Non facciamo diventare la Smart City una moda “vuota”
Ieri ho passato una giornata a Reggio Emilia dal Presidente dell’ANCI Graziano Delrio a confrontarci con università, città, aziende e centri di ricerca su come utilizzare al meglio il bando del MIUR che finanzia ricerche e sperimentazioni sulle smart city e le smart community. Mentre discutevamo leggevo distrattamente la prima pagina di Repubblica online che apre con l’annuncio di una percentuale di poveri in Italia giunta ormai all’11,1%. Viene subito da chiedersi se possiamo permetterci di progettare ora le smart city, mentre la crisi morde i più deboli e la tempesta non sembra avere mai fine o stiamo partecipando a un ballo sul ponte del Titanic. La mia risposta è che investire nelle città intelligenti sia necessario e opportuno, ma a determinate condizioni.
18 Luglio 2012
Carlo Mochi Sismondi
Ieri ho passato una giornata a Reggio Emilia dal Presidente dell’ANCI Graziano Delrio a confrontarci con università, città, aziende e centri di ricerca su come utilizzare al meglio il qui le slide presentate da Delrio]. Mentre Delrio esponeva una visione di città intelligente profondamente centrata sul valore delle persone, sulla coesione sociale e l’educazione continua, leggevo distrattamente la prima pagina di Repubblica online che apre con l’annuncio di una percentuale di poveri in Italia giunta ormai all’11,1%. Viene subito da chiedersi se possiamo permetterci di progettare ora le smart city, mentre la crisi morde i più deboli e la tempesta non sembra avere mai fine o stiamo partecipando a un ballo sul ponte del Titanic. La mia risposta è che investire nelle città intelligenti sia necessario e opportuno, ma a determinate condizioni.
Evito l’ennesima definizione di città intelligente, se volete un dossier specifico sulla materia potete consultare la nostra ultima fatica www.smartinnovation.it o leggere il bel libro di Andrea Granelli “Città intelligenti? Per una via italiana alle smart city” sulle cui tesi mi ritrovo molto. Mi soffermo invece sulle luci e le ombre dell’ampio dibattito politico, tecnologico e scientifico che sull’argomento si è mosso negli ultimi mesi. Anche troppo ampio se poi non riusciremo a far seguire alle parole i fatti: spesso siamo soliti, infatti, usurare le parole e i concetti prima ancora di usarli e “smart city” corre certamente questo rischio.
Partiamo dalle luci: vedo una nuova e diffusa consapevolezza della centralità del vivere urbano, delle sue potenzialità e rischi, dell’importanza che l’innovazione sociale, spinta anche dall’innovazione tecnologica, può avere nelle città per migliorare la qualità della vita dei cittadini, il loro benessere, le loro potenzialità (capabilities direbbe Amartya Sen). Vedo uno stato nascente della riflessione e con esso entusiasmo e creatività; vedo finalmente un po’ di stanziamenti: tra una cosa e l’altra oltre un miliardo di euro sul tema; vedo infine un’attenzione molto politica a che questi investimenti abbiano un impatto reale sulla qualità della vita dei cittadini.
Se invece guardo all’altra faccia della medaglia altrettanto importanti sono i rischi di una visione semplicistica e ingenuamente tecnologica delle città intelligenti. La prima e più evidente negatività è quella della sineddoche: ossia dello scambiare una parte per l’intero. Possiamo pensare così di fare una smart city attraverso le cabine telefoniche, i semafori, l’illuminazione a led o altre lodevolissime cose che però, se non sono all’interno di una visione complessiva e sistemica della città e del suo futuro, rimangono appunto frammenti, tessere di un mosaico di cui non si legge il disegno. A questo fa riscontro il peccato originale dell’organizzazione di molte città: la parcellizzazione delle iniziative e la spezzettatura delle politiche a seconda delle deleghe assessorili. Essendo la smart city per definizione un progetto olistico rischia di essere senza padrone o, se nominalmente in capo al sindaco, senza chi quotidianamente se ne occupi. Senza una figura unica e autorevole di riferimento è molto difficile pensare a progetti complessi e necessariamente multidisciplinari come questo. Vedo che i processi partecipativi non sono messi alla base della progettazione, ma al massimo sono evocati e spolverati sopra come parmigiano sui maccheroni. Vedo infine una scarsa elaborazione concettuale: per dirla in una parola molti amministratori che si stanno approcciando alle smart city non hanno studiato e non studiano né si aggiornano su quello che succede nel resto del mondo.
Parto da qui per un personale e supersintetico elenco delle cose che vorrei si facessero e a cui noi stessi, con la nostra nuova occasione di incontro, studio e approfondimento data da Smart City Exhibition (Bologna 29-30-31 ottobre), stiamo provando a metter mano. Innanzi tutto più formazione per la dirigenza politica e amministrativa degli Enti locali: una formazione che apra la mente alle opportunità strategiche della tecnologia, ma sia sempre attenta a come coniugarla con l’impatto sui cittadini. Poi un elenco reale delle priorità della città intelligente che metta in primo piano i temi di massima rilevanza sociale nel qui e ora: il lavoro che non c’è, i bisogni sociali che scoppiano, il turismo che non riesce a decollare, la difficoltà a sentirsi e agire come “comunità educante” non solo per i giovani ma per tutti i cittadini in tutte le fasi della loro vita, il tessuto produttivo delle città che è spesso asfittico. Sì perché c’è il rischio di dimenticare che le città sono anche luoghi in cui si produce ricchezza.
Infine un nuovo rapporto di alleanza tra imprese fornitrici di tecnologie e città, basato su una visione ampia dei progetti, in cui le amministrazioni sappiano prendere il meglio dal sapere delle società tecnologiche e quest’ultime siano veramente al servizio di una visione strategica e non competano sul prezzo dell’ultimo device, ma su un’idea di città in cui tutti possano riconoscersi.