Paura del virus o paura per la libertà? Forse solo il desiderio di un “paese normale”
Gli italiani stanno reagendo in modo inaspettato alla crisi sanitaria e alle misure di prevenzione suggerite e imposte. Uso un’espressione volutamente forte, che tuttavia mi sembra adeguata a quanto osservo: quest’emergenza è forse quello che molti italiani aspettavano da anni per potersi finalmente riconnettere in qualche modo alla sfera politico-istituzionale
27 Maggio 2020
Marco Baldi
Responsabile Economia e territorio Fondazione Censis
Ne “L’equivalenza delle catastrofi” (pubblicato nel 2016 a seguito dei fatti di Fukushima) Jean Luc Nancy sostiene che uno tsunami, un terremoto, un’epidemia sono uguali. O meglio, lo sono nei loro effetti. Ogni sconquasso produce oggi “un’interconnessione, un intreccio, persino una simbiosi” che si riflette su ogni scambio culturale, politico ed economico. La complessità di sistemi interdipendenti guidati dall’interesse e dall’accumulazione impedisce risposte filosofiche (ed anche religiose) a sconquassi naturali. Per questo oggi il filosofo francese teorizza che non ha senso prendersela con i governi là dove sono impegnati nel creare continui stati di eccezione (con la relativa sospensione di diritti vari). L’eccezione virale esiste, e chi deve gestirne l’impatto, ne è un “mero e triste” esecutore.
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Però, però, qualche riflessione non filosofica, magari si può anche tentare. In questi giorni, attraversando quotidianamente la città di Roma, sto maturando la convinzione che gli italiani stiano reagendo in modo inaspettato alla crisi sanitaria e alle misure di prevenzione suggerite e imposte. Uso un’espressione volutamente forte, che tuttavia mi sembra adeguata a quanto osservo: quest’emergenza è forse quello che molti italiani aspettavano da anni per potersi finalmente riconnettere in qualche modo alla sfera politico-istituzionale.
La lacerazione nata con le indagini di tangentopoli e via via alimentata sia dalle ricorrenti nefandezze del ceto politico, sia da quelle non meno gravi di chi le ha cavalcate per ragioni di consenso (da costruire o da conservare), di ascolto, di marketing degli apparati mediatici, prima o poi andava suturata. Troppo forte era il disagio da abbandono, troppo il logoramento rancoroso, troppo lunga l’assenza di un riferimento a cui votarsi. Adesso finalmente è stato possibile riconnettersi, e in questi giorni viene fatto ampiamente e platealmente.
Ricordo che non più di 5 mesi fa, il Rapporto annuale del Censis misurava uno stato d’animo fortemente caratterizzato dall’incertezza nel 65% degli italiani (figuriamoci adesso!). E ricordo che lo stesso rapporto individuava nel 48,2% degli italiani il desiderio di un “uomo forte”, qualcuno che non dovesse troppo preoccuparsi di costruire in modo democratico il potere di cui dispone. Una percentuale, peraltro, che superava il 60% nei ceti sociali meno istruiti. Sono anch’io – mi si perdoni l’immodestia – molto lontano dal pensare (come invece ha fatto il filosofo Giorgio Agamben) che l’epidemia da Coronavirus abbia rappresentato una sorta di pretesto per instaurare continui stati di eccezione. La verticalizzazione del potere è un processo che si evidenzia in ogni stato di crisi, figurarsi in un’emergenza sanitaria.
In realtà, noto esattamente il contrario: sono i cittadini stessi che sembrano mettere in atto ogni sforzo possibile per mostrarsi “adempienti”, “aderenti”, “adeguati” ai comandamenti che vengono formulati e sciorinati dalle istituzioni centrali – peraltro con il consiglio e l’avvallo di una scienza ampiamente e palesemente divisa – nelle diverse fasi. Il cittadino crede al politico, vuole credergli, vuole credere che sia in grado di fare sintesi efficace ed autorevole dei tanti pareri scientifici. E cerca – in tutti i modi a lui consentiti – di mostrarsi disciplinato, addirittura più realista del re, addirittura complice nella reprimenda degli “irresponsabili”.
Per carità, posso pensare che quella quota non secondaria di persone che indossano la mascherina pur all’aperto e in assenza totale di altri esseri umani, siano semplicemente confusi e spaventati. Posso anche pensare che qualcuno ritenga di guidare un’auto mascherato perché ha maturato la convinzione che il virus si diffonda nell’aria come una sorta di nube tossica. Posso addirittura credere che gli amici ciclisti e podisti che la indossano durante il loro esercizio preferito abbiano svolto un’accurata comparazione tra i rischi virali e quelli relativi all’ipercapnia a cui si espongono. Infine, posso anche ipotizzare che le persone siano state deliberatamente e opportunamente terrorizzate per legittime ragioni di salute pubblica.
Ma mi sembrerebbe di volermi ingannare da solo. Penso invece che i cittadini utilizzino tali comportamenti manifesti per comunicare qualcosa. E che vogliano semplicemente dire: ti seguo, ci sto, sono adeguato, fai il tuo lavoro ed io farò diligentemente il mio senza pormi tanti problemi, tanti interrogativi. Mi stai chiedendo un piccolo sacrificio? Bene, lo faccio con spirito di collaborazione. E finalmente torneremo ad essere un paese dove qualcuno dispone e qualcuno esegue. Finalmente saremo di nuovo un grande paese normale!
Oddio, grande magari no, perché più o meno lo stiamo capendo tutti che torneremo piccinini, parecchio poverelli e un po’ malridotti. Ma con qualche bonus tireremo comunque avanti, anche facendo parte di quegli 11 milioni di famiglie che ritengono che il loro reddito complessivo si ridurrà, o di quei 4,5 milioni che temono fortemente per l’impiego del loro bread-winner (indagine Censis-Confcommercio, maggio 2020). E si alimenterà così il ciclo paternalistico nel quale siamo precipitati. D’altra parte non vedo il conflitto montare, e non vedo neppure indignazione diffusa per i destini incerti della nostra scuola.
Resta da capire una cosa: questo fatto di essere normali, ordinati e mansueti nell’emergenza, essendo stati sempre “particolari e birichini” nella ordinarietà, come si conciliano? Davvero mi piacerebbe sapere se tutto lo zelo civico che osservo oggi, si applicherà da adesso in poi anche al rispetto delle regole fiscali, delle norme urbanistiche, del diritto del lavoro, del semplice codice della strada.
Ma adesso basta con questi dubbi polemici, voglio chiudere tornando a sottolineare la grande “riconnessione” – sulla quale naturalmente posso sbagliare – ma che sento come una pulsione antropologica autentica e diffusa, davvero intimamente sentita: compatti si vince (sul virus e su tanto altro). Peccato solo che tutto ciò finisca per spazzar via l’ambizione di poter ragionare (magari su dati migliori di quelli che ci vengono forniti) senza diventare necessariamente complottisti, negazionisti, disfattisti, portatori di una qualunque “cultura del no”, o addirittura irresponsabili untori.