L’ancoraggio dell’innovazione (sociale) allo spazio fisico
L’identità di gruppo è un componente essenziale dell’innovazione sociale, così come la condivisione di un progetto comune che dia risultati tangibili a breve. Lo spazio fisico di riferimento è l’ideale per una costruzione fluida dell’identità: non c’è bisogno di decidere chi è dentro e chi è fuori, basta andare, esserci; più ci vai più sei parte del progetto, quando non ti identifichi più non ci vai più. Così il luogo diventa la sommatoria delle intenzioni, delle aspirazioni, dei valori, di chi ci va, una collettività rispecchiata e restituita, sempre aggiornata.
9 Giugno 2014
Jesse Marsh*
L’identità di gruppo è un componente essenziale dell’innovazione sociale, così come la condivisione di un progetto comune che dia risultati tangibili a breve. Lo spazio fisico di riferimento è l’ideale per una costruzione fluida dell’identità: non c’è bisogno di decidere chi è dentro e chi è fuori, basta andare, esserci; più ci vai più sei parte del progetto, quando non ti identifichi più non ci vai più. Così il luogo diventa la sommatoria delle intenzioni, delle aspirazioni, dei valori, di chi ci va, una collettività rispecchiata e restituita, sempre aggiornata.
Seguendo le presentazioni di FabriQ, Cinema Impero e riflettendo su altri casi, che in occasione della 25ª edizione di FORUM PA sono intervenuti nel corso del Convegno “Coinvolgere i cittadini e co-creare soluzioni. Modelli e pratiche a confronto”, è emersa l’importanza del luogo fisico nei processi di innovazione sociale. Una buona percentuale delle più interessanti iniziative, digitali e non, emergenti è dentro un qualche spazio degradato, generalmente di proprietà pubblica, restaurato e recuperato per la fruizione. E’ come se avessimo bisogno, in mezzo a tutte le comunità virtuali di cui facciamo parte, di uno spazio fisico per costruire l’identità e di erigere quello stesso spazio con le nostre mani.
L’identità di gruppo è un componente essenziale dell’innovazione sociale, così come la condivisione di un progetto comune che dia risultati tangibili a breve. Lo spazio fisico di riferimento è l’ideale per una costruzione fluida dell’identità: non c’è bisogno di decidere chi è dentro e chi è fuori, basta andare, esserci; più ci vai più sei parte del progetto, quando non ti identifichi più non ci vai più. Così il luogo diventa la sommatoria delle intenzioni, delle aspirazioni, dei valori, di chi ci va, una collettività rispecchiata e restituita, sempre aggiornata.
Cosa vuol dire tutto questo a chi amministra la città? Questi fenomeni, che sembrano succedersi in una concomitanza quasi magica di fattori irripetibili, sono invece coltivabili con qualche azione di policy? Dove c’è la parte smart ? Nella formazione del gruppo di cittadini, nei processi di co-progettazione, nella rete wifi? Tanti sono i palazzi restaurati – anche dati in gestione a qualche associazione – che sono rimasti vuoti. Tanti sono gli spazi – con le città che impercettibilmente si stanno svuotando – che chiedono di essere creativamente restituiti alla comunità. Ecco il tema per un workshop: mettiamo insieme tutti i gruppi fablab/co-work/digital/social e ce ne sono tanti, che hanno un bel palazzo come punto di riferimento, per riflettere insieme su come far diventare la loro magia una possibilità aperta a tutti.
Quale innovazione sociale?
In questa sessione sulla co-creazione al Forum PA, diverse presentazioni di grande interesse e fortemente creative hanno puntualizzato che loro fanno innovazione sociale, da non confondersi con i gruppi start-up & co che fanno innovazione tecnologica. In effetti, queste esperienze hanno origine nella lunga tradizione di esperienze partecipate nel sociale, nell’ambiente e/o nella rigenerazione urbana (per citare una delle relatrici), mentre gli altri sono tutti programmatori che aspirano di finire nella Silicon Valley. La Commissione Europea infatti, nello sviluppare le recenti politiche per l’innovazione sociale, ha pensato bene di identificare tre tipologie distinte: innovazioni nel sociale, innovazioni che affrontino le sfide della società (applicando nuove tecnologie per settori quali trasporti, energia, ecc.) e cambiamenti dei modelli di organizzazione sociale (rivoluzione, nella forma di fablab, co-work, ecc.).
Peccato che questa distinzione diventi occasione per tracciare steccati piuttosto che per comprendere la potenziale ricchezza dell’innovazione sociale. Certo, è più comodo restare all’interno del proprio linguaggio e modi di fare, ma agli innovatori ‘sociali’ non viene voglia di co-progettare un’app scoprendone le possibilità assieme ai coder e a quest’ultimi non viene voglia di dedicare i loro sforzi a migliorare la vita di chi ne ha veramente bisogno, piuttosto che lavorare su rappresentazioni generiche e astratte delle ‘sfide sociali’. Quanto sarebbe esplosiva la miscela di queste due comunità – i sociali e gli hi-tech – che vengono da storie molto diverse anche se altrettanto ricche e che oramai condividono la cosa più importante per poter collaborare: non il linguaggio, non le competenze disciplinari, ma l’etica della condivisione.
Ma forse per questo la Commissione ha indicato una terza categoria: quella dei rivoluzionari.
* A questo link la biografia dell’autore.