di idee in rete, l’imperativo della collaborazione è esteso a un ampio gruppo di settori ad alta intensità di conoscenza, tra cui campi scientifici e tecnologici. Nessuna singola azienda può padroneggiare tutte le conoscenze di cui ha bisogno, anzi, l’innovazione si basa su una rete di imprese collegate per cui le aziende devono collaborare per competere. Inoltre l’open innovation stessa ci insegna che imprese e persone debbano interagire nella costruzione fisica della città: i distretti dell’innovazione favoriscono la riprogettazione di edifici e spazi a sostegno dell’open innovation e forniscono una piattaforma fisica e sociale per la crescita imprenditoriale.
Ma quali sono le caratteristiche dei distretti dell’innovazione?
I tre pilastri dei distretti di innovazione, a detta di Katz, sono:
- Gli asset economici: sono i driver dell’innovazione e comprendo le istituzioni “ancora” ossia le grandi imprese o i centri di ricerca che possono fare da traino per lo sviluppo, le PMI , le start up, gli spin-off e gli imprenditori focalizzati sullo sviluppo di tecnologie d’avanguardia e di prodotti e servizi per il mercato. In questi asset rientrano anche quelli che gli autori chiamano “i coltivatori di innovazione”: le organizzazioni o gli enti che sostengono la crescita delle imprese ossia gli incubatori, gli acceleratori, gli uffici di trasferimento tecnologico, i centri per l’imprenditorialità sociale.
- Gli asset fisici: da un lato si tratta di spazi pubblici che diventano il terreno dell’ innovazione: l’arredo urbano, l’illuminazione, il paesaggio, le piazze, i parchi; dall’altro si intende il “sistema nervoso” del distretto ossia lo spazio digitale: reti wireless, fibre ottiche, computer e display digitali.
- Gli asset di rete: le attività di rete sono il tessuto connettivo tra attori-individui, imprese e istituzioni in un quartiere dell’innovazione. La decisione di fare del “networking” un asset a sé, è supportata da un crescente corpo di ricerca che rivela come le reti sono sempre più importanti in un sistema guidato dall’innovazione e in questo la storia della Silycon Valley aiuta.
L’intreccio di tali attività svolge un ruolo importante nella creazione di un ecosistema dove vige un rapporto sinergico tra l’innovazione, le imprese, il capitale umano (ricercatori, docenti, tecnici, dirigenti) e le risorse (fondi, attrezzature, tecnologia, supporto programmatico), che catalizza il processo e accelera l’innovazione.
Il lavoro di Katz, Bradley e Wagner ha individuato tre modelli generali, o tipologie di distretti dell’innovazione:
1) Il modello "ancora plus”: si tratta delle città di metropolitane, dove i distretti dell’innovazione sono sviluppati grazie alla presenza attiva di un importante “ancoraggio”, tipicamente un’Università o una grande azienda che fanno da motore per il distretto. Per esempio la Philadelphia University City (che ha come ancora l’Università di Pennsylvania, le Drexel University e la City University Science Center ); il caso San Diego ( dove troviamo il Salk Institute per gli Studi Biomedici , il Burnham Institute e la University of California) e Pittsburgh ( qui il distretto si sviluppa intorno alla costellazione della Carnegie Mellon University, l’Università di Pittsburgh e l’Università di Pittsburgh Medical center).
2) Il modello “ revitilising urban district” che troviamo in prossimità delle aree lungo mare o delle città portuali. Si tratta di rigenerazione di aree urbane degradate come per esempio il Seaport Boston , il Liverpool waterfront ecc. La prima area che gli autori hanno studiato per individuare questo modello è stata la città di Barcellona quando tutta la zona nord è stata riprogettata e questo ha portato ad avere una nuova immagine della città.
3) Il modello del "parco scientifico urbanizzato" dove troviamo come esempi la Route 128 fuori Boston, il corridoio Dulles fuori Washington DC e la stessa Silicon Valley.
Il Distretto dell’Innovazione è stato studiato soprattutto nelle città americane, ma Katz e Wagner hanno individuato quale dei modelli farebbe al caso delle città italiane nelle quali il modello del distretto industriale deve necessariamente essere rivitalizzato. Si tratta del primo modello, quello definito “ancora plus”, considerato per loro quello più funzionante anche nelle città americane. Alcune città metropolitane italiane hanno Università e centri di ricerca che possono fare da traino, anche se, gli autori hanno sottolineato come ci sia bisogno di una forte volontà politica per investire in ricerca e innovazione, in modo che queste istituzioni possano davvero fare da ancora per un distretto innovativo. Negli Stati Uniti le Università non si occupano solo di formazione, ma grazie agli investimenti del governo in ricerca riescono a occuparsi di imprenditorialità, divenendo attori centrali della produzione di crescita e innovazione. La questione delle risorse dunque è centrale anche per lo sviluppo di distretti in aree metropolitane italiane. La volontà politica rimane alla base della costruzione di un qualsiasi distretto dell’innovazione.