Le città a colori: diversità, disomogeneità, relazioni siano valori non problemi

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L’Italia ha un drammatico problema di rapporto debito/PIL. Per uscirne occorre ridurre il debito e tornare a crescere. Per fare questo in modo più rapido possibile e in un quadro di competizione globale, le città rappresentano i nodi decisivi di rete da rafforzare, aiutare, stimolare. Questa volta come editoriale vi voglio regalare un breve saggio sul tema di Mauro Bonaretti, direttore generale di Reggio Emilia e presidente di Andigel che i nostri lettori ben conoscono. Mauro parte dallo stato dell’arte, non certo soddisfacente, del rapporto tra governo centrale e autonomie locali per lanciare un appello che è anche un manifesto culturale: abbandoniamo la visione delle città in bianco e nero e abbracciamo il progetto di una città a colori dove diversità, disomogeneità, relazioni sono valori non problemi.

19 Settembre 2012

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

Sono molti mesi che, anche a seguito delle politiche dell’Unione Europea e, a seguire, del Governo italiano, parliamo di città. Questa volta come editoriale vi voglio regalare un breve saggio sul tema di Mauro Bonaretti, direttore generale di Reggio Emilia e presidente di Andigel che i nostri lettori ben conoscono.
Mauro parte dallo stato dell’arte, non certo soddisfacente, del rapporto tra governo centrale e autonomie locali per lanciare un appello che è anche un manifesto culturale: abbandoniamo la visione delle città in bianco e nero e abbracciamo il progetto di una città a colori dove diversità, disomogeneità, relazioni sono valori non problemi.
L’Italia – dice Mauro Bonaretti – ha un drammatico problema di rapporto debito/PIL dovuto a un eccesso di debito e a una gravissima crisi produttiva. Per uscirne occorre ridurre il debito e tornare a crescere. Per fare questo in modo più rapido possibile e in un quadro di competizione globale, le città rappresentano i nodi decisivi di rete da rafforzare, aiutare, stimolare.

Leggiamo insieme questo importante contributo al dibattito sulle politiche urbane.


Le città a colori: una alternativa per tornare a crescere.
di Mauro Bonaretti

Quando alcune narrazioni diventano egemonia culturale è sempre difficile proporre alternative. Perciò mi sono chiesto se abbia senso provare a farlo o se non sia ormai una perdita di tempo. Soprattutto mi sono chiesto se ha ancora senso proporre riflessioni quando l’agenda del governo e dei partiti è così chiaramente dettata dai media e dal bisogno di aderire alla retorica dominante.
Il caso delle politiche sulla pubblica amministrazione locale è in questo senso un caso paradigmatico. Quindi, certo della sua inutilità pratica, ho trovato tuttavia lo sforzo interessante sul piano intellettuale.

Le città in bianco e nero

Le politiche nazionali di intervento sulle autonomie locali attuate negli ultimi anni sono il frutto di una tipica rappresentazione novecentesca “in bianco e nero” che si può riassumere sinteticamente. L’Italia ha un colossale problema macro economico: il rapporto debito/PIL è eccessivo, perciò occorre ridurre la spesa e per farlo, oltre a tagliare i trasferimenti, occorre accentrare le politiche gestionali, introducendo regole, aumentando i controlli, inasprendo le sanzioni. Questo approccio dirigista si traduce in un proliferare di nuove leggi sulla dirigenza, sul lavoro pubblico, sui limiti a tipologie di spese, sull’organizzazione del lavoro, sui modelli gestionali, sull’impiego delle risorse, sui sistemi di valutazione, sulle logiche contabili, sull’uso delle tecnologie, ecc. A queste norme corrispondono poi ovviamente l’introduzione di nuove strutture di controllo, strumenti di rendicontazione degli adempimenti, meccanismi di sanzione collegati.

Alla base di queste scelte vi sono tre grandi principi ordinatori. Il primo è quello dell’uniformità. In questo approccio la diversità, la differenza, la disomogeneità di scelte e comportamenti sono un limite rispetto alla capacità di mantenere un controllo centrale da parte dello Stato, esattamente come postulato all’alba dell’unità d’Italia. Il secondo criterio è quello della supremazia dello strumento legislativo tra il ventaglio dei possibili strumenti di public policy. Infatti, anche in virtù della coerenza col principio dell’uniformità, (oltre a ragioni culturali del policy network dominante e di presunta rapidità attuativa) le soluzioni adottate sono tutte di carattere normativo. Il terzo principio, connesso strettamente agli altri due, è quello della sfiducia dello Stato nei confronti delle autonomie locali e dei loro civil servant. Questo principio trova sponda favorevole, da un lato, nelle recenti campagne mediatiche su casta, fannulloni, antipolitica ecc. e, dall’altro, nella cultura gerarchica statale che vede nella delega e nell’autonomia non anche una importante opportunità organizzativa, ma principalmente una pericolosa forma di perdita del controllo. La logica sottesa è che, dato per scontato che chiunque abbia potere è portato ad abusarne, allora è preferibile limitare la distribuzione del potere e della discrezionalità. Quando ciò sia proprio inevitabile, deve avvenire mediante regole e procedure ben definite alle quali è necessario accompagnare l’introduzione di stringenti meccanismi ispettivi per verificarne il rispetto degli adempimenti.      

Questo impianto complessivo non ha nulla di nuovo e ricalca una impostazione molto conosciuta. Lo stilema è infatti quello che fa capo ai paradigmi propri delle grandi tradizioni dello stato liberale, della burocrazia weberiana, dell’homo oeconomicus.
Non si può in astratto affermare che sia un paradigma sbagliato. Ma a mio parere si può affermare che questo approccio è sbagliato in concreto oggi: l’Italia oggi ha bisogno di più innovazione e non di più burocrazia

Tornare oggi al bianco e nero: una scelta incoerente, una strategia sbagliata, una contraddizione logica, una strada irrealizzabile.

È sbagliato per quattro ragioni. La prima è di coerenza con la struttura sociale. Il paradigma burocratico era coerente in una società essenzialmente fordista: standardizzazione e classi sociali ben definite avevano nel centro e nello Stato il grande protagonista regolatore e nei modelli gerarchici dell’uniformità il proprio principio ordinatore di funzionamento. Non è più coerente quel modello nella società post fordista dove una pluralità di centri sono chiamati a dialogare tra loro orizzontalmente in una logica di rete globale, dove le città competono tra loro in Europa e nel mondo, dove sussidiarietà orizzontale, crowdsourcing e prosumer rappresentano nuove logiche che rendono più labili i confini, ad esempio, tra chi produce e chi fruisce di prodotti e conoscenza o tra pubblico e privato nella cura dei beni comuni. La scelta, dettata dal timore di perdere ruolo e controllo, di opporsi a questa nuova realtà sociale (anziché di accompagnarla con coerenza in un ridisegno istituzionale), attraverso un movimento opposto di ricentralizzazione è ovviamente destinata a fallire come tutte le scelte antistoriche. L’unico effetto è quello di contribuire a far divergere ulteriormente e in modo incomprensibile la società (sempre più a rete e orizzontale) e le istituzioni (sempre più centraliste e gerarchiche), con conseguenze dirompenti sul piano della fiducia tra istituzioni e cittadini.

Una seconda ragione per cui ritengo sbagliato l’approccio in bianco e nero è di tipo strategico. Pensare di aumentare la credibilità del Paese riducendo il rapporto debito/PIL tramite una crescita dell’avanzo primario, conseguito attraverso maggiori vincoli alle città è esattamente come promettere di aumentare la bancabilità di un signore pieno di debiti, che si trova oggi disoccupato, spiegandogli che deve rinunciare al caffè del bar. È del tutto evidente che il primo problema per quel signore sarà quello di ritrovare un buon lavoro. E ormai è chiaro a tutti gli osservatori che il problema del Paese è quello della crescita e che il problema del debito non può essere affrontato con l’avanzo. Ma non va dimenticato che le scelte effettuate nei confronti degli enti locali non sono state improntate verso una strategia di crescita, ma piuttosto verso la strategia di un Paese che pensava di risolvere il problema del debito risparmiando il caffè.
In realtà la possibilità di crescita si gioca solo in un panorama di competizione globale in cui il ruolo delle città è determinante: si pensi per esempio al welfare, all’educazione, all’attrazione di centri di competenza e di ricerca, allo sviluppo delle politiche di risparmio energetico e di contenimento dei rifiuti, alla mobilità sostenibile, alla infrastrutturazione tecnologica, alle strategie di sviluppo basate sulle competenze distintive dei territori. Di fronte a queste sfide è del tutto ovvio quanto sia assurdo imbrigliare le città entro regole uniformi, vincoli, logiche organizzative tese a ridurre la discrezionalità e gli spazi di azione. Se la strategia del caffè è senza speranza, per la strategia della crescita le norme sugli enti locali (partorite nei giorni della strategia del caffè), sono oggi una ulteriore zavorra, utile solo a correre più piano.

Una terza ragione riguarda la dimensione organizzativa. Introdurre per legge logiche di management, modelli di gestione, strumenti di organizzazione è come pensare di conservare il barolo in contenitori di cartone. Semplicemente non è possibile. Non hanno nulla a che fare uno con l’altro. Il management c’è dove esiste discrezionalità, dove è possibile esercitare autonomia, dove esistono spazi di azione e decisione, dove esiste delega e fiducia, dove il controllo è interno all’organizzazione e nel rapporto col suo ambiente di riferimento, dove la valutazione è apprendimento e sviluppo. Il management è un fatto di relazioni sociali tra gli attori del sistema organizzativo (cittadini compresi), non un fatto giuridico. Le politiche organizzative sono per definizione scelte locali, non vincoli nazionali. Cosa importa allo Stato se un Comune differenzia o meno le retribuzioni dei propri assistenti sociali? È un problema di strategie organizzative e di relazioni tra amministrazione e lavoratori e tra amministratori e amministrati, non certo un problema dello Stato o della Corte dei conti. Il management richiede innanzi tutto contestualizzazione rispetto alle specifiche condizioni socio-organizzative. Se notoriamente non esiste una one best way manageriale, allora è del tutto evidente che esiste una paradossale contraddizione tra le esigenze di contestualizzazione, proprie del management e le caratteristiche tipiche della norma che per definizione è generale e astratta. Infatti più il management è prescritto, più ci si allontana da un approccio ai risultati e più cresce una richiesta di adempimento (compliance) alla quale fanno da complemento controlli e valutazioni dell’OIV, della Corte dei Conti, del Ministero dell’Economia, di quello della Funzione Pubblica, della Civit oltre ad eventuali ricorsi al tribunale amministrativo ecc. Non c’è allora da stupirsi se il comportamento di un normale dirigente non è orientato a gestire in modo manageriale i propri obiettivi e le proprie risorse: è infinitamente più potente l’incentivo a rispettare in modo burocratico gli adempimenti per evitare le possibili sanzioni di una pletora di organismi di controllo. Le norme sul management pubblico cioè si trasformano immediatamente in altre scartoffie e burocrazia. In definitiva in un costo pauroso per il sistema pubblico.

Una quarta ragione riguarda l’efficacia delle norme come strumento di attuazione delle politiche. Lo si ripete ormai da almeno venti anni: le riforme dall’alto per via normativa sono apparentemente più veloci ma sono in realtà infinitamente più lente perché una volta legiferate, le norme devono essere poi attuate. Il sistema che si sta producendo di provvedimenti che rimandano a una catena di successivi decreti attuativi sta creando una confusione incredibile tra gli addetti ai lavori, impegnati molto più a orientarsi in un ginepraio instabile di incognite che a pensare al bene dei propri cittadini. Lo status report dei provvedimenti attuati e da attuare che il Sole 24 ore pubblica periodicamente è imbarazzante e il grafico spiega, molto più delle parole, l’inconcludenza di un gigantesco sforzo di produzione normativa dall’alto e di interpretazione dal basso. Il risultato è quello di un sistema caotico che si trasforma in cortina fumogena: la proliferazione normativa inibisce la regolazione autonoma delle politiche gestionali a livello locale e, contestualmente, diviene alibi per la deregulation totale in attesa di chiarimenti.

Come sottolineava alcuni giorni or sono Dario Di Vico sul Corriere della Sera con riferimento alla riforma Fornero, mentre a livello centrale ci si avviluppa in questa inestricabile selva, nei territori si produce autonomamente innovazione. Le migliori esperienze di innovazione nelle amministrazioni italiane sono avvenute proprio nelle autonomie locali quando le norme avevano allargato gli spazi di azione. Ciò non è accaduto per via normativa, ma spontaneamente per rispondere alle esigenze dei cittadini e grazie agli spazi che le norme sull’autonomia avevano concesso. Occorrerebbe partire di lì. Capire quali sono le esperienze migliori e capire quali sono le condizioni che le hanno rese possibili. Occorre rendere percorribili quelle condizioni e stimolare innovazione utile a creare crescita e sviluppo. Esattamente come fanno gli altri Paesi del mondo. Basterebbe osservare le evidenze: hanno registrato migliori performances i Comuni, quando erano dotati di autonomia o le strutture periferiche dello Stato rigorosamente improntate alla uniformità e soggette a centralizzazione? Quello che è certo è che da alcuni anni si cerca più di far aderire le autonomie locali al modello delle strutture periferiche dello Stato che non viceversa. Ciò che invece è totalmente ignoto è sulla base di quali evidenze empiriche si sia assunta questa scelta.
In realtà empiricamente è dimostrabile il contrario: proprio grazie all’autonomia l’Italia ha conosciuto la sua migliore stagione di innovazione nelle città. È solo una sorta di masochismo istituzionale quello che ci sta facendo andare in direzione opposta.
D’altra parte non è certo una novità che nel nostro Paese le politiche prescindano da una minima valutazione degli effetti. 

Le città a colori

Credo allora si debba semplicemente cambiare il racconto riavvolgendo il nastro. L’Italia ha un drammatico problema di rapporto debito/PIL dovuto a un eccesso di debito e a una gravissima crisi produttiva. Per uscirne occorre ridurre il debito e tornare a crescere. Per fare questo in modo più rapido possibile e in un quadro di competizione globale, le città rappresentano i nodi decisivi di rete da rafforzare, aiutare, stimolare. Il rapporto tra stato e autonomie locali richiede una potente azione di supporto istituzionale sul piano dei network relazionali, sul piano della capacità di innovazione delle politiche, sulla progettualità territoriale congiunta. Occorre ad esempio aiutare le città ad attrarre investimenti giocando le reti di relazione e l’autorevolezza dello Stato; occorre rapidamente favorire lo sviluppo di infrastrutture di rete, funzionali alla crescita in raccordo con le istituzioni nazionali; sviluppare modelli di welfare capaci di coniugare politiche pubbliche e secondo welfare, nell’ambito di sperimentazioni nazionali condotte da città e player finanziari nazionali e internazionali sotto la regia del Governo; favorire aggregazioni e reti di multiutility sul piano dell’approvvigionamento energetico, ecc. Alcune di queste strategie sono già in campo, altre sarebbero da avviare, molte altre ancora sarebbero da aggiungere. Per queste strategie di crescita occorrono città con le gambe forti e con la possibilità di muoversi in modo leggero. Con autonomia, flessibilità, rispetto dei diversi bisogni. C’è bisogno di sbloccare il sistema, di innovare, di fare entrare aria fresca. Occorre lasciare alle città lo spazio per concentrarsi sulle politiche di crescita, liberare risorse, accogliere e fare entrare competenze nuove. Più si pongono vincoli (assuntivi, di tipologia di spesa, di modelli di gestione, di reclutamento, ecc.) più si riduce la possibilità di “usare” le città come potenti motori della crescita. È necessario cambiare logica e soprattutto politiche. Oggi si costringono le città a ripiegarsi sempre più su se stesse, nel tentativo di arginare una condizione di difficilissima agibilità. Le risorse mentali, emotive, professionali sono tutte concentrate su tecnicismi, scappatoie e sguardi interni, rivolti alla sopravvivenza o a condurre ridicole battaglie per parare il qualunquismo.

L’esatto contrario di ciò che servirebbe. E a paralizzare le città, più dei tagli, sono i vincoli e il clima da oscurantismo in bianco e nero che è stato maldestramente costruito. Risorse e competenze sprecate.
Occorre uscire dalla convinzione che sia bello tornare al bianco e nero. Per fare questo è drammaticamente urgente aggiornare i principi e le culture. In primo luogo nella società della rete, diversità, disomogeneità, relazioni sono valori non problemi. L’uniformità è solo conformità ma non necessariamente capacità di rispondere a bisogni differenziati. Al contrario uniformità diviene decontestualizzazione. Contestualizzare richiede innanzi tutto autonomia e flessibilità (poter cambiare). In secondo luogo i colori delle politiche pubbliche sono tanti. Usiamoli tutti, non solo le leggi. C’è da ricostruire un clima nel Paese sul valore del lavoro pubblico, sul senso del lavoro pubblico. C’è un enorme bisogno di dare spazio a tutti gli innovatori che stanno dentro e fuori all’amministrazione e che hanno voglia di cambiare. Si tratta semmai di aprire spazi non di chiuderli. Ma non è solo un problema di norme. Si tratta di culture, valori, impegno civile. Se un dirigente chiude gli spazi di partecipazione ad un proprio collaboratore non ci sarà mai nessuna norma o nessun incentivo economico a poterlo impedire. Semplicemente è necessario che le organizzazioni investano sui valori e sulle competenze delle persone: solo così avremo dirigenti senza paura di ascoltare. Ancora una volta non si tratta di inventare nuove scuole, regole, strutture, autorità. Si tratta di ethos. Di capacità delle leadership di trasferire valori e principi. Se vogliamo è molto più un problema di comunicazione e di clima che non di norme, per scendere sul piano degli strumenti attuativi. È soprattutto un problema di processi reali da mettere in campo: si pensi ad esempio alle opportunità che un livello nazionale dedicato potrebbe offrire alle autonomie in termini di servizi, modelli di riferimento, funzionalità, strumenti, modelli strategici per innovare e favorire la crescita. Le strutture esistono già: occorre fare le cose. La differenza sui processi reali la fanno le persone non le strutture: occorre avere persone che sanno di cosa parlano, che conoscono i problemi non solo per averli letti (ma anche avendoli letti) e non solo per averli affrontati (ma anche per averli affrontati).

Questa strada è solo apparentemente più lenta, ma in realtà è molto più efficace e, se in questi dieci anni non fosse stata abbandonata miseramente, probabilmente sarebbero cambiate molte più cose di quanto non sia successo ritoccando mille volte le norme sui sistemi di valutazione senza mai valutarne gli effetti. Ci sono infinite questioni che riguardano i processi, le tecnologie, le relazioni con i cittadini, i sistemi informativi per elaborare e valutare le politiche pubbliche. Sono tutti fattori infinitamente più importanti di questa assurda perversione mediatica sui sistemi di valutazione del merito. Chiunque se ne sia occupato in modo professionale sul campo sa bene che questo è l’ultimo tassello di una perfetta organizzazione ed è peraltro assolutamente incompatibile con la perdurante richiesta normativa di oggettività. Non è certo questa la priorità. La vera differenziazione l’avremo se smetteremo di mettere protesi di ferro a chi ha le gambe per correre. Perché il vero appiattimento non è tanto quello retributivo, ma il conformismo che le norme calate dall’alto impongono a tutti indifferentemente, imbrigliando proprio i migliori. Facciamo funzionare concretamente le organizzazioni: è un problema di processi, risorse, politiche e competenze professionali, non di norme se non nel senso di eliminare quelle che vincolano l’azione. Il Paese va sbloccato e liberato dalle norme, non imbrigliato in un ipocrita e formale SuperIo, perennemente frustrato.

In terzo luogo occorre recuperare fiducia tra tutti gli attori. Per quale strano motivo antropologicamente un funzionario comunale dovrebbe essere più corrotto di un funzionario dello Stato? Su quale base empirica la centralizzazione delle scelte gestionali nelle amministrazioni statali dovrebbe ridurre i rischi di corruzione? Se esistono casi di cattiva amministrazione siano individuati dalla magistratura e puniti severamente, ma non si mettano i gessi e le ganasce a un Paese intero che per crescere ha bisogno di essere sbloccato. Tutti i dati dimostrano che le autonomie locali hanno fatto, più di ogni altro livello istituzionale, la propria parte nel risanamento del Paese. Se non si abbatte il principio della sfiducia non avremo mai protagonismo. Spesso si ripete che il problema delle amministrazioni italiane non è tanto quello di essere sovradimensionate quanto quello di non raggiungere adeguati livelli di produttività. La produttività non si migliora con le pagelle, ma con il protagonismo, la delega e la fiducia. Abbiamo bisogno delle energie di tutti. Questo vale in tutte le relazioni: tra Stato e enti locali, tra istituzioni e lavoratori, tra istituzioni e cittadini. Abbiamo bisogno di fiducia, da un lato, ma anche di rendicontazione, trasparenza e controllo, dall’altro. Ma rendicontazione significa rendere conto di come si è usata la propria autonomia e discrezionalità perché si possa essere valutati, non certo significa, come oggi accade, dimostrare di non avere usato discrezionalità e autonomia per non essere sottoposti a sanzioni. Così la sacrosanta esigenza di trasparenza non significa come oggi accade, distribuire pastiglie per il voyeurismo anticasta, ma agire alla luce del sole perché la fiducia e il rispetto tra gli attori è tale da non avere nulla da temere l’un l’altro. Nessuna legge potrà imporre questo, ma solo persone di valore, messe nelle condizioni di farlo.

Conclusioni: una politica per liberare le città. 

È anacronistico pensare di tornare al bianco e nero nella società della rete. Crescere significa poter contare su città libere di competere e innovare sul piano delle politiche e della propria organizzazione.

È penoso pensare di vivere in un Paese nel quale una città che, ad esempio, abbia un piano di sviluppo strategico per il rilancio di un’area, con risorse a disposizione, non possa istituire una task force dedicata perché non può assumere, perché non può dare consulenze, perché non può investire e magari perché non può nemmeno comunicare per attrarre gli stakeholders.

È penoso osservare che lo Stato anziché favorire quel piano, ad esempio, facilitando le relazioni con investitori internazionali o con le istituzioni europee, di fatto lo renda impossibile con mille vincoli e divieti.

Serve un grande piano strategico nazionale, sostenuto dal Governo, per ridare i colori alle città. Si attuino ad esempio sperimentazioni in aree pilota con programmi congiunti (sulla base di piani di azione locale molto strutturati e valutati ad alto impatto moltiplicatore di crescita) tra governo e autonomie locali, identificando, da un lato, gli ostacoli alla crescita e rimuovendoli in modo selettivo e, dall’altro, identificando i bisogni di supporto che il governo potrebbe fornire.

Basterebbero dieci programmi (fatti bene) per dieci città per avere una mappatura certa e ampia: sarebbe poi semplicissimo individuare le azioni chiave da mettere in campo in modo generalizzato per ridare slancio alle città come motori della crescita.
Non si tratta di individuare mediazioni possibili su singoli istituti (patto di stabilità, personale, dirigenza, spese, ecc.) e trovare una via mediana che non scontenti nessuno. Si tratta invece di assumere complessivamente il problema come una drammatica priorità del Paese, di rovesciare completamente il modo in cui il centro guarda al territorio e disegnare il contesto migliore per mettere le nostre città nelle condizioni di correre in Europa e nel mondo.
Non è più il tempo di legiferare per dare risposta ai luoghi comuni, né il tempo di inseguire tecnicismi burocratici: è il tempo di governare con altri strumenti per ridare al nostro tempo ancora una speranza.

È evidente che questo approccio richiede un ribaltamento del tradizionale ruolo gerarchico dello Stato per trasformarlo in un potente facilitatore e snodo di relazioni a favore dello sviluppo locale. Schiacciato tra il ruolo dell’Europa, da un lato, e il ruolo delle città, dall’altro, lo Stato centrale rischia di trovarsi senza una chiara identità nel quadro istituzionale, ma non è certo con una sorta di centralismo, fuori tempo massimo, che può recuperare l’autorevolezza perduta. Lo spazio di azione è infinito per tutti gli attori: Stato e autonomie.

Percorrerlo dipende solo dalle nostre capacità.

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